Una società del paradosso

Sociologi, filosofi e antropologi sono concordi nel definire il disturbo alimentare come extrema ratio di un “progetto” chiamato “corpo”. Secondo Susan Bordo, autrice dello splendido “Il peso del corpo”, la patologia autoprodottasi all’interno di una cultura non è devianza anomala, non è “aberrazione” ma è semplicemente la sua espressione caratteristica o, meglio “la cristallizzazione di ciò che in gran parte in essa non funziona”

Proiettarsi in un contesto quotidiano rituale come può essere una passeggiata per le vie del centro o un pranzo tra colleghi è forse una delle cartine tornasole più efficaci per saggiare i paradossi della struttura sociale. Moda e cibo sono le variabili forse più evidenti. Cosa vuole dire “essere alla moda?” Cosa determina l’essere “in” el’essere “out” in contesti sociali sempre più attenti all’habitus? Da una parte esprimere la propria individualità, la propria peculiarità con scelte estetiche, di gusto e di trend, dall’altra essere perfettamente consci che chiunque decida di essere alla moda farà la stessa identica cosa. Con il cibo il fenomeno paradossale è ancora più acuto, perché giochiamo su due assi, quello del piacere per cui l’assunzione di cibo dev’essere appagante nella ricerca della soddisfazione del gusto (pensiamo al boom dell’economia alimentare, dello slowfood, dei media sempre più attratti dalla cucina e dal cibo), l’altro è quello del corpo. Dove il cibo rappresenta l’elemento frenante, potenziale agente negativo su un ipotetico corpo socialmente accettato.

Qualche anno fa il calcio nazionale fu al centro di uno scandalo per la messa in onda di un filmato amatoriale piuttosto sconvolgente dove si mostrava il calciatore Fabio Cannavaro intento a una flebo di Neoton, un farmaco comunque non inserito nella lista doping. I media gridarono all’allarme e una ventata di scandalo di abbatté su di un sistema calcio già gravemente malato. All’indomani dell’episodio il sociologo dello Sport, Pippo Russo, pubblicò uno splendido intervento sulle pagine di indiscreto.it sottolineando come il Doping di per sé fosse un effetto marginale di un problema molto più variegato e complesso, quello del corpo. Un corpo come “fatto destinatario di ingenti investimenti (biologici, economici, comunicativi) calato dentro un ciclo di produzione che impone sollecitazioni e stress crescenti, e da almeno un decennio reso oggetto di processi di narcisizzazione e feticizzazione”. Il corpo è un idealtipo della silhouette socialmente desiderabile. Prima ancora di entrare nel terreno medico-farmacologico, è doveroso proiettare il problema in una dimensione sociale e culturale. Dimensione dominata dal paradosso, appunto. Domandandosi in primis quale sia il gioco attuale del corpo, e quale sia il ruolo che interpreta nella società attuale. Sociologi, filosofi e antropologi sono concordi nel definire il disturbo alimentare come extrema ratio di un “progetto” chiamato “corpo”; secondo Susan Bordo, autrice dello splendido “Il peso del corpo”, la patologia autoprodottasi all’interno di una cultura non è devianza anomala, non è “aberrazione” ma è semplicemente la sua espressione caratteristica o, meglio “la cristallizzazione di ciò che in gran parte in essa non funziona”. La metafora del “corsetto” in questo senso è perfetta, perché mentre un tempo l’imposizione del corsetto per la donna era il sintomo del controllo sociale del movimento, ora il controllo si sposta dall’oggetto all’aspettativa ovvero alla magrezza e al suo aspetto patologico, l’anoressia, come forma di controllo e di dominio sul corpo. Se nell’analisi di Bordo sono condivisibili gli strali a una società dei consumi e dei media che ha cambiato la percezione del corpo, portando a una sottilizzazione della silhouette femminile, meno ci convince l’ipervalutazione di questi agenti culturali. Una teoria sociale del corpo ha visto il “lavoro” sul corpo e la “voglia” corpo aumentare esponenzialmente. Come se ci fosse una tensione costante all’alterazione della superficie del corpo, a interagire con essa e a modificarla secondo vari gradi di intervento. E l’anoressia sarebbe l’estremo tentativo di un controllo sul corpo, sull’esautorare i professionisti della salute (medici, psicologi, nutrizionisti) del loro potere in una sorta di “sfida” (challenge) proponendo un modello alternativo, self-made nell’approccio al corpo.

Da qualche tempo l’anoressia è entrata nell’agenda setting dei media, ed è esploso collateralmente il fenomeno dei siti pro-ana ovvero siti web che offrono testimonianze quotidiane anonime (molto spesso attraverso la forma diaristica del blog) di ragazze che si offrono come vere e proprie “consulenti” nel percorso dell’anoressia, non inquadrata come patologia ma come scelta di vita. Il lavoro medico è qui sottratto del potere terapeutico-curativo e inserito in una prospettiva socio-culturale: lo stile di vita. è tanto incredibile quanto agghiacciante leggere alcune di queste testimonianze online perché evidenziano subito quanto pericoloso e multiforme sia il problema del disturbo alimentare. Ciò che disturba di più è la consapevolezza della scelta che sembra sfidare apertamente chi va a ricondurre tra le cause dell’anoressia l’esposizione a particolari modelli mediatici, chi naviga all’interno delle parole dei pro-ana nota immediatamente una simbiosi perfetta coi media, tanto da utilizzarne molto spesso lo stesso linguaggio e le stesse armi. La cosa che ancor più sconvolge è la rivisitazione e il ri-utilizzo del linguaggio medico-terapeutico, come se stessero ricostruendo e realizzando una propria alternativa al corpo e all’ideale di bellezza Dopo il boom mediatico dei siti web pro-ana le autorità hanno immediatamente cercato se ci fossero gli estremi per l’oscuramento, per cancellare queste testimonianze spaventose. Peggio la cura proposta della patologia. In un suo splendido saggio “La pelle e la traccia: le ferite del sé”, André Le Breton analizza le dinamiche di gruppo di alcuni adolescenti vittime di sempre più diffuse pratiche autolesionistiche dell’età adolescenziale. Il sociologo e antropologo francese condusse alcune interviste in profondità nelle quali i soggetti interrogati dichiaravano di aver posto in atto tali comportamenti “per stare meglio”, “nel momento in cui la sofferenza si faceva intollerabile”. Incidere, infliggere un dolore, utilizzare comportamenti autolesionisti come stile di vita è modo per far uscire all’esterno, come confessavano gli intervistati, “l’energia negativa”. E le volte in cui l’ambiente esterno si accorgeva delle ferite auto-inflitte, erano pure l’occasione per smettere tali pratiche. In quel preciso istante la comunicazione verbale veniva ripristinata. Il ponte gettato tra sé e gli altri. Dove la società produce le vittime, disponendo delle loro vite, l’individuo pone in essere atti che coinvolgono l’unica realtà di cui ha totale disponibilità, e questa realtà è il corpo. Corpo e identità sono legate da un nesso inscindibile. La censura, l’oscuramento, la disconferma di chi soffre di disturbi alimentari è una dichiarazione di resa, un allontanamento dalla comprensione del fatto individuale e sociale. Quel ponte di comunicazione possibile va salvaguardato e tentato senza pregiudizi e, soprattutto, senza timore alcuno.

Enrico Marchetto
Cultore della sociologia dei processi culturali e della famiglia presso l’Università di Trieste

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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