I luoghi chiusi della mente

Paola Binetti

Entrare in manicomio appariva come una condanna definitiva, impossibile guarire, evidente era la mortificazione della propria dignità personale, anche per quanto atteneva alla cura della propria persona, igiene, tono umano. Nell’immaginario collettivo, la legge 180 è legata alla chiusura dei manicomi e alla messa in libertà di tutti i pazienti. Accanto alle teorie di Basaglia cominciavano però ad apparire farmaci di nuova generazione che lasciavano sperare di poter intervenire efficacemente sui gravi disturbi dell’umore e sulle crisi schizofreniche acute.

Ancora oggi, a distanza di 30 anni,  l’idea di Manicomio evoca la sensazione di un luogo chiuso, opprimente. Un luogo in cui la libertà individuale del paziente è associata ad una serie di violenze reali e simboliche, non tanto fisiche quanto psicologiche, in nome di un valore come la sicurezza altrui. In manicomio veniva ricoverato il paziente psicotico, ma anche l’anziano demente, il soggetto ritenuto pericoloso perché violento e il giovane ritardato…

Il Manicomio era prevalentemente un luogo di isolamento e di possibile protezione per il paziente e per il contesto sociale, ma scontava il prezzo di un’assoluta mancanza di psicofarmaci adeguati a controllare la complessa varietà di sintomi che la malattia mentale ancora oggi è in grado di esprimere. E’ difficile oggi immaginare i manicomi di allora. Occorre ricorrere a qualche immagine di documentari, a qualche sequenza particolarmente significativa di film, a documentazioni fotografiche, ma, soprattutto, alla memoria di pazienti ricoverati, del personale che se ne faceva carico, medici ed infermieri. Dei familiari.

Ciò che appare ancora oggi drammatico è il carattere di irrevocabilità che assumeva nella maggioranza dei casi: entrare in manicomio appariva come una condanna definitiva. Impossibile guarire e altrettanto difficile migliorare, in quel contesto e in quelle condizioni. Mancanza di farmaci, povertà di misure volte a creare forme differenziate di ergoterapia e di socioterapia, senso di diffusa inutilità e spesso mortificazione della propria dignità personale, anche per quanto atteneva alla cura della propria persona, igiene, tono umano.

Oggi, manicomi così sarebbero impensabili. Ma già verso la fine degli anni 70 iniziarono importanti cambiamenti, legati ad una trasformazione culturale, diffusa soprattutto tra gli psichiatri, che si fondava sull’integrazione di farmaci specifici e di psicoterapia. Si trattava di una vera e propria rivoluzione copernicana: la diffusione di una cultura, che oggi potremmo definire patient centered, poneva il paziente al centro del sistema di diagnosi e cura, non isolandolo, ma integrandolo nel contesto sociale. La rivoluzione concettuale sta nel fatto che, mentre prima si riteneva che fosse il paziente psichiatrico ad essere potenzialmente pericoloso o inadeguato nel contesto sociale, per cui andava isolato per proteggere lui ed il contesto stesso, ora si considerava del tutto inadeguato, quando non ostile, il contesto in cui il paziente era stato posto. La dimensione sociale del trattamento si affiancava a quella farmacologia e, in molti casi, la sorpassava e la oscurava. Il paziente aveva bisogno di socializzazione. In questo clima andò maturando la legge 180 ed il dibattito intorno ad essa, che coinvolse gran parte della opinione pubblica.

La 180 compie trenta anni e non c’è dubbio che in questo periodo ci siano stati forti mutamenti sul piano sociale, scientifico, politico. A suo tempo, la legge ebbe il grande merito di richiamare l’attenzione dell’intero Paese sulle problematiche specifiche legate alla salute mentale, facendo riflettere tutti sul disagio psichico come cifra della post-modernità, segno concreto di quel mal di vivere che risente di un’infinita complessità di fattori e che non è ascrivibile solo a cause di ordine puramente biologico. Lo stesso concetto di malattia mentale fu messo sub-iudice e molti distinguo si fecero sul concetto di normalità psichica. L’idea forte a cui faceva riferimento la 180 era quella che restituiva al paziente psichiatrico la sua suprema dignità di soggetto libero, chiamato ad essere protagonista di tutte le sue scelte, anche di quelle apparentemente più scomode come l’eventualità di un ricovero ospedaliero.

