Le radici del conflitto siriano

Arianna Duse

La ridotta mobilitazione della Comunità internazionale è stata, ed è tuttora, legata alla posizione delicata che questo Stato occupa, per via sia della sua collocazione geografica tra Occidente e mondo arabo, sia per l’ubicazione centrale nelle rotte del petrolio e del gas verso il Mediterraneo.

Seguendo la scia della Primavera Araba, la rivoluzione siriana inizia nel marzo del 2011 con contestazioni pacifiche della popolazione, partendo dalle campagne e arrivando, poi, alle principali città. Le manifestazioni esprimevano le istanze della popolazione, che rifiutava la repressione del regime di Bashar al-Assad e voleva la caduta del regime con una conseguente apertura vera alla Democrazia e riforme economiche volte a garantire una maggiore dignità alla popolazione. Il regime alawita negò per il primo periodo qualsiasi mediazione con i manifestanti, i quali vennero identificati come facenti parte di una cospirazione internazionale nel tentativo di screditare loro e le loro richieste di cambiamento. Il periodo di impasse tra dimostranti e Governo durò fino al 7 maggio 2011, data in cui avvennero le prime elezioni parlamentari, che esprimevano il tentativo di apertura al multipartitismo ed alla Democrazia rispetto alla precedente politica di Bashar al-Assad. Nonostante le elezioni parlamentari, il fulcro del potere politico rimase intatto e si continuò ad assistere alla repressione violenta delle manifestazioni pacifiche, che nel frattempo erano riprese e resistevano agli attacchi da parte del Governo.
In questa situazione di lotta contro i civili, alcuni militari dell’Esercito Regolare Siriano si rifiutarono di perpetrare violenze nei confronti dei loro concittadini. Per questo motivo, alcuni di loro furono condannati alla pena capitale dalla corte marziale, mentre altri vennero sommariamente giustiziati nel momento stesso in cui non rispettarono l’ordine di sparare sulla popolazione inerme. A cinque mesi dall’inizio delle rivolte, il 29 luglio 2011, Riyad al-As’ad, ex colonnello dell’Aeronautica Militare Siriana, ed un ristretto gruppo di ufficiali disertori, annunciarono la formazione dell’Esercito Siriano Libero (ESL – al-As’ad ne divenne il comandante e restò tale fino al dicembre del 2012, momento in cui venne sostituito dal brigadiere generale Selim Idris) il cui scopo era quello di difendere i manifestanti.
Suddiviso in brigate, l’Esercito Siriano Libero (ESL) divenne quindi l’esercito dell’opposizione; esso, però, non possedeva, e non possiede tuttora, chiarezza nella composizione e nell’organizzazione (molti di coloro che ne fanno parte sono Arabi Sunniti oppositori degli Alawiti, la componente principale del regime di Bashar al-Assad). Si conoscono solo coloro che sono al comando di questa fazione, i quali, nell’agosto del 2011, chiarirono la loro posizione, contro il regime e la violenza e a sostegno della popolazione e del pluralismo religioso. A dispetto di queste dichiarazioni, la rivoluzione subì un’escalation non solo per quanto riguarda l’ampiezza delle aree interessate, ma anche per quel che concerne i tipi di violenza riversata sulla popolazione. Senza tener conto di questo clima, le manifestazioni pacifiche continuarono. Contemporaneamente, si assistette ai peggiori bombardamenti contro la popolazione civile. A metà del 2012, la fazione pacifica iniziò a perdere visibilità, assorbita dalle frange armate. La rivoluzione siriana divenne una vera e propria guerra civile in cui si contrapposero l’Esercito Governativo (composto dalle forze di sicurezza, milizia irregolare dei “fedelissimi” e gli Shabiha) e l’Esercito Siriano Libero (che si unì nel marzo del 2012 al Consiglio Superiore Militare, i cui componenti erano tutti dei disertori) e altri gruppi di guerriglia che tuttora hanno infiltrazioni sunnite siriane e straniere (le quali cercano di portare il conflitto, nato come lotta per i diritti, su un livello politico-religioso).
Il 23 febbraio 2012, Kofi Annan venne incaricato dalle Nazioni Unite e dalla Lega Araba di trovare una soluzione al conflitto entro il 31 agosto (data di scadenza del suo incarico come inviato speciale in Siria). Annan redasse il suo “Piano di Pace”, suddiviso in sei punti, che non ottenne, però, il giusto sostegno da parte sia del Governo di Bashar al-Assad, sia dell’Esercito Siriano Libero.
Il 2 agosto 2012, l’inviato speciale decise di dimettersi. Durante i lavori di Annan, il comandante dell’ESL proclamò il cessate il fuoco attenendosi al piano degli osservatori delle Nazioni Unite, a cui non seguì, però, un accordo tra le parti. L’ordine di cessate il fuoco venne, quindi, ritirato nel maggio del 2012.
