Sciogliere fili annodati a duplice giro…

Tytty Cherasien

È ufficiale: non ce la faccio, non riesco a gestire quello che deve fare parte della mia quotidianità. Ripartire, lasciare, andare via. Questa volta, il cuore fa più male del solito male. Lo vedo. Riesco a dargli un nome e anche una serie di motivazioni. Non serve, però, la consapevolezza di saperlo. Dobbiamo rientrare lasciando qui talmente tante cose a metà che ci vorrebbero sei vite o qualcosa di più per finire le cinquanta attività iniziate, le centinaia di persone con cui abbiamo speso parole, quelle che cerchi di centellinare per non creare false speranze. Che poi non è mai vero, perché qualche cosa ti entra nella testa e continua a lavorare finché non hai trovato, se non la soluzione, che spesso non esiste, un appiglio piccolo da offrire a questo qualsiasi essere umano perché non si senta completamente solo anche se non gli hai risolto, comunque, nulla. Sempre senza più nulla resta, senza mezza famiglia, decimata dal suo fottuto Governo, senza risposte. Chissà se quel pezzetto di qualcosa è contato.
Ti guardi le mani: sono piene dei tagli che guanti da pseudo qualche cosa non hanno riparato a spostare quelle orrende pietre. Anche quello che hai negli occhi non guarirà per un bel po’. Ti riguardi le mani. Sono quelle che le donne ti afferravano perché violassi il precetto, non aspettassi il tramonto. Allah Swt ci avrebbe perdonato: quei corpicini erano di bambini, non potevano rimanere lì ad aspettare di essere lavati, accarezzati, avvolti in sudari puri come solo i bambini sanno essere. Perdono. Chiedo perdono a tutte le donne a cui ho detto di no. A volte l’ho fatto, l’abbiamo fatto sapendo di metterci in pericolo per l’incapacità di dire un no ad una madre e ad un padre. Anche questo finisce nei pezzetti di cose iniziate e chissà come finite. Chissà quanto è servito. A noi ad attorcigliarci le budella, a farci sentire dei mostri la maggior parte delle volte in cui cercavamo di tutelarli dalla loro disperazione. Chi ha il diritto di decidere come e quanto soffrire? Ci hanno fatto sentire stupidi, gente che non sapeva cosa fare la maggior parte delle volte perché, in tanti anni, non ha ancora imparato ad essere glaciale come la maggior parti degli altri colleghi. Non c’è missione in cui non ci ribaltino per atteggiamenti fuori dalle righe e “poco professionali”. Sto attendendo la convocazione. Quattro ore in cui ci sono stati sequestrati i passaporti per “controllo”. Le “quattro chiacchiere” in amicizia che hanno colorato di un bel viola giallino un paio di noi non aiutano. Non importa. Rifarei tutto e sarebbe sempre troppo poco: i bimbi con le mani piagate da un’endemia non compresa da andare a visitare solo la notte per motivi relativamente, e per il bene placido, poco comprensibili, l’infettivologo da trovare di corsa, da far arrivare dall’Inghilterra e le medicine da andare a ritirare ogni due giorni a chilometri di distanza, fino al giorno in cui arrivano quelle per i nostri bimbi delle grotte e… fondi bloccati e farmaci da restituire. So di non fare una bella figura, ma ho pianto con uno di questi scatoloni in braccio come un figlio, allagando il cartone. Inshallah. Il giorno dopo arriva una donazione privata del tutto inaspettata per pagare solo un quarto di questi farmaci, ma… Alhamdulilah!!! Posso mollare il mio scatolone allagato. Almeno per un po’. Posso lasciare la mia amata Terra, almeno per un po’, per tornare in Italia e ricominciare il lavoro da lì. Sono partita con una speranza nel cuore, la liberazione del nostro Abu. Riparto con una marea di informazioni, incasinate, casuali, a volte inventate e a volte messe in atto per confondere un’idea. Rapito, arrestato (che senza motivo si chiama rapito), ucciso, in trattativa. Dio solo sa dove sei, Abu. Il cuore è pesante come all’arrivo. Spero solo che, a breve, potremo reciprocamente scambiarci pezzi di questa meravigliosa ed amata Siria.

di Tytty Cherasien
Giornalista, scrittrice

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