Io ho odiato il cibo

Questo è stato il primo passo sulla strada verso la guarigione: rendermi conto che ciò che mi stava accadendo e che mi aveva colpita non era normale ma patologico ed altamente pericoloso per la mia sopravvivenza.

Avevo 15 anni quando i miei genitori si resero conto – prima di quanto riuscissi a fare io – che soffrivo di un disturbo alimentare. Ero una ragazza a cui mangiare e vivere piaceva ed ero passata in poche settimane a non cibarmi più né a frequentare le amicizie di sempre. Era come se avessi improvvisamente chiuso bocca e cuore a tutto e tutti. L’anoressia è una malattia insidiosa perché cresce in te lentamente e prende forza e vigore ben prima che tu ne sia consapevole: appare all’esterno attraverso il tuo corpo che rimpicciolisce a vista d’occhio e tu non lo percepisci correttamente, negando persino l’evidenza di un ago della bilancia che scende o dei vestiti che cascano. Scompare il ciclo, i capelli e le unghie si spezzano, apparentemente dovresti essere molto debole ed invece una sorta di iperattività ti prende e ti induce a fare, muoverti, non avere tregua. Il corpo non riesce a stare fermo e la mente gira ossessivamente intorno ad un unico, gigantesco pensiero: il cibo. Cibo e peso spazzano via dalla mente qualsiasi altro interesse e ragionamento: tutti è imperniato attorno ad essi, a come poter dimagrire – ancora ed ancora, all’infinito possibilmente – e a come poter eludere i controlli familiari che si fanno via via più pressanti. Ci si sente onnipotenti. Finché…finché il corpo e la psiche non raggiungono il limite delle loro possibilità rivendicando il giusto riposo e l’adeguato nutrimento nei modi più dolorosi e spaventosi. Ecco che ci si rende conto di essere malati e si è obbligati ad accettarne l’idea benché a malincuore. Questo è stato il primo passo sulla strada verso la guarigione: rendermi conto che ciò che mi stava accadendo e che mi aveva colpita non era normale ma patologico ed altamente pericoloso per la mia sopravvivenza. A questo punto un bivio, una scelta radicale: morire o vivere? E se vivere, come poter accettare nuovamente di mangiare, come poter accettare di vedere il proprio corpo crescere di peso e dimensioni?

Il corpo dell’anoressica spaventa gli altri, è un richiamo al valore più atavico, fondamentale e radicale, quello della vita. L’anoressica sfida la vita, sfida il mondo e sé stessa. Ed ora, se vuole sopravvivere, deve sfidare anche l’anoressia stessa che abita in lei. è la lotta più dura che io abbia mai fatto, perché il nemico lo avevo dentro e non fuori; come avere una parte di me in lotta contro l’altra ed una confusione continua su quale ascoltare ed assecondare. Cosa volevo per Chiara? Dovevo rispondermi, e rispondermi radicalmente, se volevo sopravvivere. è stato a quel punto che ho permesso a tutti i miei desideri negati, a tutti i miei bisogni non soddisfatti, a tutte e mie aspirazioni mancate di uscire fuori con prepotenza. Anche a costo di scontentare la famiglia che mi aveva sempre voluta studentessa modello e ragazza perfetta. Anche a costo di non avere un ragazzo che mi volesse per ciò che ero e per ciò che sarei diventata alla fine di questa guarigione, anche a costo di dover rivoluzionare tutto di me. Ecco: io volevo vivere! Il resto lo avrei costruito dopo. Iniziai a mangiare e contemporaneamente mi affidai ad uno psichiatra molto valido che mi supportasse nel mio percorso di guarigione soprattutto in questa fase delicatissima in cui vidi il mio peso aumentare di circa 30 kg in pochi mesi. Accettai di perdere il controllo sul cibo e per l’anno successivo pensai solo a riprendermi fisicamente, senza pormi troppe domande sul dopo. Ovviamente non volevo rimanere tutta la vita vittima dell’alimentazione compulsiva né dell’obesità, ma ebbi fiducia in me stessa ed aspettai…mangiando…finché questo desiderio abnorme di cibo non venne pian piano soddisfatto. Intanto proseguivano gli incontri con il terapeuta e soprattutto proseguiva il mio percorso di crescita e maturazione globale: l’adolescenza è un periodo critico per chiunque ed ovviamente oltre ai dca avevo i problemi che tutti i miei coetanei avevano: lo studio, il desiderio di amare ed essere amata, la voglia di rendermi indipendente dai genitori, l’insoddisfazione corporea, la ricerca di una Chiara adulta.

