Premio Vita ‘Make a Change’

Emilio Cuomo

La capacità di essere competitivi sul mercato è la condizione primaria per la sopravvivenza di tutte le aziende e, quindi, anche di quelle cosiddette “sociali”: non ha senso sopravvivere grazie ad agevolazioni di qualunque tipo perché, in questo modo, si sottrae ricchezza alla comunità.

In un periodo indubbiamente recessivo per il mondo occidentale, nel quale le parole d’ordine per le aziende sono taglio dei costi e ristrutturazioni, potrebbe sembrare addirittura anacronistico il termine “sociale”. Spesso erroneamente, infatti, esso viene associato ad una scarsa efficienza aziendale. Nel migliore dei casi, può suscitare l’idea di qualcosa di difficilmente replicabile, magari adatto a poche, virtuose situazioni, comunque circoscritte per modalità, settore industriale, collocazione geografica.
Quello che si cercherà di illustrare in queste righe è un’esperienza virtuosa realizzata in una zona del Trentino nella quale, con molti sforzi, si è riusciti a coniugare “impresa” e “socialità”. Cercherò comunque di mettere in luce anche i punti di debolezza insiti in tali imprese, in particolare nel loro sistema di governance. Questo, essendo necessariamente “democratico”, si dimostra talvolta inadatto a garantirne la continuità, se essa non possiede, al proprio interno, i necessari anticorpi.
Sgombriamo il campo immediatamente da un equivoco: l’impresa “sociale”, normalmente rappresentata sotto forma di cooperativa, non può essere un’impresa gestita allegramente e con inefficienza. Essa richiede, a parere di chi scrive, un’attenzione alle regole ed alla gestione economica e finanziaria decisamente superiore all’impresa di capitali normalmente assunta in considerazione. Questo per il semplice motivo che il “capitalista”, o anche l’azionista, perfino il piccolo investitore, sa che il proprio capitale è “a rischio”, magari molto elevato. Come tale, necessita di una remunerazione che ripaghi del rischio sostenuto. Se così non fosse, egli dirotterà il proprio capitale verso aziende ritenute più remunerative rispetto al rischio sostenuto. Si intende qui affermare che la “giusta” remunerazione del capitale è condizione necessaria per gli investimenti e, di conseguenza, per lo sviluppo economico. Ovviamente, ciò non giustifica comportamenti illegali o semplicemente poco etici da parte delle aziende, ma non si può non tenerne conto in un sistema economico del quale, necessariamente, l’impresa sociale fa parte.
Ripartiamo proprio dal concetto di sistema economico nel quale l’impresa sociale è inserita. Per sopravvivere, l’impresa, di qualunque genere essa sia, deve creare “valore” per i propri stakeholder. È proprio sui concetti di “valore” e “stakeholder” che concentriamo la nostra attenzione.
Il “valore” è stato ampiamente esplorato da economisti e finanzieri fin dagli anni ’90. In particolare, l’economista americano Bennet Stewart ha creato un indicatore, l’EVA®, che misura la capacità di un’azienda di offrire un’extra remunerazione rispetto al costo medio ponderato del capitale investito (WACC). Esso ha quindi la prerogativa di valorizzare la capacità di creare valore nel lungo termine da parte dell’impresa. Non intendiamo, in questa sede, soffermarci sul fatto che qualcuno abbia ravvisato, proprio nel metodo dell’EVA®, particolarmente di moda fino al 2000, uno dei responsabili degli scandali finanziari, dei bilanci truccati e così via. In realtà, l’utilizzo corretto dell’EVA® presuppone la trasparenza del management nei confronti del mercato ed un orizzonte temporale realistico entro il quale attuare i piani aziendali. Corretto o errato che sia questo concetto, si può comunque effettuare la considerazione che l’impresa sopravvive solo se crea del “valore”. Su cosa sia il valore ritengo, invece, che si possa discutere e, sicuramente, per l’impresa sociale”, il valore non è espresso esclusivamente da indicatori economici. Parafrasando il famoso discorso di Robert Kennedy tenuto all’Università del Kansas il 18 marzo 1968 circa l’inadeguatezza del PIL quale indicatore economico del benessere di una Nazione, possiamo affermare che il “valore” di un’azienda non può essere espresso esclusivamente dalla redditività, misurata da indicatori come il ROE, che pure dovrà necessariamente essere adeguata. A tale proposito, si possono prendere in considerazione un paio di esempi:
– rappresenta un valore per l’azienda la capacità di creare posti di lavoro?
