Un’esperienza di lavoro

Francesca Fabi

Mi sembra di aver trascorso questi cinque anni di insegnamento di fronte ad uno specchio, a dimensione intera, tenuto dalle manine impietosamente deliziose di alunni ed alunne che mi rimandano un’immagine di me stessa più sfaccettata del previsto.

Quanto racconto non è ciò che ho insegnato, ma quello che ho imparato, ad oggi, nella mia limitata esperienza di cinque anni di insegnamento di Educazione fisica, dopo una breve esperienza di supplenza nel 1989 e quasi vent’anni di lavoro passati in compagnia di adulti per la formazione o la gestione di gruppi di adulti, una laurea in Pedagogia, una borsa di studio annuale a Berkeley, vinta al secondo anno di Magistero, proprio nel 1989, ed un Master in Educazione Interculturale in Inghilterra. Profondamente coinvolgente ed intellettualmente formativa è stata la mia lunga collaborazione con il CD/LEI del Comune di Bologna, oggi Centro Riesco, attivo nelle politiche educative per minori immigrati.
Sono tornata a scuola a quarantacinque anni (per fortuna, mi sono sempre tenuta in forma) e insegno felicemente dal 2009 quella che continuo a chiamare Educazione fisica, in una Scuola Secondaria di Primo Grado della prima periferia di Bologna. Mi sembra di aver trascorso questi cinque anni di insegnamento di fronte ad uno specchio, a dimensione intera, tenuto dalle manine impietosamente deliziose di alunni ed alunne che mi rimandano un’immagine di me stessa più sfaccettata del previsto. Fortunatamente, le piccole conquiste quotidiane, raggiunte anche con la supervisione solidale, competente ed amichevole di colleghe e colleghi, contribuiscono ogni giorno a rendermi più gradita l’immagine riflessa.
Quanto segue sono parole chiave di un metodo personale di insegnamento che è il risultato di un infaticabile, continuo e capillare processo di apprendimento triangolare basato sull’interazione tra alunni/e – colleghe/i – il mio essere, quello che sono, per carattere e formazione.

IDENTITA’ DI GENERE

Cheer Leading
Ore 8:05, lunedì, classe prima. Presenti tutti/e, annuncio, avendolo preventivamente scritto sulla lavagna per evitare fraintendimenti linguistici, che la lezione di Educazione fisica di oggi consisterà in una presentazione di Cheer Leading, a cui tutta la classe, femmine e maschi, parteciperà attivamente. Sguardi circospetti delle femmine che non sanno cosa aspettarsi; rombi di tuono mascherati da umorismo da parte dei maschi, che apertamente temono d’esser de-mascolinizzati in ragazzi pon-pon. Provo a calmarli spiegando che si tratta di un’attività a tasso altamente muscolare-acrobatico finalizzata alla costruzione di piramidi umane e, finalmente, arrivo al punto dopo un attimo di silenzio: il pon-pon è l’oggetto che differenzia maschi e femmine in questa pratica ed è rigidamente riservato alle femmine.
Ore 9:15, in palestra. I maschi litigano ferocemente per il possesso dei pon-pon. I più leggeri, che ce l’han fatta ad acchiapparli e sono al vertice della piramide, li agitano ancheggiando mentre cantano l’inno imparato dall’istruttrice. L’insegnante cerca invano di racimolare un pon-pon da far provare alle bambine.

Il nastro
In genere, in palestra sono molto direttiva, per cui, quando lascio alla classe un po’ di tempo per il gioco libero, lo lascio libero davvero, nel senso che gli attrezzi piccoli e grandi sono a completa disposizione, con l’unica regola del non fare e non farsi male. Mi aggiro tra loro solo per assicurarmi dell’incolumità di ciascuno e che nessuno sia triste o solitario in un angolo, a meno che non abbia espressamente bisogno di star in pace per un po’. Faccio allora emergere, dai recessi di quello che chiamo il mio “ufficio”, tutta la mercanzia: il magic circle del Pilates preso a New York, lo stringidita per rinforzare i muscoli della mano il diabolo comprato a Emmaus, i Frisbee, gli elastici alti e lunghi originariamente per mutandoni comprati sotto le Due Torri, i nastri, colorati ed invitanti, piccoli attrezzi della Ritmica olimpionica. Un attrezzo squisitamente femminile. Le bambine li adorano e diventano abili. Trovandoli pronti e disponibili sul tavolo della palestra, per curiosità ed emulazione anche i bambini li provano ed è liberatorio e bello osservare quanto si divertano, varcando arbitrari confini di genere, provando in libertà quello che la creatività senza freni del momento suggerisce loro.

