Il senso dei partiti

Andrea Mignone

Anche dopo il 2008, la legge elettorale, con soglie di sbarramento e premio di maggioranza, ha radicalizzato la competizione facendo convergere i voti su uno dei due principali schieramenti. Ma non ha diminuito la frammentazione, come lo scorcio finale di questa legislatura ha evidenziato.

Basta cambiare il sistema elettorale per ridefinire il funzionamento di un sistema politico? Basta modificare il tecnicismo con cui i voti dei cittadini si trasformano in seggi parlamentari per assicurare rappresentanza e governabilità? L’esperienza della ultradecennale transizione politica italiana, che ha nella coda il veleno dei populismi più diversi ed oscuri, ci restituisce quasi soltanto ombre. Il sistema elettorale è uno strumento complesso che, per la sua natura, per il complesso delle sue regole, per la sua collocazione nel sistema politico, sociale e culturale esercita una forte influenza: la scelta dei candidati, le alleanze elettorali, le campagne elettorali, la formazione dei governi. Il sistema elettorale è, quindi, uno strumento di assoluto rilievo nel funzionamento di un sistema politico e della forma di governo. Strumento i cui effetti sono diversi a seconda che il sistema sia stabile o in fase di destrutturazione: in quanto tale, rappresenta sia un vincolo, sia una risorsa per quanti, a vario titolo, concorrono alla determinazione della rappresentanza. Le sue conseguenze, però, non possono mai essere completamente previste e controllabili, e persino manipolate. Proprio per questo, per consentire spazi di manovra e di flessibilità, di adeguamento a mutate circostanze, raramente i sistemi elettorali sono “costituzionalizzati”. È stato perciò uno strumento molto diversificato (abbiamo almeno sette sistemi elettorali a seconda dei diversi livelli di governo) e molto enfatizzato come risolutore dei problemi di funzionamento del sistema politico. In verità, vi è stato un uso “tattico” delle varie riforme elettorali, consapevoli che chi ha la forza di decidere le regole del gioco può decidere già l’esito del gioco stesso. Non solo influenza il formato e la meccanica del sistema partitico, ma influenza anche le scelte degli elettori, struttura le culture politiche, seleziona la classe politica. Dal Mattarellum al Porcellum o Proportionellum abbiamo visto introdurre sistemi “misti”, compromissori, che non hanno ridotto la frammentazione partitica e hanno rafforzato la partitocrazia. Di fatto, il sistema partitico, pur destrutturato ed ancora in cerca di un riallineamento stabile, conserva alcune caratteristiche proprie del passato. La frammentazione dei gruppi in Parlamento è aumentata, con crescita di trasformismo e di scissioni. Sino al 2008, poi, l’indice di bipartitismo (concentrazione di voti e seggi nei due primi partiti) è stato inferiore a quello della “prima” Repubblica; le coalizioni elettorali, invece, segnano una forte bipolarizzazione legata alla logica del voto utile e di altri accorgimenti (collegi maggioritari uninominali, liste civetta, aggiramento dello scorporo, desistenza, ecc.). Anche dopo il 2008, la legge elettorale, con soglie di sbarramento e premio di maggioranza, ha radicalizzato la competizione facendo convergere i voti su uno dei due principali schieramenti. Ma non ha diminuito la frammentazione, come lo scorcio finale di questa legislatura ha evidenziato.
Il sistema elettorale, insomma, contribuisce a modellare la struttura delle opportunità degli attori (elettori, partiti, candidati) ed il tipo di competizione. Ma i tecnicismi da soli non bastano, soprattutto quando l’assetto istituzionale non è modificato, come testimoniano i tentativi falliti di riforma della forma di governo e quelli riusciti del Titolo V, che palesano tutte le loro velleità. La vicenda delle riforme elettorali, peraltro, sembra confermare la teoria del cosiddetto “bidone della spazzatura”: problemi alla ricerca di soluzioni si attaccano, casualmente, alle soluzioni che si trovano più a portata di mano. Una parte significativa del movimento referendario e, soprattutto, i partiti che hanno poi accettato di elaborare ed approvare in Parlamento le nuove normative, hanno fatto proprie, giustificandole razionalmente, le linee-guida di un sistema ricavato “di risulta”, attraverso le cancellature tecnicamente operabili con referendum su un testo concepito per rispondere, a suo tempo, ad altre finalità.