– rappresenta un valore per l’azienda fornire servizi al territorio?
Se le risposte sono affermative, come può questo “valore” essere quantificato?
Sottolineiamo che occorre quantificarlo per un motivo banale: per sviluppare la propria attività, l’azienda dovrà accedere al mercato dei capitali, non necessariamente allineato col concetto di “valore” proprio dell’impresa sociale.
Si pone, quindi, la duplice esigenza di creare valore economico (altrimenti le banche non mi finanziano) e di creare valore sociale: è questo il motivo fondamentale per cui questa tipologia di azienda non può essere gestita “in allegria”. L’impresa sociale richiede rigore ed attenzione manageriale superiori alle normali imprese di capitale: nessuno ci obbliga a creare impresa, né, tanto meno, a creare impresa sociale. Ma se intendiamo realizzarlo, sappiamo che andiamo incontro ad una serie di problemi potenzialmente più complessi di quelli della normale società di capitali in quanto più complessi e variegati sono gli stakeholder ai quali essa risponde. L’assenza, inoltre, di un capitale di riferimento, pone problemi di governance non indifferenti, come si vedrà di seguito.
Parliamo ora di stakeholder o “portatori di interesse”, i soggetti che “influiscono” nei confronti di un’azienda. La definizione, elaborata nel 1963 dall’Università di Stanford, e principalmente da Edward Freeman, è quella di “soggetti senza il cui supporto l’impresa non è in grado di sopravvivere” (da “Strategic Management: a stakeholder approach”). Col passar del tempo è iniziato a prevalere, in questa definizione, il filone cosiddetto “etico”. Nel 1984, ad opera, per esempio, di William M. Evan, la definizione si è allargata a “tutti i soggetti che possono influenzare o sono influenzati dall’impresa”, quindi non solo i soggetti “attivi” circa processi e profitti, ma anche tutti quelli “passivi”, ovvero che ne subiscono le conseguenze. L’impresa, pertanto, non solo non deve far diminuire il benessere attuale delle persone, ma deve accrescerne la ricchezza complessiva. Ad oggi, si possono concentrare gli stakeholder nelle seguenti categorie: impiegati, manager e proprietari (stakeholder interni) e società, Governo, fornitori, clienti, creditori ed azionisti (stakeholder esterni). Per completezza di informazione, riportiamo anche la critica a questa teoria ad opera di Milton Friedman (“Scuola di Chicago”) il quale, rigettando il concetto di responsabilità sociale di impresa, affermò che i manager devono agire nell’esclusivo interesse dei proprietari – azionisti e che utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali, anche quelli di cui l’impresa ne è causa, significa fare beneficienza con i soldi degli altri. Queste teorie ispirarono, negli anni ’80, le politiche economiche reaganiane e teacheriane: non a caso, Friedman fu definito da più parti l’anti-Keynes.
Tutta questa premessa per dire che il dibattito sulla responsabilità sociale di impresa non è nuovo ed ha appassionato generazioni di economisti. Se, però, questo dibattito può essere accettabile per le imprese di capitali, la responsabilità sociale non può essere messa in discussione nel caso di imprese che si definiscono esse stesse “sociali”: molteplici saranno i loro stakeholder e, principalmente, saranno rappresentati dai “soci” stessi nel caso delle imprese cooperative in quanto, spesso, essi rappresentano contemporaneamente più categorie dei “portatori di interesse” prima menzionati.
