Africa: le guerre della ricchezza

I bambini sono una risorsa praticamente inesauribile e a costo zero, non percepiscono stipendio, maneggiano facilmente le armi leggere, mangiano meno degli adulti e, una volta indottrinati, drogati e piegati al volere dei capi, sanno essere molto spietati.

Le recenti immagini dei bambini uccisi durante i bombardamenti su Gaza hanno fatto il giro del mondo, suscitando un senso di impotenza, indignazione e pietà, e offerto all’opinione pubblica l’occasione per discutere, informarsi, protestare. Situazioni analoghe di violenza, distruzione, dolore, segnano la vita di milioni di bambini in tutto il pianeta in un silenzio assordante. Il 90% delle vittime dei più recenti conflitti armati sono civili e di questi ben l’80% sono donne e minori. Annientando la popolazione indifesa, si colpisce al cuore il nemico, lo si sconfigge, si conquistano più rapidamente le sue risorse massimizzando i profitti. Per capire le origini delle guerre e le ragioni del loro perdurare, bisogna “radiografare” il sottosuolo. Dal punto di vista delle risorse naturali, l’Africa è il continente più ricco. Stati come la Nigeria e l’Angola galleggiano sul petrolio, altri come la Repubblica Democratica del Congo sono ricchi di uranio e cobalto, altri ancora, come la Sierra Leone, producono ed esportano in tutto il mondo diamanti ed altre pietre preziose. Non è un caso, allora, se i paesi citati hanno combattuto e combattono guerre fratricide e se oggi il continente africano è teatro di sanguinosi conflitti: Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Niger, Nigeria, Somalia, Sudan, Uganda, ecc.

Conflitti che permeano i confini porosi degli stati africani interessando intere regioni come il Corno d’Africa e i Grandi Laghi. Guerre cosiddette “interetniche”, alimentate da una propaganda incessante che strumentalizza abilmente le diversità per accendere focolai funzionali a disegni politici ed economici più ampi. Una propaganda che ha quasi sempre l’obiettivo di de-strutturare il nemico fino a sub-umanizzarlo per giustificarne l’eliminazione (in Rwanda l’hutu power chiamava “scarafaggi” i tutsi) e di alimentare l’odio e la competizione per le risorse.

Quelle che dilaniano il continente africano non sono guerre lampo, anzi. Il loro denominatore comune è la durata. Sono quasi sempre conflitti semi-permanenti, guerriglie striscianti, logoranti, interminabili, che stravolgono la popolazione civile ed il suo tessuto connettivo attraverso saccheggi, rapimenti, distruzione di villaggi. Si fa terra bruciata per non lasciare nulla al nemico. Sono guerre combattute per lo più nel bush, che contribuiscono alla diffusione delle armi leggere, delle mine antiuomo, delle granate e di altri ordigni facilmente maneggevoli. Parte di queste armi provengono dagli arsenali dell’ex blocco sovietico, basti pensare alla diffusione del kalashnikov, altre dalla moderna industria bellica nella quale si distingue anche l’Italia. È proprio la lunga durata dei conflitti, unita al tipo di armi utilizzate, a favorire l’arruolamento, sia spontaneo che coatto, dei minori.

Laddove una guerra dura a lungo, iniziano a scarseggiare i militari da riposizionare al fronte, vengono a mancare gli stipendi, i viveri, i vestiti, le scarpe, le medicine. Arruolare bambini, dunque, diventa la strategia bellica del ribasso, la mossa vincente per continuare ad irrorare il conflitto e vincere la guerra dei poveri. I bambini sono una risorsa praticamente inesauribile e a costo zero, non percepiscono stipendio, maneggiano facilmente le armi leggere, mangiano meno degli adulti e, una volta indottrinati, drogati e piegati al volere dei capi, sanno essere molto spietati. Essere un bambino soldato significa non solo combattere, ma far parte di qualsiasi forza armata con qualsiasi funzione: cuochi, facchini, messaggeri, oggetti di sfruttamento sessuale, come indica la Conferenza internazionale di Città del Capo (1997) sulla “prevenzione dell’arruolamento dei bambini nelle forze armate e sulla smilitarizzazione e reintegrazione sociale dei bambini soldato in Africa”.

