Quando il suicidio è cronico

I disturbi alimentari hanno una percentuale di mortalità fra le più alte tra i disturbi psichiatrici (del 5-20 %) e la denutrizione prevede una serie di complicanze organiche e cognitive che tolgono lucidità al paziente, per cui i terapeuti che si occupano specificamente di disturbi alimentari sono spesso attanagliati dai dubbi sulle scelte da compiere nei confronti di pazienti che rifiutano le cure

L’Anoressia Nervosa (AN) è un disturbo complesso, dove componenti psicologiche, psicopatologiche e organiche si intrecciano strettamente; è una malattia “esistenziale” (Bruch, 1988), poiché costituisce, in fin dei conti, una notevole ragione di vita per chi ne è affetto e il desiderio di perseguire la magrezza scalza spesso ogni altro valore o obiettivo. Questi pazienti hanno “necessità” della propria malattia ed essa diventa il loro unico modo di affrontare la vita. I sintomi – digiuno, ristrettezza, abbuffate e successive condotte di eliminazione, perfezionismo e ossessività – rappresentano in effetti tentativi, pseudorassicuranti e controproducenti per la paziente, di curare angoscia, rabbia e insicurezze inconsce che, a loro volta, aumentano il bisogno di controllo della ragazza. Il controllo riguarda gli affetti, le paure, la fame cocente e imperiosa di “amore” che coincide con quella di cibo. In ultima analisi si tratta di una malattia in cui siha una pervicace e maligna aggressività contro di sé e contro gli altri: l’autodistruzione inconscia, che Alfred Adler nel 1914 definì “suicidio cronico”, è la più disperata e perversa forma di richiesta di amore tramite la distruzione dei genitori. Inoltre questo disturbo non si auto-limita, ma si ingigantisce sempre più a causa sia delle distorsioni cognitive che percettive, anche dovute all’emaciazione corporea. Pertanto uno dei maggiori problemi in cui ci si imbatte quando si cerca di curare l’AN è la resistenza al trattamento, sia conscia che inconscia.

La malattia si auto-mantiene perché in certa qual misura così vuole la paziente. Essa, infatti, concede sempre dei vantaggi, primari e secondari: il non dover affrontare la vita adulta, il controllo sulla famiglia, l’affetto e le cure che si ricevono, la sensazione di essere forti e onnipotenti attraverso il controllo su di sé. Vi è quindi un dilemma: la resistenza alle terapie è sostenuta da una volontà lucida o viziata dalla malattia? In altre parole, la paziente è in grado di autodeterminarsi, nonostante la denutrizione e le conseguenze cognitive di questa?
Questo porta a considerare l’aspetto immediatamente successivo…il continuo dialogo con la morte che queste pazienti intrattengono. Ma sono esse in grado di comprendere che la loro malattia può condurre alla morte? Cos’è per loro la morte? Sono esse in grado di scegliere consapevolmente un rischio di vita continuo che deriva dall’ostinato rifiuto delle cure o dalla non collaborazione ad esse? E quando l’insistenza dei terapeuti, che possono ricorrere anche al Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) e alla nutrizione forzata, diventa terapeutico o è ininfluente? Queste e altre domande nella sfera dell’etica medica attanagliano il terapeuta che si occupa specificamente di disturbi alimentari. Si è iniziato a parlare, soprattutto nei paesi anglosassoni, anche per l’AN di accanimento terapeutico, terapie palliative, valutazione della competence, cioè della capacità decisionale del paziente, e i dubbi etici a questo riguardo si moltiplicano. Non si deve dimenticare, infatti, che i disturbi alimentari hanno una percentuale di mortalità fra le più alte tra i disturbi psichiatrici (5-20%) e che la denutrizione prevede una serie di complicanze organiche e cognitive che tolgono lucidità al paziente. Il non avere una risposta precisa a tali domande, porta il terapeuta ad uno stato di scoraggiamento, impotenza, dubbio, rabbia che modula le sue capacità terapeutiche e il rapporto con i pazienti. Un caso clinico esemplare riguarda Carol, una diciottenne affetta da AN grave che rifiuta le terapie; non vuole morire, ma preferirebbe essere morta piuttosto che aumentare di peso. L’importanza dell’essere magra supera tutti gli altri aspetti della sua vita, come le relazioni, la scuola e la vita stessa. Carol si è creata un nuovo sistema di valori che l’ha portata a decidere che la morte è preferibile al recupero ponderale (Tan, 2003). Queste patologie conducono talvolta all’esasperazione. E non solo i terapeuti che cercano di curare, ma anche e soprattutto le famiglie di questi pazienti, che si trovano “fra incudine e martello”, nel doppio ruolo di sostegno alle figlie malate e di alleati dei terapeuti. Alcune ricerche (Treasure et al, 2001; Fassino, 2002), hanno messo in luce che i familiari delle pazienti con AN mostrano elevato stress e affaticamento, al pari di quelli di pazienti schizofrenici.
Molti genitori provano sensi di colpa e vedono le figlie come “inguaribili” e percepiscono le conseguenze negative della malattia sul benessere fisico, mentale e sociale delle figlie. Molti genitori sottolineano la propria frustrazione, la mancanza di aiuto, la sensazione di essere manipolati dalla malattia (la figlia diventa colei che gestisce il tempo dei genitori), sentimenti di tristezza, paura, rabbia, ostilità, deprivazione di sonno, depressione. I familiari provano sensi di colpa per aver scoperto tardi la malattia, frustrazione, difficoltà al momento dei pasti, difficoltà a comunicare con i pazienti, rabbia a causa dell’impatto economico della malattia, inadeguatezza a controllare l’impulsività dei pazienti; desidererebbero più informazioni sulla malattia, supporto e aiuto pratico, confronto con altri riguardo la propria esperienza; fondamentali quindi risultano i gruppi di supporto e di auto-aiuto per familiari, al fine di migliorare la qualità di vita nella famiglia.
Le ultime linee guida dell’APA (2006) per il trattamento dei disturbi alimentari dedicano poche righe alle questioni etiche implicate; ma consigliano di “rispettare la volontà dei pazienti competenti e di intervenire rispettosamente su quei pazienti la cui capacità di giudizio è scemata a causa della malattia mentale, qualora gli interventi siano di comprovata efficacia”. L’articolo 51 del Codice di Deontologia Medica (1998), definisce il dovere da parte del medico di rispettare la volontà del paziente “sano di mente” che rifiuta volontariamente e consapevolmente di nutrirsi, dopo averlo debitamente informato delle possibili conseguenze. Nel nuovo Codice Deontologico appena approvato, nell’art. 52 scompare la dicitura “persona sana di mente”, aprendo così nuovi scenari anche per quanto riguarda i disturbi alimentari, soprattutto in fase iniziale, quando la persona è lucida e consapevole delle proprie scelte. Contemporaneamente, in altri articoli si sottolinea l’importanza di rispettare la volontà del paziente, fino ad aprire uno spiraglio alle direttive anticipate di trattamento (art. 36). Ne consegue pertanto che i dilemmi etici per il clinico che si occupa di tali patologie si amplificano e che è necessario aprire al più presto una tavola rotonda unitamente a giuristi ed esperti di bioetica al fine di creare delle linee guida per la cura di queste patologie, che tengano conto anche di queste complesse problematiche etiche e medico-legali.

Secondo Fassino
Professore straordinario di psichiatria struttura complessa
universitaria di psichiatria – centro pilota regionale per la cura, ricerca e
prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare Università di Torino Ospedale Molinette Torino

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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