Si pone, quindi, il problema del “fine ultimo” dell’impresa sociale, ovvero contribuire alla “felicità” della comunità nella quale opera. Il discorso valoriale non deve sembrare troppo “campato per aria”: nel caso di acquisizioni di imprese francesi in fallimento da parte di aziende straniere, uno dei principali problemi che si pone una sorta di tribunale fallimentare, composto fondamentalmente da qualcosa di molto vicino alle nostre unità confindustriali, è la “perennità” dell’impresa. Essa, infatti, rappresenta, prima che una ricchezza per gli azionisti, i dipendenti e così via, una ricchezza per il “territorio”.
Queste considerazioni implicano, come già accennato, una ferrea disciplina gestionale in quanto, se l’impresa viene depauperata attraverso decisioni scellerate, non si impoveriscono esclusivamente gli azionisti e, in generale, gli stakeholder interni, ma si porta via ricchezza, non solo materiale, alla comunità di cui essa fa parte: le si sta “rubando la felicità”.
In questo contesto socio-culturale va inserito il caso del CEdiS – Consorzio Elettrico di Storo. L’azienda è nata nel 1904 con l’obiettivo di portare l’energia elettrica (“la corrente”, “la luce”) nella Valle del Chiese, Trentino. All’epoca fu costruita una piccola centrale idroelettrica che forniva energia per illuminare stalle ed abitazioni. La forma sociale scelta fu quelle cooperativa e si pose fin da subito il problema del conferimento del “capitale sociale”. Certo, ci fu chi conferì capitale economico, ma ci fu anche chi conferì capitale in termini di ore di lavoro, competenza professionale o, comunque, capitale intangibile. Fin dagli albori, quindi, il capitale reale dell’azienda risultò difficilmente quantificabile in termini di libri sociali o di bilancio.
Col tempo l’azienda ha adeguato i propri asset produttivi rimanendo sempre nel campo delle energie rinnovabili. Oggi esprime un fatturato di circa 5 – 6 milioni di euro e asset per circa 25. È riuscita a sopravvivere alla nazionalizzazione dell’energia elettrica degli anni ’60, dispone di quattro turbine idroelettriche ed è concessionaria della distribuzione elettrica nella zona di Storo. A queste strutture si affiancano degli impianti fotovoltaici, sempre per rimanere nel campo delle energie rinnovabili. Ad oggi, il CEdiS vanta circa 3.300 soci che fruiscono di uno sconto sul costo dell’energia elettrica pari, mediamente, a circa il 15% rispetto alle normali offerte di mercato.
Alla tradizionale offerta di energia elettrica, negli ultimi dieci anni si è affiancata quella di servizi su banda larga distribuiti tramite fibra ottica: i soci che lo desiderano, possono collegarsi alla banda tramite fibra ottica che arriva in casa dell’utente. Sottolineo quest’ultimo particolare: a casa dell’utente, il famoso “ultimo miglio” è in fibra ottica, situazione pressoché unica in Italia. A fine 2010 è stato inoltre collegato con tecnologia GPON il primo utente residenziale in Italia. Questa tecnologia, adatta prevalentemente alle utenze domestiche, consente un notevole abbattimento dei costi di realizzazione della rete. Giusto per fare un esempio, Telecom collegherà cento città italiane in fibra lasciando l’ultimo miglio in rame. Su banda larga vengono forniti servizi di telefonia, collegamento ad internet e IPTV, ovvero trasmissione dei normali canali televisivi via banda larga in una zona nella quale la ricezione è difficoltosa, il tutto a costi inferiori a quelli di mercato. Negli ultimi tre anni, il servizio di telecomunicazioni è stato integrato con la banda larga via antenna, cosiddetto hiperlan, di qualità sicuramente inferiore alla fibra ottica, ma competitivo, da un punto di vista delle prestazioni, con le migliori offerte di ADSL presenti sul mercato Il servizio viene distribuito in zone nelle quali l’ADSL è assente o di qualità assolutamente inadeguata alle moderne esigenze residenziali ed aziendali.
