Dopo la riforma

Marina Brollo

In linea di massima, la legge n. 92 rappresenta una riforma “a doppia anima”, riconducibile al modello europeo della flexicurity, ma declinato “all’italiana”.

Il mercato del lavoro, al tempo della grande crisi, sta “cambiando pelle”, sul lato sia della domanda, sia dell’offerta di lavoro, anche per ragioni demografiche e di migrazione. Il mercato sta, inoltre, modificando le “misure” geo-politiche, con il superamento dei confini tradizionali ed una dimensione, per un verso, allargata all’Unione Europea ed oltre, per altro verso, allungata sul localismo regionale, in entrambi i casi con connessioni complesse. Il mercato del lavoro, e con esso i correlati diritti dei lavoratori, sono, pertanto, entrati in una fase di transizione verso una post-modernità, tuttora imprecisa ed ambigua, in cui convivono aspetti del passato ed innovazioni, concetti, interessi e persino linguaggi diversi rispetto a prima, tutti con una chiara tendenza ad assumere un carattere dinamico, variegato e composito.
In questo contesto, le riforme del lavoro dell’ultimo decennio se, per un verso, hanno facilitato l’accesso al mercato del lavoro in casi e modi non standard (anche regolarizzando il sommerso), nonostante la crescita fiacca della produttività, per l’altro – anche perché squilibrate sulle flessibilità “in entrata” – hanno alimentato il fenomeno del dualismo fra lavoratori tipici protetti ed atipici non protetti, con segmentazioni inefficienti ed inique, con il rischio di intrappolare i lavoratori più deboli e vulnerabili nel perverso circuito di una flessibilità prolungata che diventa precarietà e spesso povertà (le statistiche rilevano un preoccupante aumento dei c.d. working poor).
Da qui l’esigenza di nuove regole di protezione, a garanzia della tradizionale “debolezza negoziale” delle persone che lavorano, della libera iniziativa degli operatori, della concorrenza/competizione fra imprese sul mercato globale e della loro attrattività rispetto a possibili investitori esteri.
In questo scenario, la riforma Fornero coltiva l’idea di ricercare un equilibrio sostenibile fra adattabilità/flessibilità a favore delle imprese e tutele/sicurezze a vantaggio dei lavoratori. La legge n. 92 del 2012 rappresenta una riforma del mercato del lavoro in larga misura di tipo verticale e statale, ma con una “mission” di stampo europeo. In estrema sintesi, è una riforma ricca di ambizioni e di aspettative salvifiche, ma anche di contraddizioni, alcune figlie del carattere compromissorio di alcune scelte politiche, e soprattutto povera di risorse (con il noto refrain del “costo zero”). Appare certo che non basteranno le prime per attuare efficaci politiche di “riduzione permanente del tasso di disoccupazione” o, addirittura, “di crescita sociale ed economica” come recita l’articolo di apertura coltivando la speranza che il diritto possa farsi autore del cambiamento in positivo del mercato. In ogni caso, come opportunamente prevede la stessa 92, l’applicazione delle innovazioni andrà verificata con un sistema di monitoraggio, anche al fine di correggerle in modo consapevole.
In linea di massima, la legge n. 92 rappresenta una riforma “a doppia anima”, riconducibile al modello europeo della flexicurity, ma declinato “all’italiana”. Da un lato, prevede un riequilibrio delle regole e delle tutele, nel rapporto di lavoro, delle flessibilità “in entrata” in via di ridimensionamento, anche con un sensibile rialzo dei costi contributivi che aggrava il cuneo fiscale sul costo del lavoro, e delle flessibilità “in uscita” in via di allargamento, specie con la modifica dell’art. 18 St. lav. sottoposto ad un peculiare “sbriciolamento” sulla base dell’illegittimità del licenziamento, il tutto con un dichiarato favor per il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; dall’altro lato, la novella del 2012 dichiara di voler aumentare la sicurezza economica e professionale dei lavoratori nel mercato del lavoro con una riforma degli ammortizzatori sociali ed un’opera di disboscamento del sistema della cassa integrazione, entrambe parziali e differite nel tempo, data la scarsità di risorse finanziarie, un passaggio dal sistema assistenzialistico ad un più stringente sistema di workfare, una manutenzione della normativa relativa ai servizi per l’impiego, la formazione professionale e le politiche attive del lavoro, seppur queste ultime necessiterebbero di un massiccio investimento, anche in risorse umane.
