Il sistema di controllo posturale

Dario Urzi, Stefano Clauti

La postura di un essere umano, in quanto senziente e dotato di coscienza e consapevolezza, ci mostra anche e soprattutto un’intenzione. Proprio per questo richiede anche di essere “compresa” in quanto esprime sempre e comunque un senso.

Lo studio del sistema posturale continua ad essere fortemente condizionato dall’impronta biomeccanica da cui tradizionalmente ha avuto origine. La biomeccanica possiede il grande pregio di essere chiara, semplice e di fornire facili spiegazioni di quanto si presenta alla nostra osservazione. Al tempo stesso, però, presenta il grande difetto di essere costretta, per sua stessa natura, ad utilizzare modelli interpretativi grossolani e molto distanti dall’effettiva complessità dei fenomeni osservati.
Proprio per questo, nel corso di tanti anni di ricerca e di lavoro clinico interdisciplinare nel campo degli squilibri posturali e dei disturbi dell’equilibrio, ci siamo sempre più convinti che, per poterci spingere “oltre” e sempre più in profondità nello studio non solo strutturale, ma anche e soprattutto “funzionale” dei sistemi di controllo della postura, dell’equilibrio e del movimento corporeo, era necessario uscire dal ristretto campo della biomeccanica e prendere il largo compiendo un salto di qualità o, per meglio dire, un salto di consapevolezza.
Fu così che iniziammo a renderci conto che la postura di un essere umano non mostra semplicemente una “posizione del corpo nello spazio” o, più precisamente, secondo una nostra vecchia, ma chiara definizione, “la posizione di equilibrio che il corpo umano assume in una determinata circostanza”. La postura di un essere umano, in quanto senziente e dotato di coscienza e consapevolezza, ci mostra anche e soprattutto un’intenzione. Proprio per questo richiede non solo di essere studiata, analizzata e “spiegata”, ma anche di essere “compresa” in quanto, oltre a mostrarci una posizione spaziale del corpo, esprime sempre e comunque un senso.
Tra la “spiegazione” e la “comprensione” di un fenomeno esiste una differenza sostanziale. L’ordine della spiegazione cerca di rispondere alla domanda sul “come” si manifesti un determinato fenomeno, mentre l’ordine della comprensione, senza nulla togliere all’importanza di sapere “in che modo” quel fenomeno si manifesti, va ben oltre e ci chiede di interrogarci sul senso, lo scopo, il più profondo ed intimo significato, l’essenza dell’apparire. In altre parole, l’ordine della comprensione, travalicando senza escluderlo il piano dell’indagine scientifica tradizionalmente intesa, si estende ad una visione necessariamente più ampia, consapevolmente rivolta a scorgere nella postura di un essere umano anche ciò che in quell’essere si anima: istinto, pulsioni, sensazioni, emozioni, intenzioni, pensieri. Questo perché, nella postura di qualsiasi essere umano, tali aspetti sono sempre presenti e manifesti e possono fornirci informazioni di straordinaria importanza.
Da questo punto di vista, la postura si può considerare non solo la posizione del nostro corpo nello spazio, ma anche quel variegato e mutevole insieme di posizioni che il nostro corpo assume, a seconda delle circostanze, in ogni particolare momento della nostra vita.
Si tratta, quindi, di allargare il nostro sguardo ed il nostro orizzonte interpretativo sino a considerare la postura come una vera e propria forma di “comportamento”. E che cosa possiamo giungere a vedere ed a scoprire allorché la osserviamo con la consapevolezza che si tratti di un vero e proprio “comportamento”? Molto. Moltissimo.
Possiamo giungere a vedere, sentire, percepire, e quindi a scoprire, la presenza di emozioni ed intenzioni nascoste di cui spesso siamo inconsapevoli, che vorremmo allontanare o negare, o la presenza di intenzioni parimenti nascoste ed inconsapevoli rivelate dal fatto che la postura è in grado di mostrarci anche “l’azione che ci stiamo preparando a compiere”. Ad esempio, la postura che assumiamo per reagire rabbiosamente a quanto qualcuno ci ha appena comunicato o per prepararci a scappare quando, consapevolmente o inconsapevolmente, temiamo qualcosa che avvertiamo come minaccia o pericolo incombente, è ben diversa da quella che assumiamo quando intendiamo liberamente prepararci ad un veloce scatto di corsa o ad un tuffo nell’acqua.
La presenza di un’intenzionalità ben visibile e manifesta, di cui possiamo anche non essere consapevoli, un’intenzionalità che la posizione e la gestualità del nostro corpo sono in grado di mostrare con così grande evidenza, rappresenta la più chiara testimonianza che la postura del nostro corpo possiede una capacità espressiva davvero straordinaria.