Lingua madre
Anche se necessario, trovo generalmente abbastanza indaginoso lo sdoppiamento di genere maschile-femminile che adotto usualmente parlando alle classi ed utilizzo anche in questo scritto.
È stato nel 2011 che ho avuto l’idea di far sperimentare un po’ di linguaggio non sessista ai miei alunni ed alle mie alunne più grandi. Precisamente, in una terza, una classe a me non particolarmente cara (ereditata dall’ottimo insegnante che mi aveva preceduta e da loro sempre comprensibilmente rimpianto), ma con un buon senso dell’umorismo, sportiva, per così dire, nel suo modo creativo di non aver voglia di far granché. L’idea me l’ha implicitamente suggerita la classe stessa, proprio per questo suo essere un po’ fuori dagli schemi.
Una mattina dell’inizio del secondo quadrimestre, in classe ho semplicemente detto loro che intendevo far sperimentare a tutti l’esclusione dalla lingua costantemente subìta dalle femmine. Non ricordo più quali siano state le prime reazioni, ma, soprattutto da parte dei pochissimi più ‘machi’, qualche tentativo di opposizione c’è stato ed è anche abbastanza rimasto. L’accordo o, veramente, l’annuncio della procedura, poiché non è che abbia veramente chiesto il loro assenso per ciò che avrei fatto, era il seguente: quando li avessi chiamati, avrei detto “ragazze”, anziché “ragazzi” e avrei detto “brave”, anziché “bravi”. La reazione delle femmine all’annuncio è stata entusiasta e, con la loro consueta irruenza, alcune si sono voltate verso i maschi difendendo con allegra veemenza la posizione.
Dopo le prime schermaglie, nelle quali, pur eseguendo le consegne (soprattutto la corsa), qualche maschio ancora ridacchiava o si difendeva al richiamo al femminile, nel lasso di tempo di qualche settimana ho notato che i maschi (anche i più “machi” di cui sopra) hanno iniziato a voltarsi quando le chiamavo, segno che l’abitudine iniziava già a dare i suoi frutti sotto forma di automatismi.
Ho perfezionato le modalità dell’esperienza nel 2012. In classe, al ritorno dalle vacanze di Natale, lunedi 9 gennaio, ho annunciato ad una terza l’intenzione di effettuare un esperimento. La classe è molto simpatica, non ultimi proprio e soprattutto i maschi, che sono anche gentili. Le femmine sono in numero minore e più silenziose, meno brillanti nella mia materia e con davvero meno iniziativa in generale, anche se con una reattività di autodifesa nei confronti dei maschi che mi ha consolata: infatti, anche le meno dotate e più indolenti tirano calci formidabili negli stinchi ai compagni e sfoderano bicipiti che nelle mie ore non hanno mai utilizzato. Eredito anche questa classe in terza, ma mi trovo molto bene. Per precauzione, l’ho comunque presa un po’ più alla larga rispetto a quanto svolto l’anno precedente. Sono quindi partita annunciando un esperimento culturale, che, in quanto tale, ho affermato non essere estraneo alla mia materia, bensì trasversale a tutte. Il fervorino è stato il seguente: la lingua italiana non possiede il neutro, come invece l’inglese ed il tedesco – lingue presenti nel loro curricolo. Ergo, la lingua italiana è sessuata e sessista, visto che, in un gruppo a prevalenza di donne, basta la presenza di un solo uomo per far sì che si debba parlare al maschile. Per questi motivi – concludo – ho deciso di non togliere nulla alla classe, bensì di aggiungere un’esperienza, che sarà, per i maschi, quella dell’esclusione dalla lingua nelle due ore di educazione fisica e per le femmine, al contrario, di centralità nella lingua. Ho anche rassicurato gli animi confermando che l’essere sottoposti all’esperimento non avrebbe comportato né un cambiamento di sesso, né, tanto meno, una preferenza sessuale.