La violenza indiscriminata portata avanti dal regime si espanse non solo all’interno dei confini dello Stato, bensì toccando anche gli Stati confinanti, soprattutto la Turchia. Questa richiese alla Comunità internazionale la creazione di un area di confine, denominata “area cuscinetto”, nella quale sarebbero stati ospitati tutti i profughi in fuga dalla guerra. Bashar al-Assad interpretò questa richiesta come un atto di guerra, incrinando così i rapporti tra le due Nazioni confinanti. I due Stati continuarono a lanciarsi minacce fino al 4 ottobre 2012, giorno in cui in un villaggio turco vennero uccisi dei civili con proiettili siriani (sull’accaduto ancora non è stata fatta sufficiente chiarezza). Fu il momento in cui si temette maggiormente per l’esplosione di un conflitto, ma i due Governi compirono un passo indietro e la guerra fu scongiurata.
Fino ad oggi, l’intervento della Comunità internazionale per porre fine a questa crisi si è limitato quasi sempre ad un’azione di monitoraggio e controllo (eccezion fatta per il “Piano di Pace”), lasciando così che una rivoluzione nata pacificamente per una maggiore dignità dell’uomo degenerasse in una guerra civile. La ridotta mobilitazione della Comunità internazionale è stata, ed è tuttora, legata alla posizione delicata che questo Stato occupa, per via sia della sua collocazione geografica tra Occidente e mondo arabo, sia per l’ubicazione centrale nelle rotte del petrolio e del gas verso il Mediterraneo.
Il Governo siriano ha trovato, e trova tuttora, protezione a livello internazionale nei Governi di Russia (vista la caratteristica politica estera filorussa tenuta dai sovrani della Siria), Iran e, in modo defilato, anche dai Governi di Cina (visti i suoi rapporti con il Governo russo durante la Guerra Fredda) e Iraq. Il regime è stato protetto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite grazie al potere di veto di Cina e Russia che si sono opposte a queste ultime, perché ritenute atti d’intransigenza e di conseguente violazione della sovranità territoriale dello Stato siriano.
Come si può vedere, la realtà statale e quella internazionale s’intrecciano, rendendo ardua la conclusione della guerra e, soprattutto, l’ascolto della popolazione civile. Questa subisce un conflitto armato nato come rivoluzione pacifica per il riconoscimento dei diritti fondamentali e della libertà e sfociato, poi, nella morte di quest’ultima. Questa situazione di stallo, interno ed internazionale, ha subito un’accelerazione nel momento in cui il regime alawita è stato accusato di aver utilizzato armi chimiche contro i civili. La circostanza ha smosso la società internazionale: le Nazioni Unite hanno richiesto il permesso a Bashar al-Assad di poter inviare alcuni ispettori per svolgere indagini sull’utilizzo di queste armi. La richiesta è stata accolta e gli ispettori hanno iniziato le indagini il 26 agosto scorso. Insieme all’assenso del regime siriano alle indagini, nello stesso giorno è giunta la minaccia – da parte dell’Amministrazione statunitense, appoggiata dal Governo inglese (si scoprirà pochi giorni dopo, attraverso il Daily Mail, che alcune aziende britanniche avevano venduto agenti chimici, convertibili in armi, ad alcune aziende siriane, previa licenza del Governo britannico) e da quello francese – di apertura di un conflitto per far cessare la guerra civile e riportare la Democrazia. La diplomazia internazionale sta ora lavorando per cercare un punto d’incontro ed evitare un nuovo conflitto internazionale scatenato da USA, UK e Francia. In esso si schiererebbero anche Iran e Iraq, i quali indirizzerebbero gli attacchi, a difesa della Siria, contro Israele, guastando così la precaria stabilità di tutta l’area araba. L’accordo che consentirebbe un’uscita diplomatica da questo focolaio è stata proposta dal Ministro degli Esteri russo, Lavrov: nel suo disegno di risoluzione, suggerisce che la Siria consegni le armi chimiche al controllo internazionale in modo pacifico. A questa proposta si contrappone quella meno irenica del Governo francese, nella quale la consegna delle armi da par- te della Siria avverrebbe con l’uso della forza. Sullo sfondo di questa situazione, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite arrivano i primi rapporti degli ispettori ONU riguardanti un periodo che va dal 15 maggio al 15 luglio 2013. Nei rapporti vengono accusate ambo le parti coinvolte nella guerra civile di aver compiuto massacri a danno di civili, distinguendoli in otto compiuti dal Governo ed uno da parte dei ribelli. Il sospetto espresso dagli ispettori è che il numero dei massacri, ovvero bombardamenti di ospedali e di quartieri residenziali, esecuzioni sommarie e sequestri, sia, in realtà, maggiore di nove.

Arianna Duse
Università di Padova, Facoltà di Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani

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