Il dovere del clinico

Sylvie Menard

Tanti malati sono pronti a chiedere consigli a chiunque e rivolgersi ad internet dove trovano spesso informazioni contrastanti. Perché non si rivolgono semplicemente solo al loro oncologo?

Svolgo la mia attività professionale presso l’Istituto Nazionale per lo studio e la cura dei tumori di Milano da quarantatré anni, e durante tutto questo tempo ho frequentato molti colleghi di vari ospedali e centri oncologici. Il quadro che ne ho recepito è un ottimo livello globale delle cure oncologiche in Italia. Certo, ogni giorno veniamo a sapere di scandali vari nella Sanità ma sono per la maggiore parte dei casi di abusi nella gestione dei fondi, mentre quelli relativi alla incapacità degli operatori sanitari sono molto più rari. Vero è che alcune realtà sanitarie sono più’ carenti della media, ma sono eccezioni in un tessuto sanitario fondamentalmente sano. Sia per i livelli diagnostici che per quelli terapeutici i centri oncologici italiani sono allineati a quelli internazionali così come sono accessibili ai pazienti molti dei farmaci innovativi grazie ai numerosi studi clinici internazionali ai quali gli oncologi italiani partecipano attivamente.
Ma allora perché il malato oncologico non sembra sereno? Perché ha paura di non essere curato al meglio e le denunce al sistema sanitario aumentano ogni anno? Perché l’eccellenza delle cure non viene percepita come tale? Perché tanti malati sono pronti a chiedere consigli a chiunque e rivolgersi ad internet dove trovano spesso informazioni contrastanti? Perché non si rivolgono semplicemente solo al loro oncologo?
Fondamentalmente perché la medicina, sempre più’ tecnologica, ha dimenticato il paziente e si occupa solo della malattia. Man mano che la diagnostica e gli approcci terapeutici si fanno più sofisticati, c’è sempre meno tempo per ascoltare il paziente, venir incontro alle sue paure, rispondere alle sue domande, aiutarlo ad accettare la malattia, e metabolizzare l’idea della morte. Nel secolo scorso un antico aforisma francese riassumeva così il dovere del clinico: ‘curare spesso, guarire qualche volta, confortare sempre’. Questo concetto del conforto al quale il paziente ambisce si allontana sempre più dagli obiettivi della medicina. Basti pensare alle attese interminabili alle quali sono sottoposti i pazienti nell’iter degli esami clinici, delle visite e delle terapie, per capire come siamo lontani da una Sanità che ‘conforta’ il malato. Solo diventando paziente anch’io, ho capito il significato della definizione dell’ammalato come ‘paziente’: ci vuole proprio che una pazienza infinita quando si diventa ‘ammalato’. Il primo atto di rispetto verso la sofferenza del paziente dovrebbe essere quello di organizzare le strutture sanitarie in modo di limitare il più possibile le attese. Oggi, disponiamo di una gamma molto vasta di strumenti di comunicazioni e di organizzazione, non sarebbe quindi difficile per esempio ripensare un sistema di appuntamento presso le strutture sanitarie più efficace e puntuale.
Questo problema è ben noto a tutti: basta vedere come tutta la squadra dei sanitari si organizza rapidamente appena una persona ‘importante’ o un ‘parente’ ha bisogno delle sue cure per capire come l’attesa sia considerata ‘insopportabile’: insopportabile i giorni passati ad aspettare la diagnosi di una biopsia, insopportabili i giorni in attesa di un ricovero, insopportabili le ore passate in attesa di una visita, di un esame, di una terapia.
Alla medicina ‘paternalistica’ del secolo scorso viene oggi proposta la medicina ‘personalizzata’. Questa però è ancora un miraggio. Infatti, finora la terapia è tutt’al più personalizzata alla malattia, e di nuovo il paziente, con le sue aspettative, le sue paure, il suo futuro non viene preso in molta considerazione.
Per il momento la medicina è fondamentalmente solo ‘difensiva’. Per paura di ritorsioni contro la struttura sanitaria che lo ha curato, vengono sottoposti al paziente numerosi documenti molto complessi di ‘consenso informato’ a dimostrazione che ha capito e accettato i rischi degli esami e delle terapie ai quali verrà sottoposto. Ma quale fiducia si può instaurare tra il medico e il paziente se uno dei due (il medico) non si fida dell’altro? Quando offro un passaggio in auto ad un amico, non gli chiedo di firmare un documento che attesti la sua consapevolezza del rischio di incidente: lo sappiamo entrambi ma ci fidiamo uno del altro. Essendo obbligatorio il consenso informato, il medico e la squadra sanitaria dovrebbero quindi impegnarsi ancora di più per instaurare un clima di fiducia con il paziente.
Oggi per i malati viene rivendicato il diritto alla scelta terapeutica fino addirittura al rifiuto delle cure. Questo diritto assomiglia molto ad uno scarico di responsabilità: come può sapere il paziente quale è la migliore terapia per lui? Questo diritto di scelta comunque non fa parte delle precedenze del paziente. Quello che egli desidera maggiormente è il rispetto, il conforto, l’aiuto a riprendersi la sua vita.
L’accanimento terapeutico è un argomento molto dibattuto oggi come se fosse uno dei problemi cruciale del sistema sanitario. Ma è più un problema che si pongono le persone ‘sane’ su come vorrebbero affrontare la malattia in caso di necessità. Visto dalla parte dei malati, la paura maggiore è proprio l’opposto, cioè che venga negato un farmaco nuovo perché troppo costoso. Con i problemi di risorse del sistema sanitario, oggi vengono a pesare molto le valutazioni di costo/beneficio per i farmaci innovativi: ma è possibile valutare il costo giusto di un anno di vita guadagnato per una persona? All’accanimento terapeutico che secondo me è un problema più filosofico che medico, contrapporrei ‘l’accanimento diagnostico’: esami alcune volte inutili e ridondanti prescritti solo per non rischiare una denuncia, che prosciugano le risorse finanziarie, a discapito del malato. Qualche volte un sorriso o le parole giuste dette al momento giusto possono valere di più per il paziente di una TAC.
Si parla molto di ‘centralità’ del paziente nel sistema sanitario, di ‘Umanizzazione’ della medicina: sono ancora solo parole, ma la consapevolezza che questi siano ormai traguardi inderogabili è già un primo passo, anche se la strada è ancora molto lunga.

Sylvie Menard
Oncologa del Dipartimento di Oncologia Sperimentale e Laboratorio, Fondazione Istituto Tumori di Milano

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