Le prime reazioni sono state parallele a quelle dell’anno precedente: innanzitutto, l’attonito mutismo delle femmine all’annuncio, seguito da uno scoppio di gioia solo quando è stato chiesto apertamente il loro parere sulla proposta. Ancora mi chiedo se questa reazione iniziale delle ragazze sia causata dalla novità della proposta – che richiede un po’ di tempo per arrivare dalle orecchie alla comprensione consapevole – oppure se la socializzazione culturale delle femmine sia l’ultima parvenza di disciplina e buona educazione rimasta nell’allevamento della prole. I maschi, i più materialmente “maschi”, soprattutto, hanno reagito, come nella classe dell’anno precedente, con incredula, ma ribelle ilarità, cercando, peraltro, gli espedienti più vari e anche creativi per evitare l’esperimento: lo spostare più in là la prova “in fondo il secondo quadrimestre non è ancora iniziato”, la conferma che l’esperimento venisse condotto solo nelle ore di Educazione fisica, la domanda se anche i loro nomi sarebbero stati trasposti al femminile, fino al consolarsi reciprocamente contando i pochi mesi che li distanziano dalla fine della scuola. Ciò è avvenuto lunedì alle ore 8. Nello stesso giorno ho insegnato in altre due terze, alle quali ho annunciato, sempre in classe, la notizia. Reazioni identiche. Tra i maschi c’è stata variazione solo nell’intensità della reazione, a seconda che fossero già di partenza più o meno polemici – e che, quindi, avessero sguazzato nell’idea di un’iniziativa di cui poter finalmente dir male senza essere bacchettati come accade loro quasi sempre; anzi, sapendo di farsi portavoce di tutta la propria categoria – oppure più o meno ‘machi’, o intellettualmente meno dotati.
Venerdì ho affrontato l’ultima terza, brava, buona, simpatica e di buon umore. Perfezionando ulteriormente la mia modalità espositiva, ho scelto di dare l’annuncio in palestra, anziché in aula. In questa classe, le reazioni da parte delle femmine sono state nella norma, ovvero hanno reagito con commenti solo quando ho chiesto il loro diretto parere. Le prime reazioni dei maschi sono state verbali: “La lingua è una convenzione!”. Al che ho risposto che anche la schiavitù era una convenzione, ed è stata abolita. Le convenzioni, pertanto, si possono cambiare o, perlomeno, se ne può essere coscienti senza crederle naturali. C’è stato un “brava!” arrivato dalla zona delle femmine.
Terminata la schermaglia ragionativa con un 1 a 0 a favore della proposta, l’essere in palestra è stato scatenante per i maschi, i quali non solo non vedevano l’ora di far ‘caciara’ e hanno colto al balzo l’occasione dell’esperimento, ma avevano anche bisogno di uno sfogo per le loro ragioni contro. Alcuni hanno preso palloni e se li sono messi sotto la maglietta a mo’ di finto petto. I più astuti hanno proposto che, a rigor di logica, avrebbero dovuto andare a cambiarsi anche loro nello spogliatoio delle femmine al termine della lezione.
Intanto, essendo venerdì ed essendo molto stanca, ero io che mi sbagliavo e continuavo a chiamare il gruppo al maschile mentre loro, femmine e maschi, mi correggevano. Rispondevo ringraziando e ribadendo che la mia fatica confermava la pervasività delle abitudini culturali. E allora mi rendo conto di due cose: da una parte, nonostante la mia formazione interculturale, nella prassi quotidiana capisco che le grandi escluse sono sempre potenzialmente le femmine, migranti o autoctone. In secondo luogo, mi rendo conto che non perdo mai l’occasione di fare un fervorino alla classe per ribadire un concetto educativo da me ritenuto particolarmente significativo. Ciò conferma la metafora dello specchio, quando riesco a distanziarmi da me e mi osservo attraverso loro: io fatico, ma anche la classe possiede una grande pazienza.

