Oltre il Campo

Tiziana Sgubin

La divisione della società in Rom e gagè corrisponde alla divisione tra uomo e non uomo. È una separazione forte e la mediazione tra le due categorie non può avvenire che attraverso il dialogo tra culture il cui confronto dovrà portare ad un reciproco arricchimento.

Vengo spesso presentata, in qualità di antropologa, come esperta delle problematiche riguardanti la popolazione rom. In realtà, il mio lavoro con i nomadi ha da subito assunto un carattere molto operativo e tutte le riflessioni teoriche e progettuali hanno avuto come punto di partenza proprio l’esperienza “sul campo”. Nel 2000 ho elaborato, per il Comune di Roma, una mappatura dettagliata dei campi nomadi presenti nella capitale, una raccolta di dati qualitativi e quantitativi relativi alle differenze di gruppi etnici, religione, tradizioni e modelli familiari e culturali.

Ho cominciato a sentirmi davvero un’antropologa quando sono passata dalla conoscenza teorica al coinvolgimento reale, col fango alle ginocchia, a enumerare fontanelle, bagni chimici, tra montagne di rifiuti e roulottes fatiscenti, baracche improvvisate, e, soprattutto, quando ho cominciato a confrontarmi con i Rom giocando “fuori casa”, condividendo il loro contesto di vita e cominciando a riconoscerne in modo diretto i valori e l’originalità. La divisione della società in Rom e gagè corrisponde alla divisione tra uomo e non uomo. È una separazione forte e la mediazione tra le due categorie non può avvenire che attraverso il dialogo tra culture il cui confronto dovrà portare ad un reciproco arricchimento. Chi entra in un campo è percepito come un controllore, un curioso, un estraneo da allontanare, ed è vissuto con ostilità. Al contrario, il mio ruolo è stato, fin dall’inizio, partecipante, basato sul rispetto. La difficoltà principale nel lavoro con i Rom è quella di riuscire a stabilire un contatto, cosa che si ottiene soltanto attraverso il riconoscimento e la fiducia. Mi sono concentrata, principalmente, su minori e donne, la fascia più debole in un contesto di criticità già elevata e difficilmente gestibile, e, allo stesso tempo, quella sulla quale è così importante investire l’impegno sociale ed educativo, rappresentando l’elemento di ogni possibile cambiamento. Lavorare sul campo mi ha permesso di comprendere in modo diretto ed empatico una realtà complessa di cui spesso si conosce solo l’aspetto superficiale: da un lato, la visione leggendaria del nomade libero e senza patria, figlio del vento; dall’altro, quella più cruda, legata ai fatti di cronaca, che fa del Rom una figura da temere ed evitare. Ogni pregiudizio è, del resto, fondato sulla paura della diversità. Il popolo rom è eterogeneo, suddiviso in gruppi etnici diversi per provenienza geografica, religione e cultura, ed è un popolo giovane, costituito per il 37,5% da minori di età inferiore ai 15 anni.

Il progetto di scolarizzazione dei minori rom, iniziato a partire dagli anni ‘80 nei vari contesti nazionali, rappresenta il primo ed imprescindibile passo da cui dipende qualsiasi altra azione di promozione ed integrazione sociale ed ogni lotta di contrasto alla discriminazione ed all’emarginazione. L’impatto del bambino rom con l’istituzione “scuola” è complesso e problematico. Essa è vissuta con grande timo re e diffidenza, atteggiamenti che, spesso, si traducono in comportamenti aggressivi quale forma di autodifesa. L’ingresso a scuola è l’ingresso in una società altra, dai valori antitetici e, spesso, inconciliabili con il modello culturale appreso al campo. I valori e le usanze della tradizione zingara, a confronto con il nostro contesto di vita, sono giudicati come anacronistici, inadeguati, illegittimi. Il divario tra le due culture crea un clima di reciproca chiusura ed incomprensione. Il giovane rom vive due reazioni opposte: da un lato, la volontà di rinnegare la propria identità culturale per assimilarsi totalmente a quella della società dalla quale è percepito come “ospite”; dall’altro, il rifiuto all’integrazione per un radicamento alla tradizione al fine di evitare la perdita delle proprie origini. La scuola, in un contesto del genere, deve rappresentare uno strumento di mediazione, di incontro e di conciliazione tra identità che non si annullano, ma che si confrontano e si arricchiscono reciprocamente, un luogo in cui la diversità diventa valore e l’eterogeneità degli stili di vita occasione di crescita. Il bambino zingaro vive due esistenze separate, quella della società esterna e quella della famiglia, con regole, valori, principi opposti, situazione a cui reagisce con una profonda introversione o con comportamenti esageratamente inadeguati.