Ma, soprattutto, non è all’orizzonte la ripresa di un attore essenziale come il partito politico. ll sistema partitico italiano si è deallineato e destrutturato sulle rovine delle fratture sociali tradizionali e non si è ancora ripreso, anzi. Ormai, dovunque vi è antipolitica. Il cui bersaglio non è tanto “la politica” quanto i partiti: questi godono, per così dire, di pessima reputazione, non riescono a svolgere le classiche funzioni di rappresentanza politica, non ricreano legami di identità con i loro elettori, hanno allentato il loro radicamento territoriale, i vertici si sono garantiti di fatto la cooptazione della classe parlamentare, hanno accentuato la verticalizzazione della catena di comando. Eppure, i partiti, che hanno scambiato il potere con la fiducia, sono fondamentali in una Democrazia. Non a caso, nel passaggio dall’analisi politologica alla retorica elettorale, questa ipotesi è diventata una sorta di certezza perentoria, ribadita ad ogni occasione utile sia dai segretari di partito, sia dalle più alte cariche dello Stato. Ma la relazione può non essere così meccanica. Soprattutto, può non essere necessario che l’attore-partito disponga oggi del monopolio del processo di partecipazione e di rappresentanza. Il partito ha visto nascere altre forme di rappresentanza degli interessi e dei valori, network più o meno diffusi di partecipazione parallela. Insomma, il gioco si è complicato e si sono moltiplicati gli attori: di pari passo si è sviluppata l’idea di una Democrazia partecipativa e anche deliberativa. Tentativi importanti ed innovativi volti ad attribuire sostanza all’esigenza di Democrazia interna nei partiti, come le primarie di partito o di scelta dei candidati premier, rimangono casi significativi, ma non generalizzati e privi di una regolamentazione che assicuri certezza, in assenza di una legislazione di disciplina della forma partito secondo il ruolo ad essa affidato dalla Costituzione. Come la questione scandalosa della gestione del finanziamento pubblico alla politica o l’amoralità pervasiva della classe politica e della classe dirigente della tanto declamata società civile. Sino al fenomeno di partiti la cui identità è un sito Internet.
Il nostro sistema politico, seppur lentamente, sta mutando logica e natura di funzionamento, cui non sono estranee le politiche comunitarie. Ma non è proceduto di pari passo l’aggiornamento istituzionale: tutte le ultime legislature sono nate come “costituenti” e sono poi finite come inconcludenti.
Questa tripla stagnazione – del sistema politico (l’assetto istituzionale), del sistema partitico (l’assetto e le relazioni tra i partiti) e dei partiti stessi (la loro configurazione interna organizzativa) – ha già prodotto uno slittamento negli umori dell’opinione pubblica contro il sistema. Possiamo affermare di trovarci nella fase del “disincanto” weberiano.
La legislatura prossima potrà quindi essere dominata da una frattura che attraversa sempre di più il dibattito pubblico nazionale e, di fatto, lo sta riorientando: la contrapposizione tra riformismo e populismo, anzi tra diversi riformismi e diversi populismi. Le varie manifestazioni dell’antipolitica paiono confluire all’interno di questo filone populista che contiene solo una parte dell’antipartitismo tanto ricorrente nella polemica politica italiana. È una coppia dicotomica che non sostituisce del tutto la coppia destra-sinistra, ma la ridefinisce, così come rimodella il bipolarismo “muscolare” degli ultimi anni: rende, in qualche modo, più complicata la dialettica “normale” di un sistema politico che tenda a garantire il funzionamento della Democrazia parlamentare e la governabilità. Si può essere pienamente soddisfatti della qualità dell’attuale sistema politico italiano? La risposta prevalente, ad una domanda formulata in termini così netti, sarebbe probabilmente “no”. Sono molteplici gli elementi di insoddisfazione o di delusione: partiti numerosi, deboli e personalistici, scarsa coesione delle coalizioni elettorali e delle compagini di governo, concentrazione di potere politico, economico e mediatico, contrapposizione di reciproche intolleranze tra gli schieramenti. Ma la situazione attuale è solo il prodotto del sistema elettorale? Anche in questo caso, ritengo che la risposta debba essere negativa. Realizzare le riforme elettorali è stato il tentativo di trovare uno sbocco alla più grave crisi di legittimazione del ceto politico e del sistema dei partiti della storia repubblicana. Ma, da sole, non sono bastate.

Andrea Mignone
Professore Associato Dipartimento Scienze Politiche Università degli Studi di Genova

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