Stress da (non) lavoro

Vincenzo Caporaso

Perché molti di quelli che un lavoro ce l’hanno sono insoddisfatti? Il bisogno proprio di ognuno di noi di essere confermato: è questo l’elemento centrale. In fondo, ognuno di noi chiede che il proprio lavoro sia riconosciuto da qualcuno.

Identità personale ed identità professionale. Tutti noi abbiamo sperimentato, o stiamo sperimentando, che i due aspetti sono inscindibili. Più o meno consapevolmente, sono le classiche “due facce della stessa medaglia”: noi stessi. Il lavoro è parte integrante della nostra identità personale. Ci attribuisce un ruolo sociale, imprime un ritmo alle nostre giornate, ci fornisce il denaro per almeno pensare di far progetti. Ci conferisce un’appartenenza: ad un gruppo, ad una comunità. Ci consente l’utilizzo di un linguaggio condiviso, di usi e costumi. Un senso di utilità.
Se questa è la premessa, allora è facile intuire come la ricerca infruttuosa di un lavoro possa generare non solo frustrazione, rabbia e delusione, ma, ad un livello più profondo, vada ad incidere sulla propria autostima, sul proprio “sentire di essere capace”, sul riuscire a dare un senso a ciò che si è. Metterci un “nome”: sono un insegnante, un’infermiera, un avvocato, un militare, una commerciante, ecc. Un impatto sull’idea di sé che rischia di diventare ancora più devastante per chi un lavoro ce l’aveva e, da un certo punto, non ce l’ha più. Più devastante perché è come se ti dicessero: “non importa se sei capace o meno. Semplicemente, non ci servi.” La sensazione di essere uno “scarto di lavorazione” e, soprattutto se hai superato i 35/40 anni, sentire che le chance per ripartire sono scarse, se non nulle. Si acquisisce familiarità con parole come ipertensione, irascibilità, disturbi del sonno (insonnia ed incubi), stati depressivi, e con il relativo repertorio farmacologico. E allora, perché molti di quelli che un lavoro ce l’hanno sono insoddisfatti? Il bisogno proprio di ognuno di noi di essere confermato: è questo l’elemento centrale. In fondo, ognuno di noi chiede che il proprio lavoro sia riconosciuto da qualcuno. Allora, vale forse la pena ragionare sul benessere delle persone e delle organizzazioni cui (non) appartengono. Da questa prospettiva, dalla letteratura internazionale dell’ultimo decennio sui temi del mobbing, del burn out e dello stress, emerge che in tutte queste forme di malessere, in qualunque contesto si manifestino, esiste una componente soggettiva, personale, che consente o meno all’individuo di interpretare le relazioni ed i comportamenti in chiave “negativa” o “positiva” (attribuzione di significati), attuare strategie per sottrarsi alle fonti di malessere (leggasi la letteratura sulla resilienza) e migliorare la propria condizione.
Così come esistono variabili di contesto (anche qui le differenze sono notevoli) che possono favorire o meno l’insorgere di forme di malessere e che si possono ricondurre a due grandi famiglie: contenuto del lavoro e contesto specifico di lavoro.
Il nostro punto di vista e, di conseguenza, il nostro modello di lavoro, parte dal presupposto fondamentale che, in ogni caso, non si può non tenere conto delle interazioni sempre e comunque esistenti tra variabili personali e variabili di contesto. Le combinazioni tra queste due classi di variabili possono essere molteplici ed altrettanto lo sono gli effetti che producono.
“Gli uomini possono fare grandi cose se: sono trattati come esseri umani intelligenti; non sono mai in una posizione dove la loro dignità può essere compromessa, sono sempre trattati con rispetto; è loro consentito di coinvolgersi nel raggiungimento degli obiettivi dell’azienda; sono bene addestrati; è loro consentito di dare un contributo significativo al lavoro che svolgono; hanno fiducia che il successo che hanno contribuito ad ottenere si ripercuota positivamente su loro stessi.” (Alberto Galgano, 2004).
In condizioni di crisi economica, si corre il rischio di considerare quasi tutti questi aspetti come superflui, marginali, perché l’attenzione è orientata tutta sul fatto stesso di (non) avere un lavoro. Questo è, però, un modo di concepire il lavoro, le persone, la società che porta dritto al soggettivismo, alle difese identitarie ed alle battaglie tra “più poveri” e “meno poveri”. Soprattutto, fa assopire il senso di comunità, il valore sociale del lavoro che contribuisce, e torniamo all’inizio di questo scritto, alla costruzione dell’identità personale, con la quale crea un legame inscindibile. Ma l’identità lavorativa e sociale non rappresenta un dato che esiste una volta per tutte. È un processo che si sviluppa nel tempo attraverso le inevitabili relazioni intrattenute da ogni persona con gli altri da sé: la società, i modelli di comportamento, le aggregazioni del vivere civile. È questo che orienta le scelte ed i modi di pensare e di agire all’interno dei diversi contesti relazionali: famiglia, lavoro, gruppi sociali, società in generale. Ecco perché, crisi economica o meno, l’abdicare dell’attenzione verso il benessere delle persone in relazione al lavoro costituisce una sconfitta per un’intera società, per un intero Stato. Così facendo, una Nazione si prepara allo sfilacciamento del vivere civile.

Vincenzo Caporaso
Psicologo psicoterapeuta, QUAERO People M&D

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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