Per superare tale situazione di discriminazione, la scuola deve rendere flessibili i suoi schemi, trovare nuovi metodi e contenuti pedagogici che tengano conto delle diversità culturali e riescano a colmare lo scarto esistente tra modelli di vita alternativi che si incontrano in uno spazio che deve essere sentito come luogo comune e non come istituzione estranea e coercitiva. Per raggiungere nella scuola l’obiettivo dell’interculturalità, il primo passo è proprio la conoscenza e la valorizzazione delle altre culture, in questo caso quella zingara, così poco compresa ed approfondita. Gli insegnanti devono essere formati sulla storia e le tradizioni delle comunità nomadi per poter accogliere questi bambini nel rispetto della loro identità. La cultura rom va insegnata a scuola ed alla sua originalità vanno restituiti dignità e valore. Per colmare le distanze culturali, sono fondamentali le figure dei mediatori zingari, in qualità di operatori sociali, animatori, accompagnatori ed educatori di sostegno. Del resto, le condizioni abitative ed igienico-sanitarie dei campi sono l’elemento che maggiormente pregiudica i risultati dell’inserimento scolastico. Campi sprovvisti di servizi, in cui i bambini non hanno la possibilità di lavarsi e di condurre una vita sufficientemente regolare, rendono vano qualsiasi percorso di inclusione sociale, in quanto vi sono priorità legate alla mera sopravvivenza, ed ai minori è drammaticamente negato il diritto all’istruzione ed anche quello, più elementare, ad un’infanzia protetta. Nei campi attrezzati, il tasso di scolarizzazione è decisamente più elevato. Va ricordato che, purtroppo, spesso sono proprio i continui sgomberi e spostamenti forzati delle comunità rom da un insediamento ad un altro ad interrompere drasticamente il percorso di inserimento scolastico, rendendo difficile il trasferimento in altri istituti e, nella migliore delle ipotesi, discontinuo il processo di apprendimento e di socializzazione.
Ho seguito con grande entusiasmo un piccolo campo rom in via della Cesarina, un ex campeggio con roulottes e containers. Scarsi i servizi igienici e l’erogazione di corrente elettrica, condizioni abitative precarie, basti pensare al persistere di patologie respiratorie legate al freddo ed alle periodiche infezioni cutanee per motivi igienici, soprattutto tra i bambini, oltre che le infestazioni stagionali di scarafaggi ed altri insetti. Il Comune di Roma ha voluto investire in questo campo avviando vari progetti di integrazione sociale, rivolti, soprattutto, a donne, minori ed adolescenti. Ho gestito uno sportello di segretariato sociale all’interno del campo, strumento fondamentale di mediazione tra comunità rom ed istituzioni. Lo sportello aveva funzioni di orientamento ai servizi del territorio, di consulenza legale e di ascolto. Insieme alla Caritas diocesana, abbiamo attrezzato un piccolo ambulatorio medico con servizio di pediatria. Per quanto riguarda, nello specifico, i progetti socio-educativi, è stato realizzato un asilo nido all’interno del campo, gestito da educatori e mediatori affiancati da giovani madri zingare. Lo spazio è stato ideato per offrire un luogo sano e sicuro di gioco e socializzazione per i bambini della fascia d’età compresa tra 0 e 5 anni, con la finalità principale di contrasto alla mendicità minorile. Attraverso la condivisione di ruoli ed obiettivi, anche le donne rom si sono sentite coinvolte nel progetto, superando la diffidenza nel lasciare i loro bambini custoditi da strutture esterne alla famiglia. I risultati del servizio sono stati importanti, un esempio concreto di garanzia del diritto all’infanzia e di rispetto della diversità, nonché un sostegno alle donne nella cura dei figli, con un’attenzione all’assistenza igienica e sanitaria, alle regole alimentari e, allo stesso tempo, un luogo di incontro per conoscere da vicino abitudini, tradizioni e valori della madre zingara. La fascia d’età forse più problematica è rappresentata dagli adolescenti, spesso non coinvolti nel progetto di scolarizzazione e già avviati ad uno stile di vita molto precario ed a rischio devianza. Per questi ragazzi sono stati organizzati corsi di alfabetizzazione tenuti da docenti e mediatori culturali, in preparazione alle 150 ore previste per la licenza media. Per valorizzare le competenze presenti tra le donne, è stato avviato un corso di sartoria, con tanto di macchine da cucire professionali, da cui sono nate borse, abiti ed accessori artigianali originalissimi, poi venduti in piccoli mercatini rionali. Tutto questo dentro il campo. Perché il primo passo, si è già detto, è lo stabilire un contatto, creare un clima di fiducia e di riconoscimento reciproco di ruoli, uscire dalla figura dell’assistente e del controllore per condividere spazi ed obiettivi, nel tentativo non di assimilare, ma di confrontarsi. Il campo ha così, pian piano, perso i confini, si è aperto alla comunità esterna. La miseria non è un reato ed è compito di noi educatori garantire ad ogni bambino un uguale ed inalienabile diritto all’infanzia. Al campo di via della Cesarina, grazie alla sinergia delle azioni poste in essere, il tasso di scolarizzazione si è attestato al 98%. Un risultato significativo, reso possibile solo attraverso un reale impegno a vincere il pregiudizio e sapendo trovare nella diversità una ricchezza da cui partire e sulla quale costruire un nuovo modello di cultura e di società.

Tiziana Sgubin

Antropologa

Rispondi