Si segnala che la partita di scambio tra i due versanti della flessibilità e il gioco della compensazione tra tutele dal rapporto al mercato del lavoro tendono, in ultima analisi, a restituire al datore poteri di gestione della forza lavoro. Da qui un’ulteriore misura di compensazione sul piano collettivo, espressa dalla promozione di modalità partecipative di relazioni industriali, in chiave europea, per una gestione collaborativa dei rapporti di lavoro e per migliorare il processo competitivo delle imprese. Nel frattempo, il sistema di relazioni sindacali italiano appare sempre più logorato e frammentato, sì da rendere complicata ed incerta la stessa implementazione della contrattazione “delegata” prevista dalla riforma Fornero, specie in tema di flessibilità in entrata.
La novella coltiva, inoltre, la trasformazione dei soggetti e dei protagonisti del mercato del lavoro, con una commistione sempre più intensa tra pubblico e privato, una ri-organizzazione dei poteri ed un intreccio di competenze, con ruoli distinti e necessari, ma non sempre sincronizzati.
Si ricorda, poi, che il restyling del mercato del lavoro ha scontato, e sconterà in misura sempre maggiore, la forte influenza delle novelle sul sistema previdenziale maturate all’insegna del riequilibrio dei conti e dell’emergenza demografica. La riforma delle pensioni, in particolare, esercita ricadute in termini sia di rilevanza e continuità della retribuzione dell’intero percorso lavorativo, sia di allungamento del ciclo di vita lavorativa della persona dovuto all’innalzamento dell’età pensionabile del lavoratore, in entrambi i casi con scarsi effetti benefici per il dinamismo del mercato del lavoro.
In tale scenario, il rischio è che al primo posto dell’agenda politica svetti come vera e propria emergenza non tanto il problema dell’aumento dell’occupazione (specie dei giovani e delle donne) o della sua precarietà, quanto – come in un gioco di specchi – il suo rovescio, la diminuzione della dis-occupazione, specie dei lavoratori che hanno superato l’età di mezzo.
Va, infine, rilevato che il diritto del mercato del lavoro postmoderno presenta una peculiare caratteristica, segno dei tempi: l’incertezza e l’instabilità della normativa, quindi delle regole, che spesso travalicano i limiti fisiologici del diritto e della controversa materia, diventando una condizione permanente, congiunta con un’attesa, a volte vana, dell’applicazione pratica delle norme scritte sulla carta. Le riforme del mercato del lavoro succedutesi nel corso dell’ultimo decennio, specie le ultime due corpose leggi “d’autore” (Biagi e Fornero), costituiscono non solo un work in progress per approssimazioni successive, ma un vero e proprio prodotto giuridico “incompiuto”.
Il cantiere delle riforme resta quindi aperto: una parte importante dei provvedimenti rimane in stand-by perché necessita, per la sua concreta attuazione, di leggi regionali (e di correlati atti normativi sub-legislativi), di decreti (spesso interministeriali) e/o di accordi sindacali (interconfederali, nazionali, di secondo livello o di prossimità). Un’altra parte delle misure è provvisoria, per cui bisogna attendere lo scorrere del tempo per la stessa validità iniziale o per l’eventuale proroga. Ulteriori innovazioni sono, invece, soggette alle incerte regole del diritto transitorio, spesso in assenza di norme specifiche, senza contare che la tecnica legislativa appare, in alcuni punti, approssimativa ed imprecisa, con inevitabili (e costosi) rimbalzi, “lunghi” e defatiganti, nelle aule giudiziarie.
In ogni caso, se è vero che l’incompiutezza costituisce il meccanismo che mette in moto la fantasia, è altrettanto vero che essa ha alimentato, negli ambienti giuridici e degli operatori economici, un clima di incertezza (se non di vero e proprio caos) su regole, tempi, costi che spesso travalica i margini di tollerabilità a scapito del valore della certezza del diritto determinando, in ultima battuta, una scarsa effettività delle previsioni.
A conti fatti, se risulta difficile elaborare previsioni sul senso e l’impatto effettivo delle innovazioni della legge n. 92 del 2012, dentro e oltre la crisi, appare facile scommettere sul ruolo decisivo dei giuristi pratici, a partire dai giudici, cui è affidato l’impegnativo compito di applicare in modo certo e prevedibile le regole del nuovo mercato del lavoro. Ma questo richiederà tutto il lungo tempo necessario per far maturare orientamenti giurisprudenziali consolidati, a dispetto dell’urgenza della crisi. Così come si può agevolmente prevedere una prima risposta giurisprudenziale di “resistenza”, specie rispetto alle innovazioni caratterizzate da approssimazione tecnica o conflitti di competenza, effetto, sicuramente, non auspicato dal legislatore.

Marina Brollo
Professore ordinario di Diritto del Lavoro presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Udine

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