Il problema sono le risorse delle regioni

 Nel campo dell’assistenza psichiatrica le differenze tra diverse regioni e, nell’ambito della stessa regione, tra diversi dipartimenti sono talora abissali e oramai non più giustificabili. Sebbene la rete dei servizi sia sufficientemente diffusa, sono ancora insufficienti la qualità delle pratiche, l’accesso ai servizi, la continuità terapeutica

Per cominciare credo si debba dare per acquisito che la Legge 180 è una legge buona e realizzata, l’unica forse, della grande stagione delle riforme, che resiste all’impatto revisionista, alla moda della rilettura. Con la Legge 180 il nostro paese ha fatto una scelta di campo chiara. Continuare a dibattere su di essa non serve ad altro che alimentare alibi per non parlare delle distratte politiche regionali, delle inefficienti organizzazioni aziendali, dei poteri, dei saperi e dei modelli delle psichiatrie ancora centrati sulla riduttiva visione della malattia.

In trent’anni, in parlamento sono state depositate più di 30 proposte di riforma o di cancellazione della Legge 180. Proposte di legge che, più che migliorare le cure, gli investimenti, le strutture, solo possono ridurre i margini di libertà, di dignità, di possibilità che quel cambiamento ha restituito alle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale e alle loro famiglie. Il problema vero è, come ho detto, l’articolazione dell’offerta regionale e locale di servizi e risorse. Le Regioni, oggi, rappresentano 20 sistemi sanitari e nel campo dell’assistenza psichiatrica le differenze tra diverse regioni e, nell’ambito della stessa regione, tra diversi dipartimenti sono talora abissali e oramai non più giustificabili.

Esperienze di impensabili cambiamenti radicate in molti luoghi, a nord come a sud, in città grandi e in piccoli paesi, in cooperative sociali e associazioni, confermano continuamente quella scelta iniziale e, malgrado le differenze delle pratiche, della quotidianità e delle risorse impegnate, le persone da una condizione di tutela ritornano nel contratto sociale, a una condizione di diritto. Diritto come risarcimento, come riconoscimento, come possibilità. La legge 180 non ha fatto altro che questo. Il legislatore si è chiesto se anche per gli internati, i malati di mente, dovesse valere l’articolo 32 della Costituzione: “.diritto alla cura e alla salute nel rispetto della libertà e della dignità..” e ha risposto che sì. Da allora non più lo Stato che costringe alla cura, che interna, che interdice per difendere l’ordine e la morale; non più il malato di mente “pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”, ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo Stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale.

Da allora siamo stati in grado di vedere e ascoltare persone, storie, relazioni e non diagnosi, malattie, oggetti. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di possibilità per esprimere bisogni, per alimentare desideri, per scoprire i propri sentimenti. Per curarsi e spesso guarire. In quegli anni, ossia il decennio 1968/’78, nel campo della salute mentale si sono prodotte accelerazioni, innovazioni, cambiamenti inconfrontabili col resto degli altri paesi occidentali. Il confronto con le leggi e le organizzazioni della salute mentale dei paesi europei, per esempio, mostra con chiarezza la distanza dai nostri percorsi. Si coglie in quelle legislazioni la scelta di un campo “altro”: leggi e norme, in Francia come in Gran Bretagna, in Germania come in Belgio, che mettono al primo posto la malattia, la clinica, la diagnosi, il rischio, la pericolosità, la disabilità; ospedali, letti, ricoveri coatti, contenzione, porte chiuse; indebolimento del diritto, tutela, destini ineluttabili e percorsi separati.

Sorprendente è stata ed è nel nostro paese la crescita della consapevolezza delle persone che fanno o hanno fatto l’esperienza del disturbo mentale, i familiari, i cittadini coinvolti, la loro presenza attiva nel pretendere risorse sensate, organizzazioni di servizi concrete, possibilità di vivere la propria vita. Basterebbe ricordare la carriera che intraprendeva il “malato di mente” derll’internamento per comprendere il senso del cambiamento. Dati raccolti negli ultimi 6 anni dall’Istituto Superiore della Sanità confermano clamorosamente il percorso avviato nel ’78: le strutture per la salute mentale sono diffuse, ovunque sono presenti servizi ospedalieri per acuti, e strutture residenziali. Questa rete di servizi si è sviluppata assieme alle associazioni di persone che hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale, che rivendicano la propria storia, che ci raccontano le loro svolte, le conquiste, che ci dicono come è possibile vivere malgrado la malattia; associazioni di familiari che fino all’altro ieri erano condannati alla vergogna, all’isolamento, a sentirsi colpevoli della malattia o di presunte relazioni malate covate all’interno della famiglia. Nuove figure sono entrate sulla scena e costituiscono impensabili risorse e incredibili opportunità per tessere reti, strategie, alleanze.