QUALE METODO

Educare
Continuo a chiamarla Educazione fisica perché il bisogno che percepisco a scuola è quello di educare, in tutti i sensi, non uno eccetto, a partire, spesso, da situazioni semplici come a mensa: alcuni alunni impugnano le posate come quando esse non esistevano o ci fanno assistere a scene primordiali quali l’inserimento della forchetta nella bistecca, per librare poi il povero pezzo di carne all’altezza degli occhi aggredendolo a morsi.

Sapere
Credo che confrontarsi con la classe sia come recitare a teatro: ciascuno deve assumere la propria parte. L’insegnante esercita un certo ruolo, alunni ed alunne svolgono il loro, come età e naturale inclinazione corrispondente, il più delle volte, allo scansare quanto più possibile il lavoro. Studiare ed applicarsi risulta faticoso anche in palestra. È una vera “lotta di classe” e cerco di non farmi impietosire troppo. Rare sono le volte in cui stanno attenti ed obbedienti per un’ora. Alla seconda, allora, permetto loro di giocare a calcio. Gli sguardi di profonda riconoscenza che mi lanciano sono irresistibili.

Conoscersi
Non sono modesta, so di non sapere, ma non solo: sono consapevole di partire sempre da un palese dubbio su di me, pensando nevroticamente di essere la prima a sbagliare e spesso l’unica a farlo. Poiché non penso di fare mai abbastanza, o abbastanza bene, ed essendo in competizione permanente con una me stessa ideale la quale, ovviamente, vince sempre, questo profondo egocentrismo al negativo mi ha resa in tutta la mia vita professionale un’assidua frequentatrice di corsi di aggiornamento ed una gradita, oltre che collaborativa, allieva di sedute di supervisione. Queste sono debolezze di carattere. Tuttavia, piuttosto che cercare invano di cambiare tratti così radicati nell’intimo, ho compreso già da un po’ l’importanza di essere più intelligente del mio carattere. Nello specifico, ho imparato ad usare la mia insicurezza come punto di forza, non nascondendola, anzi palesandola quasi subito con la classe. Tanto mi sgamerebbero. Non presentandomi (come forse vorrei, ma, per fortuna, non posso) come dea ex-machina, l’accordo con allieve ed allievi è chiaro da subito: a me interessa che si impegnino. Se riescono, meglio ancora, ma il fattore principale è che ce la mettano tutta. Tutti i giorni, allora, sperimento la miracolosa trasformazione della mia debolezza in una leva positiva nei confronti del gruppo, soprattutto rispetto ad allieve ed allievi timorose/i ed insicure/i. La consapevolezza profonda della fatica che costa buttarsi nelle attività, affrontare il gruppo dei compagni, fronteggiare per la prima volta un attrezzo sconosciuto: tutto questo è ancora tanto vivo in me e si trasforma in incessante e consapevole incoraggiamento rivolto ad alunni ed alunne. Devono provare a fare, per imparare almeno ad affrontare le paure legate all’agire. Nella migliore delle ipotesi per provare a smitizzarle, pur sapendo che, per alcuni/e di loro, come lo è tuttora per me, la prima volta di tutto sarà sempre un trauma.