L’azienda si caratterizza, inoltre, per quella che chiamiamo “assenza del numero verde”: l’utente che presenta un qualunque problema dispone di un interlocutore in carne ed ossa che cercherà di porvi rimedio. Non è quindi costretto a premere una sequenza di una decina di tasti telefonici o a dover ascoltare, nel migliore dei casi, la “Primavera” di Vivaldi. Ciò rappresenta un innegabile vantaggio competitivo per l’azienda nei confronti di qualunque operatore elettrico o di telecomunicazioni nostro potenziale concorrente.
La forma sociale, come già accennato, è quella di una società cooperativa. È retta da un Consiglio di Amministrazione eletto su base territoriale e formato da Presidente, Vice Presidente, undici Consiglieri e tre componenti l’Organo di Controllo. Il CEdiS dispone, inoltre, di ventidue dipendenti, tutti almeno diplomati in quanto l’organizzazione aziendale prevede funzioni interne di massima specializzazione.
Rifacendosi al quadro teorico, magari fin troppo semplificato in apertura, l’azienda migliora il benessere della propria comunità attraverso un costo della bolletta elettrica più basso, migliorando, quindi, il potere di acquisto delle famiglie e fornendo servizi tecnologicamente avanzati su banda larga. Si propone, pertanto, quale “motore di sviluppo” di una comunità in quanto una bolletta elettrica più bassa rispetto al mercato permette alle famiglie di “avere più soldi da spendere” (magari saranno solo 100 – 150 euro all’anno…). Ha inoltre creato un’infrastruttura di rete di primissima qualità, osiamo dire la migliore in Italia, in quanto il rating del collegamento secondo Speedtest® (http://www.speedtest.net/) è A+, superiore al 99% dei collegamenti testati (test eseguito il 5 dicembre 2012 alle ore 16.22: http://www.speedtest.net/result/2352936093.png). Questa infrastruttura, ad oggi onestamente poco nota e, conseguentemente, poco sfruttata, potrebbe porre le basi per lo sviluppo di società erogatrici di servizi di primissima qualità che decidessero di investire sul territorio, trattenendo anche i “cervelli” che emigrano verso le città o verso Paesi stranieri.
La situazione è tutta rose e fiori come appare da queste righe? Ovviamente no! Torneremo in seguito sui temi più critici.
A qualcuno, come direbbe Marzullo, potrebbe sorgere spontanea la domanda se, per caso, a Storo sia stata scoperta la pietra filosofale o se qualche genio della lampada alberghi da queste parti e bisognerà attendersi, a breve, il conferimento del premio Nobel a qualcuno. Ovviamente, la risposta è molto più banale. È stato possibile creare questa infrastruttura in quanto, essendo proprietari della rete di distribuzione elettrica, nei cavidotti nei quali passano i cavi che distribuiscono l’energia elettrica, è stata stesa anche la fibra ottica: si è utilizzata un’infrastruttura già realizzata, o da realizzare, per fornire un ulteriore servizio.
Altra domanda che nasce è quanto sia redditizia la rete in fibra ottica. Sgombriamo il campo da equivoci e facili entusiasmi: ad oggi, poco o nulla, soprattutto in zone periferiche. Se lo fosse in maniera inequivocabile, sicuramente le “major” delle telecomunicazioni si sarebbero “avventate” sul business ben prima del CEdiS!
Il “Consorzio” dispone però di un paio di vantaggi competitivi rispetto a queste grandi aziende: una catena decisionale brevissima (la decisione di utilizzare la tecnologia GPON è stata presa nello spazio di un’ora) e, soprattutto, non ha la necessità di remunerare il capitale esclusivamente in termini economici. Sostanzialmente, si è “scambiato” col socio la possibilità di un maggiore sconto sulla bolletta elettrica con dei “servizi”.
