I manicomi nel novecento

Camicie di forza, collari, manette, guanti senza dita, apparecchi per l’elettroshock. Oggi chiunque giudicherebbe questi oggetti con orrore, come l’espressione di pratiche violente e disumane. Trattamenti assolutamente antiterapeutici, che portano alla follia. Eppure, era così che fino a pochi decenni fa venivano curati i malati di mente in Italia. Se l’opportunità di abolire i mezzi coercitivi veniva ventilata già all’inizio del ‘900, infatti, la prassi di utilizzare tali strumenti di contenzione non venne abbandonata fino agli anni 60-70. In quegli anni i manicomi svolgevano prevalentemente una funzione di “contenitore sociale”: un luogo, insomma, dove rinchiudere gli elementi pericolosi o che avrebbero potuto dare pubblico scandalo. La funzione di queste strutture, quindi, era solo in minima parte di cura: la popolazione che vi veniva ospitata era costituita in gran parte da disabili, disadattati sociali, emarginati, alcoolisti e tossicodipendenti. C’era anche chi in manicomio ci nasceva e ci restava tutta la vita. Il ricovero, deciso da altri, era obbligatorio e spesso durava fino alla morte. A partire dagli anni ’50 inizia a fiorire un fervido movimento di de-istituzionalizzazione che teorizza una nuova cultura antimanicomiale. Il fulcro di questa rivoluzione di pensiero è Trieste, dove grazie all’iniziativa dello psichiatra Franco Basaglia si comincia a sperimentare soluzioni alternative al ricovero in ospedale per la cura dei malati di mente. “Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità e della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento”, dice Basaglia nel 1964. Così, appena diviene direttore del manicomio di Trieste, lo psichiatra istituisce laboratori di pittura e di teatro per i pazienti. Contemporaneamente si fa strada anche l’idea della prevenzione con il lavoro nella comunità: nasce una cooperativa per la quale i pazienti iniziano a svolgere lavori riconosciuti dalla società e regolarmente retribuiti. Questa stagione di grande entusiasmo arriva al culmine con l’annuncio della chiusura del manicomio di Trieste nel 1977 e si traduce, a livello legislativo, nella legge 180 di riforma psichiatrica, approvata in Parlamento il 13 maggio 1978. Sulla legge Basaglia, diventata un punto di riferimento imprescindibile per la psichiatria nazionale e forse anche internazionale, ferve oggi un vivace dibattito politico. Se tutti concordano nell’attribuirle il merito di avere ridato ai pazienti psichici la loro suprema dignità di soggetti liberi, si ritiene anche che essa possa essere rimodernata sulla base dei forti mutamenti avvenuti sul piano sociale e scientifico negli ultimi trent’anni. Nella direzione, in primis, di un maggior sostegno alle famiglie dei malati che, se lasciate da sole, possono trovarsi a dover affrontare situazioni più grandi di loro.

Martina Seleni

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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