Cercare
– Cerco di non “mollare” mai nelle situazioni da dirimere: fermi tutti, ci si ragiona. Gli incidenti critici non si risolvono da soli e le cose vanno affrontate, anche a rischio di sbagliare nelle modalità (spesso mi capita, poi corro dalle colleghe a chiedere il loro parere. La volta successiva, in genere, faccio meglio). Essendo un’insicura, tenderei ad evitare il conflitto. Ma ciò non è possibile ed il conflitto va gestito. Allora sudo, urlo e, metaforicamente, ci “accapigliamo”. Si tratta di un corpo-a-corpo relazional-mentale come neanche nella lotta greco-romana avviene. Sono piena di sensi di colpa per la mia virulenza, ma non mollo fino a quando non abbiamo raggiunto un intendimento, per quanto minimo o temporaneo. Nessuna ricerca di vincitori e vinti, solo una ridefinizione dell’agire per il bene comune e sempre e solo finalizzato a questo. So che, altrimenti, non avrei la forza di tener duro nella posizione se non fossi, seppur imperfettamente, in buona fede nelle mie intenzioni. Spesso dico che, anche sbagliando, faccio le cose per loro e mai contro di loro. È una frase che ho colto in un film degli anni ’90 intitolato Picture Perfect. Mi ha talmente colpita nella sua semplicità da diventare uno strumento efficace: la classe ascolta tutto quello che si dice. Penso anche che lo valuti onestamente. Gli antichi Egizi affiancavano al cuore del defunto la piuma: se il cuore è leggero come la piuma, significa che è giusto, allora gli dei lo restituiranno al defunto che potrà così vivere in eterno (o insegnare). In effetti, il fare per si tramuta nell’ennesimo miracolo della relazione che non avrei mai pensato possibile per me, irruente, impulsiva: quando riesco a comunicare il bene e ciò che è giusto (e magari ad ottenere qualche risultato), non mi risulta antipatico nessuno dei miei allievi. Anzi, la manifestazione di un’“antipatia” è diventata per qualcuno uno stimolo, un alleato della mia professione, un amico interiore che funge da campanello d’allarme per ricordarmi che, se qualche allievo/a mi sta “antipatico”, significa che c’è qualcosa da migliorare o approfondire nella nostra comunicazione (anche se è umano considerare il fatto che, al di fuori del ruolo di insegnante, staresti bene anche senza vedere per un po’ qualche allievo/a).
– Cerco di tenere tutti/e dentro. Forse sbaglio, ancora non lo so, ma non riesco a tener fuori nessuno. Ci provo anche quando dividono le classi e ci portano in palestra un altro po’ di gente da pascolare: se hanno voglia di fare, lo possono fare con noi. Non sempre è un successo. Spesso è un voler il meglio notoriamente nemico del bene, ma fatico a lasciar seduto qualcuno che abbia voglia di muoversi, più per un principio di inclusione che per amore dei grandi numeri da gestire. Applico lo stesso principio in generale: proprio perché non tendo alla performance competitiva assoluta, nessuno ha più scuse: non si può non “lavorare”, non si può non partecipare. Tutti siamo necessari al gruppo ed il gruppo ha bisogno di noi. Contando che i maschi hanno solo il pallone in testa e che le femmine agognano i morbidi materassoni nell’angolo, i principali strumenti al mio attivo per convincere la classe sono: 1) quello che ha sempre detto mia madre, Vanda Landi Forbicini Fabi, insegnante di Scienze e Matematica alle Scuole Medie, ai suoi alunni: “Finchè non mi vedrete leggere il giornale in cattedra, voi avete il dovere di darvi da fare”; 2) il corpo-a-corpo con i renitenti, le oziose, quelli che dimenticano sempre la tuta, quelle che vado a stanare mimetizzate dietro il pilastro del corridoio, quelle già stanche dopo lo sforzo d’essersi allacciate le scarpe, quelli che “rompono” allo sfinimento e che cerco di neutralizzare impartendo loro infiniti compiti. Per fidelizzarli, generalmente li nomino miei T.A. ufficiali, Assistenti Tecnici: sono i Teaching Assistant di quando ero a Berkeley. Così, per un momento, mi sento a casa, tra ricordi affettuosi che posso condividere con gli alunni attraverso una sigla. Anche io ho bisogno di comunicare a loro una parte di me.
– Cerco di ascoltare e di accogliere – psicologicamente parlando – rimostranze e lamentele anche quando penso che non sarebbe vitale farlo. Come ho sentito egregiamente affermare in un corso presso lo Studio APS di Milano, le attese disattese diventano pretese: questo l’ho sperimentato anche direttamente nella gestione di gruppi di adulti.