Da quanto realizzato, si possano trarre alcune interessanti considerazioni che possono essere riproposte come “modello” per aziende sociali.
Le prime sono di tipo tecnico – organizzativo. Ad esempio, oggi le “reti” distributrici di utilities non possono essere pensate fini a se stesse, ma devono essere progettate in termini di potenziale sviluppo: è assurdo dover effettuare scavi plurimi sulle strade creando moltiplicazione di costi e disservizi alla popolazione. Solo una progettazione integrata dei “servizi” può ottimizzarne i costi. Come già accennato, solo un processo decisionale breve ha permesso innovazione tecnologica in tempi rapidi: se le imprese sociali vogliono essere competitive sul mercato, devono dotarsi di un’organizzazione snella.
La capacità di essere competitivi sul mercato è la condizione primaria per la sopravvivenza di tutte le aziende e, quindi, anche di quelle cosiddette “sociali”: non ha senso sopravvivere grazie ad agevolazioni di qualunque tipo perché, in questo modo, si sottrae valore alla comunità. E la competitività sul mercato si raggiunge con efficienza e capacità di innovazione tali da mantenere i bilanci aziendali in ordine: è questa una condizione necessaria, purtroppo non sufficiente, per poter conseguire obiettivi “sociali”.
Come si accennava in precedenza, queste “imprese sociali” sono allora tutte rose e fiori? E se lo fossero, perché il mercato non le premia? Evidentemente, non è così.
Si accennerà ora, in maniera necessariamente sintetica, ai “vulnus” più o meno nascosti che possono essere presenti in queste organizzazioni. Personalmente, ne individuo almeno due:
– conti in ordine;
– sistema di governance.
Partiamo dai conti in ordine. Lo si è più volte accennato: i conti devono essere “più in ordine” di quelli delle società di capitali in quanto si amministra un bene comune e bisogna farlo in maniera “economica”. Per poterlo fare, è necessario avere dei “professionisti”, non solo persone animate da spirito sociale e buona volontà. Le migliori risorse vanno preparate dalle Università e motivate ad operare in questo settore. Due sono gli aspetti particolarmente critici: da un punto di vista patrimoniale, la sottocapitalizzazione di queste imprese. Il capitale sociale è davvero minimo rispetto agli asset dell’azienda. Da un punto di vista economico – finanziario, invece, occorre porre particolare attenzione alla situazione di liquidità dell’azienda. Solo una gestione particolarmente attenta dal punto di vista del “rendiconto finanziario” del capitale circolante garantisce, quindi, l’ossigeno per sopravvivere all’azienda (se sono ricco, ma non riesco a pagare i fornitori per scarsa attenzione alla liquidità, dovrò vendere i gioielli di famiglia).
Ai problemi accennati è direttamente collegato il sistema di governance dell’azienda sociale. A mio avviso, rappresenta l’aspetto più debole di queste imprese. Non sempre sotto questo aspetto un sistema “democratico” rappresenta la migliore soluzione aziendale: nessuno mangerebbe dei funghi, che potrebbero essere velenosi, solo perché lo ha deciso la maggioranza! Purtroppo, la Democrazia non garantisce la competenza manageriale. Vanno quindi distinti chiaramente i ruoli di indirizzo e quelli di governo tra organo politico ed organo operativo dell’azienda.
Indubbiamente, queste aziende possono spesso rappresentare una vetrina non indifferente per chi aspira a cariche pubbliche e, come tali, le posizioni elettive possono risultare particolarmente appetibili. Per poter scalare la Apple occorre qualche miliardo di dollari mentre per poter “scalare” una prestigiosa impresa sociale può essere sufficiente un po’ di demagogia!

Emilio Cuomo
Direttore di CediS – Consorzio Elettrico di Storo, Premio Vita ‘Make a Change’ 2011

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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