Durante i successivi due anni presi delle decisioni radicali e fondamentali per la mia vita: finire il liceo per poter iscrivermi all’università e riuscire a lavorare in un campo che mi permettesse di aiutare le persone in difficoltà e disagio psicologico e sociale. Questo volevo e questo avrei fatto. La mia guarigione passò attraverso dei pilastri fondamentali che dovetti edificare in quegli anni: migliorare la mia autostima e stabilizzarla, non facendola dipendere troppo da successi od insuccessi esterni e temporanei, aver fiducia in me e nelle mie capacità, vedere il mondo da una prospettiva relativista e vedere gli altri come differenti senza sentire il bisogno di adeguarmi a nessuno o ad un modello. Io ero io. Verso i 18 anni iniziai a dimagrire spontaneamente, tornando normopeso. Episodi di abbuffate e digiuni diventarono sempre più contenuti e lievi e terminai la psicoterapia sotto consiglio dello psichiatra stesso. Riuscii a diplomarmi senza badare al voto, sentendomi comunque felice per il risultato e mi iscrissi alla facoltà di Scienze dell’Educazione. I residui della malattia furono sempre più contenuti e lievi, limitandosi spesso a temporanei disturbi dell’umore senza condotte alimentari scorrette. Da allora ho mantenuto il mio peso – non il peso ideale, ma quello reale che fa stare bene me – mangiando senza grossi problemi e soprattutto sentendomi bene con me stessa ed amandomi. Né la scomparsa di mio padre, avvenuta quando avevo 20 anni, né la successiva depressione di mia madre, ebbero la forza di farmi ricadere nella malattia. Finita l’università iniziai a lavorare nel sociale e poi affrontai una vera e propria sfida psicofisica per chi ha avuto l’anoressia: diventai mamma di due bambini. E neppure in quel caso mi colse la malattia, superando egregiamente tutte le modificazioni corporee e psichiche correlate alla gravidanza.

Attualmente sono una mamma serena ed un’educatrice che lavora con adolescenti disabili e si è iscritta alla Facoltà di Psicologia. Nulla del mio percorso è stato rimosso, ricordo tutto con intensità, a volte con emozioni forti. Ricordo e non voglio dimenticare, perché la malattia ha fatto parte di me, mi ha aiutata a costruire una persona che amo e che stimo, una persona che sa amare ed aiutare gli altri e che continuerà a dire, con ogni mezzo che avrà a disposizione, che guarire è possibile davvero. Non bisogna mai disperare, anche se il percorso è lungo e difficile, anche se a volte si cade, anche se si è stanchi. Guarire è la cosa più bella che esista perché ricongiunge alla vita. Guarire è rinascere una seconda volta. Se soffrite di un dca o pensate di soffrirne, non rinunciate alla vita, fatevi aiutare! Non c’è da aver vergogna, non c’è da temere il giudizio: tutti – e sottolineo tutti – abbiamo dei problemi e delle difficoltà e per fortuna possiamo darci una mano a vicenda affinché ognuno risolva le proprie o trovi strategie alternative che gli consentano una vita dignitosa e felice. Ne vale la pena e ve lo dico col cuore.

Chiara Rizzello
Amministratrice blog “Briciole di Pane”
(link: http://blog.libero.it/bricioledipane)

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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