Il TSO venne circondato da un sistema di regole complesse che dovevano servire a garantire il paziente, evitando usi impropri o addirittura veri e propri abusi. Nell’immaginario collettivo, la 180 è legata alla chiusura dei manicomi e alla messa in libertà di tutti i pazienti ricoverati, come se un colpo di spugna avesse cancellato la malattia di cui soffrivano e la penosa sensazione di reclusione a cui erano esposti, spesso senza alcuna speranza di poter uscire, se non guariti, almeno significativamente migliorati.  Alcuni manicomi di allora sono stati attualmente convertiti in splendide strutture di tipo universitario, come è ad esempio accaduto al manicomio di Arezzo, attuale sede della Facoltà di lettere o a quello di   Roma, prossima sede distaccata della facoltà di Lettere della Sapienza. Si trattava di grandi edifici, immersi in parchi vastissimi, in cui vivevano persone anche da 10-20-30 anni, come se per compensarle del fatto di non farle uscire, si fosse dilatato lo spazio interno, in modo da attutire la sensazione di isolamento.

Nel 1978, accanto alle teorie di Basaglia sulla apertura dei manicomi, cominciavano anche ad apparire farmaci di nuova generazione che lasciavano sperare di poter intervenire efficacemente sui gravi disturbi dell’umore e sulle crisi schizofreniche acute. L’idea di incrociare un trattamento farmacologico ad hoc con una nuova percezione di sé, più libero e più responsabile, e con quella che allora si chiamava ergoterapia, o in senso più ampio socioterapia, definiva la possibilità di attivare un progetto terapeutico integrato in cui ogni paziente avrebbe trovato salute, dignità, speranza. Il rapporto restava però ancorato da un lato al disegno terapeutico dello specialista e dall’altro al paziente, nella sua singolarità e nella sua autonomia. Una relazione medico-paziente forte e del tutto peculiare, ma anche inattuabile se si pensa all’assoluta carenza di personale specializzato, tuttora denunciata e che non consente di garantire al paziente tutta la psicoterapia di cui avrebbe bisogno.

La famiglia restava ai margini di quella cultura, mentre nell’ipotesi della integrazione sociale, da tutti auspicata come il vero fattore innovativo della legge, non si mettevano adeguatamente in conto la mancanza di risorse umane, culturali ed economiche. E forse c’era un eccesso di ottimismo nei confronti della psico-farmacologia. Il paziente restava spesso solo con le sue angosce e le sue paure. Di fatto, chiusi i manicomi, avviati i centri territoriali con scarsità di mezzi, in poco tempo il carico di cura si è proiettato tutto sulle famiglie, che si sono trovate impreparate a gestire l’intensità del disagio psichico dei loro familiari malati. Per il profondo coinvolgimento emotivo che la stretta convivenza comporta e per la stessa mancanza di risorse che contraddistingue le difficoltà dei centri territoriali, le famiglie sono rapidamente andate incontro a processi profondamente usuranti sul piano fisico e psicologico, fino a rendere ancora più complessa la prospettiva del recupero.

La famiglia, talvolta causa del disagio psicologico delle persone più fragili, è il luogo di una convivenza sempre più disagiata, in cui tutti soffrono senza riuscire a venirne fuori. Molti diventano vittima di un contagio che indebolisce le naturali risorse affettive, sociali ed organizzative. Ignorando la famiglia, la 180 ha scippato al malato una delle risorse più concrete e spesso non sostituibili. E’ nel supporto alla famiglia che va cercata la chiave di revisione della 180. Qualcuno teme che rivedere la 180 significhi rimettere i pazienti psichiatrici in cliniche, più o meno moderne, più o meno attrezzate, come se si volesse ricreare dei manicomi di nuova generazione.

Non si tratta di isolare questi pazienti dal loro contesto, per proteggere non si sa bene se loro o la società, ma di ricostruire una rete di rapporti sociali forti, cominciando dalla famiglia, a cui vanno garantite risorse nuove e rinnovabili. Occorre fare lo sforzo di pensare in modo creativo, per mettersi davvero dalla parte del paziente, senza stereotipi e senza utopie. Non bisogna enfatizzare improponibili richieste di indipendenza quando invece il paziente chiede di non essere lasciato solo e sollecita una relazione di aiuto efficace. Occorre aiutarlo a gestirsi restando nella sua famiglia, creando le condizioni perché stia il più possibile a suo agio. Accanto a team terapeutici fortemente qualificati, servono anche tutori familiari con competenze socio-assistenziali, per coprire la totalità dei bisogni materiali ed assistenziali del paziente-in-famiglia e della famiglia-con-familiare-paziente…

On. Paola Binetti
Deputato alla Camera, componente  COMMISSIONE (AFFARI SOCIALI) , Neuropsichiatra

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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