– Cerco di prenderla bene quando la classe mi corregge in qualcosa di cui ero sicura. Visto che sicura non lo sono quasi mai, quando penso di esserlo mi attacco alla convinzione con un affetto spropositato che si rivela, generalmente, mal riposto. Anche in questo caso, grazie al feed-back ricevuto gratuitamente ogni giorno dalle classi, mi rendo conto che l’attaccamento per sé rappresenta un sabotaggio del mio carattere. Masticando imprecazioni, faccio faticosamente intervenire l’intelligenza, la quale mi suggerisce di ascoltare i consigli provenienti dalla “base”. E il mestiere fa da eco, sussurrandomi anche di metterli al vaglio.
– Cerco la cura ed anche la bellezza in tutto ciò che posso, sempre e per quanto possibile: nelle fotocopie che consegno, nel mio parlare un po’ forbito e pulito, nella cura dell’ufficio delle insegnanti di Educazione fisica, in palestra, tappezzato di cartelloni colorati del Centro Riesco, ma anche di disegni delle prime, e pieno di tutto ciò che può servire per farne un bazaar, impolverato, ma attraente per la classe: fazzoletti di carta che compro dai venditori ambulanti per solidarietà e che alunni ed alunne usano in abbondanza, calzini puliti comprati come sopra per cambi imprevisti, non solo miei, i piccoli trofei ed i riconoscimenti vinti dalle squadre scolastiche, assorbenti igienici per le ragazzine, cancelleria raccolta da terra, ma che funziona (“non si butta via niente!”), i contenitori per il riciclo anche nel mio bagno, così che possano sempre riciclare anche in palestra, confermando quello che, grazie allo sforzo di una collega di Scienze, in particolare, C.S., costituisce una vocazione della mia scuola.
– Cerco di fare un po’ di marketing e di benchmarking: faccio notare la bellezza sotto qualunque forma mi si presenti quando sono con la classe; faccio notare ciò che vorrei sottolineare come importante per il senso estetico che a me serve tanto per stare bene ed in relazione al quale avrei l’ambizione, non dico di sviluppare il loro gusto, ma almeno di farli/e soffermare un momento con l’attenzione. Ad esempio, faccio vedere in che calligrafia ordinata e fiorita ho scritto i loro nomi sul registro personale e spiego loro che lo faccio perché li rispetto. Ormai capisco che loro vanno sempre oltre le parole, intuiscono il perché profondo di ciò che propongo e di me capiscono che mi piace quel che ho fatto perché è bello che sia bello. Con piccoli espedienti come questo, cerco di ancorare positivamente l’amore per la bellezza a qualcosa che li riguarda così da vicino, come, ad esempio, il nome. Ho l’illusione che l’amore e la bellezza portino anche al buono, al fare bene perché fa sentire bene, nonostante sbagli e ricadute, mie e loro.
– Cerco di limitare il turpiloquio nelle mie ore: la palestra è definita zona libera dalle parolacce in voga. Quando ne parte una, ribadisco che: 1) sono parolacce sessiste perché si riferiscono sempre e solo a parti del corpo maschili, quindi sono limitative, oltre che offensive per l’immaginario femminile; 2) sono parolacce talmente omologate da risultare offensive per la nostra intelligenza. Come ha spiegato bene Anthony Robbins nei suoi libri che spingono alla personale peak performance di ciascuno di noi, non possiamo togliere qualcosa senza riempire il vuoto: per cui, con le alunne più turpiloquiose di un paio di anni fa, abbiamo coperto un poster con imprecazioni tradizionalmente solo grezze e non volgari. Il poster è affisso alla porta della palestra e, in dimensioni ridotte – formato A4 – anche sulla porta dell’ufficio delle insegnanti di Educazione fisica. Quando parte la parolaccia standard, fermo subito la classe e invito i diretti interessati ad andare a scegliersi, a piacer loro, una delle tante imprecazioni consentite. Dopodiché, per qualche minuto, la palestra risuona dei vacca boia, porcaccia della malora, o dei maiàl che mi scaldano il cuore perché, per un attimo, torno a casa.
– Cerco di pronunciare bene i nomi di alun- ni ed alunne stranieri/e, chiedendo il loro aiuto e scusandomi quando so di non riuscirci, storpiando un simbolo identitario così importante soprattutto alla loro età e nella condizione di neo-arrivati di molti di loro. Non mi vergogno a chiedere ripetizioni su questo, sentenziando che, se non ci riuscirò entro un determinato periodo, risulterò io da cinque. Spesso, lo sforzo viene talmente premiato che ricordo di preferenza i loro nomi.
– Cerco di perdonarmi quando sbaglio pesantemente. Ciò accade ogni tanto, quando, nonostante il feroce controllo dell’intelligenza, le paure del mio carattere mi sommergono. È il momento di cercare aiuto in sala insegnanti.

Francesca Fabi
Professoressa di Educazione Fisica presso una Scuola Secondaria di Primo Grado di Bologna

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