Sono oltre 100.000 i bambini soldato africani. Secondo l’ultimo rapporto della coalizione “Stop all’uso dei bambini soldato”, molti provengono dai campi profughi di Ruanda, Sudan, Congo per due ordini di motivi: sono più esposti, privi di protezione e di assistenza e sono più poveri, disperati e manipolabili. Molti di loro, infatti, si aggiungono alle file dei gruppi armati spontaneamente, perché vedono nell’esercito un luogo di sopravvivenza migliore rispetto al degrado e all’assoluta indigenza in cui vivono. Nella Repubblica Democratica del Congo sono circa 7.000 i giovani reclutati nei campi profughi e usati dai gruppi armati del Nord Kivu, Equateur, Ituri, Katanga, Sud Kivu e Maniema. In Ciad se ne contano tra i 7.000 e i 10.000 e in Sudan migliaia a causa del conflitto in Darfur. In Costa d’Avorio, le milizie governative e quelle del gruppo di opposizione FAFN (Forces armées des Forces nouvelles) hanno arruolato gli ex giovani combattenti provenienti dalla Liberia, non coinvolti nei cosiddetti programmi DDR (Disarmament, demobilization, reintegration) promossi dalle Nazioni Unite alla fine degli anni Novanta per cercare di assorbire il fenomeno dei ragazzi soldato.

I bambini soldato sono dei prigionieri di guerra strategicamente importanti per identificare gli avamposti e i depositi di armi del nemico. In Burundi le forze militari governative catturano, arrestano e torturano i bambini soldato delle Forze Nazionali di Liberazione per ottenere informazioni militari strategiche e lo stesso accade in Uganda, dove il governativo LDU (Local Defence Units), che a sua volta arruola minori, cattura i giovani ribelli del famigerato Lord’s Resistance Army, capeggiato dal sanguinario Kony, nel quale militano circa 2.000 bambini/e soldato. In Somalia l’arruolamento dei bambini sta crescendo significativamente con il perdurare della guerra e, sebbene la situazione critica del paese non permetta una ricognizione attendibile del fenomeno, è ragionevole pensare che siano decine di migliaia. Nella Repubblica Centro Africana l’APRD (Popular Army for the Restoration of the Republic and Democracy) e l’UFDR (Union of Democratic Forces) impiegano bambini soldato, nonostante nel 2007 l’UFDR abbia aderito ufficialmente ai programmi DDR. I minori che imbracciano le armi volontariamente provengono da famiglie disgregate, violente e molto povere.

Chi è rapito a forza è spesso costretto, come forma di iniziazione alla guerra, a usare violenza nei confronti dei propri cari, a bruciare le case dei vicini, a uccidere i commilitoni più deboli. Indottrinati alla cieca obbedienza, sono resi ancor più feroci dal costante ricorso ad ogni tipo di droghe. Queste esperienze hanno effetti drammatici sulla salute psico-fisica dei bambini: una volta liberati dall’effetto delle droghe e intrapresi i percorsi di recupero, accusano crisi di panico, insonnia, allucinazioni, incubi notturni ricorrenti, difficoltà di gestione delle emozioni. Molti presentano seri problemi fisici a causa della malnutrizione, della mancata cura della malaria e di altri tipi di malattie o di ferite da arma da fuoco. Sono passati venti anni dall’entrata in vigore della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, sette dall’approvazione del suo Protocollo Opzionale sui minori nei conflitti armati, tredici dal Rapporto Machel sull’impatto dei conflitti armati su bambine e bambini, dodici dalla Conferenza del Cairo e dall’istituzione del Rappresentante Speciale per i bambini e i conflitti armati, dieci anni dalla Carta Africana sui diritti ed il benessere dei bambini e dalla Convenzione ILO n. 182 sulle peggiori forme di sfruttamento del lavoro minorile, ma il fenomeno dei bambini soldato è un ferita ancora aperta…

Due anni fa a Parigi, il grande meeting internazionale dedicato ai bambini soldato a cui hanno aderito 58 governi ha reso noto che oggi nel mondo combattono circa 250.000 bambini, 50.000 in meno rispetto al 1997 e ciò grazie ai programmi DDR. Un passo avanti è stato compiuto, ma la strada da fare è ancora lunga, soprattutto in Africa.

Elisa Serangeli
CIDEM – Università di Roma La Sapienza

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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