Fuori e dentro la Siria

Giacomo Cuscunà

Da mesi, si elaborano progetti per garantire i servizi di base alla popolazione, nonostante la struttura istituzionale sia crollata del tutto.

“Sarà come durante la guerra fredda” commenta sconsolato e arrabbiato Ali al-Jaazim, fuggito dalla zona rurale attorno ad Aleppo verso il confine turco e rifugiatosi nel campo profughi di Bab al-Salam. “Le grandi potenze combatteranno qui e non sui loro territori, negli Stati Uniti, in Russia o in Iran” prosegue. “La Siria ora è come la Somalia e non sappiamo più cosa succederà da ora in avanti”.
La situazione sul terreno, dopo oltre due anni e mezzo di guerra senza regole, appare confusa. L’ottimismo iniziale dei ribelli e delle opposizioni, che vedevano nella caduta del regime di Bashar al Assad l’esito inevitabile di un movimento popolare, sull’onda delle precedenti primavere arabe del Nord Africa, ha lasciato il posto alla stanchezza e all’amarezza. Ad un futuro che viene dipinto via via a tinte sempre più scure e di cui è difficile delineare i tratti. “La guerra sarà lunga, ci saranno molti morti, ma, alla fine, sapremo chi è buono e chi è cattivo. Sapremo chi ha combattuto per la libertà e chi ha rivolto le armi contro il popolo, sostenendo il regime”. Saleh, un bambino di tredici anni appena, un fratello morto ad Aleppo mentre combatteva tra le fila dell’Esercito Siriano Libero ed un altro ancora al fronte, ne era certo. Ma questo auspicio, espresso nel luglio del 2012 tra i container del campo profughi di Kilis, sembra sbiadire tra la polvere dei rapimenti sempre più frequenti, dell’influenza crescente dei gruppi islamisti in alcune aree del nord della Siria, degli odi settari. Mentre le paure per gli attacchi chimici che hanno scosso Damasco e l’intero Paese non accennano a sopirsi.
“Tre giorni fa, 15 persone (l’incontro è avvenuto il 17 aprile 2013-nda) sono morte dopo un attacco chimico” racconta Muhammad, tassista aleppino di origini curde. “Dopo il bombardamento sul quartiere di Sheikh Maqsoud non potevano respirare e sono morte per asfissia”. Spiega, riportando le parole della moglie, mentre Ali al-Jaazim, disperato, chiede:
“Perché i missili patriot sul confine turco non vengono utilizzati quando gli aerei e gli elicotteri del regime sorvolano il campo profughi e ci sparano addosso?”. Conclude Muhammad “In Europa e in Occidente si presta più attenzione agli animali maltrattati che a noi. In Siria muoiono 100 persone al giorno, ci sono 10 milioni di profughi e nessuno fa nulla. Dov’è l’Unione Europea? Dove sono gli Stati Uniti?”
Dove fossero gli Americani e il resto del mondo se lo chiedevano anche Muhammad e i suoi fratelli mentre animavano le prime manifestazioni pacifiche nell’area rurale della provincia di Idlib. Sui cartelli scrivevano, con il loro inglese stentato:
“All the world, what is this silence?”. Se lo chiedono anche ora, dopo aver liberato i villaggi dell’area di confine di Bab al-Hawa ed essere rimasti soli ad affrontare un’emergenza umanitaria drammatica.
Il futuro della Siria ora, dopo 24 mesi di silenzio o timidi appelli alla moderazione, sembra essere ritornato all’attenzione dei media e delle istituzioni internazionali. Dopo la strage di Ghouta, periferia di Damasco, 21 agosto 2013, la linea rossa tracciata dal Presidente degli USA Barak Obama sembrava essere stata oltrepassata. L’utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile, punto di non ritorno al quale l’amministrazione americana avrebbe risposto militarmente, era avvenuto. Dopo l’attacco chimico, attuato secondo molte fonti da parte del regime, nel quale erano morte in pochi secondi centinaia di persone, l’intervento guidato da USA, Regno Unito e Francia sembrava imminente. Dopo giorni di incontri al vertice e telefonate tra i leader mondiali, e dopo la visita degli ispettori Onu per indagare sull’utilizzo di armi chimiche, tutto sembra, però, rallentare e il futuro del Paese rimane in un limbo. Alla conferenza “Rebuilding Syria Together”, il 26 e 27 agosto 2013 a Gaziantep, nel sud della Turchia, c’erano tutti: i rappresentanti di Organizzazioni Internazionali e Non Governative operanti sull’emergenza, le istituzioni turche che coordinano la risposta all’emergenza dei profughi nel Paese, i diplomatici. C’erano anche i rappresentanti siriani dei consigli locali che si stanno formando nelle aree liberate del Paese e i coordinatori delle istituzioni siriane all’estero legate all’opposizione.
Da mesi, ormai, fuori e dentro la Siria, soprattutto nelle aree liberate, si sta cercando di dare forma a questo futuro, sviluppando nuove forme di amministrazioni territoriali e seguendo i progetti che queste cercano di implementare sul terreno per garantire i servizi di base alla popolazione, nonostante la struttura istituzionale sia crollata del tutto. Mark Ward, Vice Coordinatore Speciale dell’ufficio del Dipartimento di Stato americano per la transizione in Medio Oriente, che coordina l’assistenza destinata ai Paesi dell’area, sottolinea “…la necessità di istituzioni efficaci per il periodo successivo alla caduta di Bashar al-Assad nelle aree controllate dalle forze di opposizione”. Pur riconoscendo che queste istituzioni non siano ancora del tutto trasparenti ed affidabili, Ward ha rinnovato l’impegno USA a sostegno del Consiglio Nazionale Siriano e della Coalizione che si oppone al Regime.
La macchina delle opposizioni è composta da diversi organi. Presenti e attivi in Siria sono i Consigli Locali, che organizzano ed erogano servizi come distribuzione di pane, acqua ed energia elettrica, raccolta dei rifiuti, garantiscono un’assistenza sanitaria minima e la riapertura delle scuole. Per coordinare le loro azioni con le attività umanitarie della comunità siriana all’estero e delle Organizzazioni Non Governative, dell’Onu e dei grandi donatori internazionali, sono stati creati uffici di collegamento che operano per lo più nei Paesi vicini, in particolare a Gaziantep, per quel che riguarda il Nord della Siria.
“Gli sforzi fatti finora sono molti” continua Mark Ward, “ma la strada da fare è ancora lunga”. Gli attriti tra i Consigli Locali e le istituzioni siriane all’estero che gestiscono e smistano i finanziamenti e gli aiuti sono, a tratti, forti. La trasparenza diviene un bisogno crescente per garantire e guadagnare la fiducia, sia dei donatori, sia dei Siriani che ogni giorno mettono a rischio la propria vita per costruire un futuro. La necessità di formare nuove istituzioni efficaci e pronte a garantire servizi e sicurezza è imprescindibile, soprattutto in un momento nel quale le formazioni legate ad al-Qaeda stanno prendendo sempre più il controllo di alcune aree. Solo in questo modo sarà possibile scongiurare la deriva settaria ed incontrollabile, ormai uno dei maggiori pericoli, e tentare di preservare e ricostituire il tessuto sociale di convivenza e tolleranza che per secoli aveva caratterizzato la Siria.

Giacomo Cuscunà
Giornalista, reporter, esperto e conoscitore del Medio Oriente

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