 Tanto che il campo del lavoro terapeutico è realmente cambiato. Pensando alla grande esplosione italiana della cooperazione sociale, impossibile non vedere le infinite opportunità che proprio a partire dai manicomi si sono offerte alle persone con disturbo mentale per formarsi, entrare nel mondo del lavoro, riprendere un ruolo sociale e familiare. Oggi in Italia ci sono 211 dipartimenti di salute mentale (DSM), uno ogni 200 mila abitanti e circa 800 centri di salute mentale (CSM), mediamente uno ogni 80 mila abitanti. 4200 posti letto nei servizi di diagnosi e cura ospedalieri (SPDC), che sono piu’ di 200 (in circa i 2/3 di questi, tuttavia, si utilizza la contenzione e le porte sono chiuse) e 4500 posti letto nelle cliniche private, con maggiore concentrazione nel Lazio e in Calabria. Infine ci sono più di 18 mila posti residenziali. La distribuzione e la qualità dei servizi sul territorio nazionale non segue la dicotomia Nord-Sud. Ci sono buone esperienze in quasi tutte le regioni anche se, sui grandi numeri, la differenza tra Nord e Sud risulta evidente. Si può dire, osservando i dati della ricerca, che un quarto dei DSM è costituito da buoni servizi e rispondono con efficacia alla domanda di cura e di sostegno e alcuni servizi raggiungono livelli d’eccellenza ( ci sono circa 50 centri di salute mentale aperti 24 ore 7 giorni su 7), un quarto dei servizi risultano estremamente poveri, male allocati, incapaci di offrire un livello adeguato di risposte e diventano produttori di esclusione, marginalità e “cronicità”.

Un lavoro sufficiente nella rimanente metà. Programmi appena adeguati passabili di notevoli miglioramenti se solo si mettesse mano, come sta avvenendo per esempio in Sardegna, con intelligenza e lungimiranza ai Piani Regionali per la salute mentale e a sensate linee d’indirizzo e riferimenti a standard condivisi. La situazione calabrese è esemplare: malgrado coraggiosi interventi di operatori, familiari e cittadini, ci sono concentrazioni in istituti che ancora resistono, un privato aggressivo che parassita il sistema pubblico. C’è la Sicilia con residenze gestite dai privati da 40 posti letto e con degli affari non difficile da immaginare e servizi territoriali estremamente precari. Ci sono regioni dove i servizi territoriali sono pochi e mal finanziati, a favore di un privato sociale e mercantile che offre un numero esuberante di comunità (così dette terapeutiche) e di posti letto che assorbono la gran parte delle risorse disponibili e, dall’altra parte, SPDC mal collegati con il territorio, in genere chiusi, dove si esercita la contenzione e un uso massiccio di psicofarmaci. E’ più evidente che altrove in queste regioni un’organizzazione che conferma un modello medico psichiatrico fondato sulla malattia acuta da una parte e sulla malattia cronica dall’altra.

Da una parte i servizi ospedalieri, dall’altra le Comunità. Come se le persone che vivono l’esperienza non potessero esistere al di fuori di queste due riduttive categorizzazioni. Sebbene la rete dei servizi sia sufficientemente diffusa, sono ancora insufficienti la qualità delle pratiche, l’accesso ai servizi, la continuità terapeutica.  Insufficiente e incomparabile con altri paesi europei l’investimento delle risorse. Si utilizza per la salute mentale non più del 2,5/3% della spesa sanitaria globale. Le associazioni dei familiari, gli operatori, i cittadini coinvolti, le associazioni delle persone che vivono l’esperienza vorrebbero almeno il 5%. Nei paesi europei, in Francia per esempio, si spende circa il 9%, nei Paesi nordici si arriva a oltre il 12%. In questi paesi tuttavia gli esiti, la qualità delle cure e delle strutture non son certo migliori dal momento che persiste una cultura psichiatrica che continua a sostenere ospedali, reparti di massima sicurezza, legislazioni basate sul rischio e sulla pericolosità; lunghi ricoveri, cronicità, stigma. E  associazioni dei familiari di questi paesi continuano a essere molto critiche e a guardare con interesse al “modello italiano”.

Il nuovo Governo ha dichiarato, attraverso i suoi parlamentari, l’intenzione di modificare, alcuni, più esagitati, dicono “mettere al rogo”, la Legge 180 e tutte le ideologie di “quella sciagurata temperie”. Puntuali, 3 senatori, due lombardi e uno emiliano, hanno depositato in Senato l’ennesima proposta di modifica della legge. Questa volta non propongono improbabili richieste di servizi, di reti, di risorse, di sostegno alle famiglie o di strutture con giardino ma vanno al cuore del problema. Propongono Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO) che possono realizzarsi senza le garanzie previste nelle prime 48 ore, che durano 30 giorni e oltre. Istituiscono un TSO così detto riabilitativo (!) di almeno 6 mesi, rinnovabile, che può essere attuato anche in strutture private. La buona intenzione è quella di sottrarre peso alle famiglie, restituire sicurezza ai cittadini e controllo efficace per le persone “malate di mente” gravi, croniche e pericolose. Di fatto finirebbero per privare le persone con disturbo mentale e i loro familiari di quelle possibilità, di quelle speranze su cui consapevolmente contano per continuare a lottare per una ripresa, una svolta, una guarigione che oggi sentono alla loro portata.

Le proposte di modifica della legge, come il ricorso ossessivo alla questione della sicurezza cominciano, nel concreto, a limitare, appesantire i margini tuttora esigui di libertà e di autodeterminazione delle persone con disturbo mentale.  Il vice sindaco di Milano, lo scorso settembre, «a seguito di un ennesimo fatto di sangue ad opera di uno squilibrato» ha chiesto alle aziende ospedaliere che i responsabili dei DSM forniscano la lista dei “malati di mente” in contatto coi servizi di salute mentale e abitanti nelle case popolari e ritenuti “socialmente pericolosi”. Dice il vice sindaco che bisogna mettere a punto dispositivi per controllare, circoscrivere, rassicurare i cittadini. Che il vice sindaco (di AN) chieda un tanto si capisce. Gli psichiatri milanesi si sono affrettati a fornire le “liste di proscrizione”. Questo si capisce un po’ meno.

Peppe Dell’Acqua
Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

Rispondi