La naturale capacità di cui disponiamo per riconoscere a colpo d’occhio il senso di ciò che facciamo e di ciò che gli altri fanno è quanto la rivoluzionaria teoria dei “neuroni specchio” (mirror neurons) (1) ha mirabilmente descritto e dimostrato.
I fondamenti delle proprietà espressive della postura e della gestualità dell’uomo derivano dal fatto che non siamo quadrupedi, né quadrumani: siamo esseri umani con due mani e due piedi e, da un punto di vista rigorosamente “posturale”, manteniamo con straordinaria facilità e naturalezza la stazione eretta in appoggio bipodalico senza bisogno di stabilizzarci con l’ausilio delle mani.
Con l’avvento del bipedismo e della mano prensile si è aperto uno spazio evolutivo davvero immenso in cui il cranio, dalla posizione di allineamento orizzontale con il corpo, è giunto a porsi “sopra il corpo”, in posizione di allineamento verticale, consentendoci di guadagnare una nuova e più ampia visione del mondo. In questo processo, ha svolto un ruolo di primissimo piano proprio la comparsa della visione binoculare foveata e, con essa, delle finissime e precisissime sinergie di controllo dei movimenti del capo, del collo e degli occhi, indispensabili per mantenere la fissazione visiva anche quando siamo in movimento.
È stato soprattutto grazie a questi fondamentali processi evolutivi dei sistemi di controllo della postura e dell’equilibrio corporeo che gli esseri umani sono giunti a poter agevolmente mantenere alto lo sguardo verso l’orizzonte (senza più dover faticosamente iperestendere il collo ed il capo) e, al tempo stesso, grazie alla diminuzione della protrusione del mascellare superiore e della mandibola, mantenere altrettanto agevolmente il controllo visivo delle mani e dei loro movimenti (senza dover più essere costretti ad alzare le braccia ed a portare il capo, il collo e le spalle in posizione di iperflessione).
L’essere umano si è così potuto conquistare una diversa posizione nel mondo ed una diversa visione del mondo.
Forse anche per questo Platone affermava che “Noi non siamo come le piante, perché la nostra patria è il cielo, dove fu la prima origine della nostra anima e dove Dio, tenendo sospesa la nostra testa, ossia la nostra radice, tiene sospeso l’intero nostro corpo che perciò è eretto” (2).
Più di duemila anni dopo, Kant richiamava la nostra attenzione sull’importanza delle proprietà funzionali della mano, che la postura eretta di equilibrio in appoggio bipodalico aveva reso definitivamente libera di muoversi ed agire: da antico strumento asservito alle sole funzioni indispensabili per la sopravvivenza era divenuta strumento creativo e di espressività gestuale, vero e proprio “cervello esterno dell’uomo” (3).
Con il passaggio alla postura eretta ed alla mano prensile, l’uomo ha potuto guadagnare, oltre ad una nuova e più ampia “visione del mondo”, una straordinaria e potentissima capacità di “manipolare la terra”, ovvero di intervenire “tecnicamente” sul mondo per modificarlo e renderlo, a suo modo, “più abitabile”.
Ma, come dicevamo poc’anzi, per mantenere agevolmente una postura di equilibrio in condizioni statiche e dinamiche, per poter eseguire i più diversi e talora rapidi movimenti del capo e del corpo mantenendo costantemente e senza fatica una perfetta fissazione visiva foveale sull’oggetto dello sguardo e per poter usare con abilità e precisione le mani nelle più diverse condizioni di vita e di lavoro, si sono dovuti sviluppare raffinatissimi e sensibilissimi sistemi di controllo della postura, dell’equilibrio e del movimento corporeo.
Ecco perché lo studio clinico della postura dell’uomo si pone necessariamente come studio clinico integrato di tutti questi sistemi e non di uno soltanto. Postura, equilibrio e movimento non sono altro che nomi diversi utilizzati per indicare i molteplici aspetti di uno stesso fenomeno. Ecco perché il sistema di controllo posturale va considerato come una chiara ed evidente espressione di “complessità”: nel suo ambito, le funzioni di regolazione dell’attività posturale tonica (statica), dell’attività posturale fasica (dinamica), dell’equilibrio, dell’oculomotricità, dell’attività del sistema neurovegetativo e del sistema psico-neuro-immuno-endocrino (PNEI) sono così strettamente correlate ed integrate da configurarsi come un unico sistema complesso il quale, pur svolgendo funzioni diverse, è capace di garantire armonia, coerenza e stabilità all’intero nostro organismo nelle più diverse circostanze.
Sebbene sia sempre vero che i riflessi sensitivo-motori del nostro organismo scattino in modo istantaneo ed automatico, rendendo possibili movimenti fondamentali come l’evitamento di una caduta o la presa al volo di un oggetto appena sfuggitoci di mano, è altrettanto vero che la selezione delle sinergie di riflessi sensitivo-motori che ci consentono di eseguire i più diversi movimenti somatici è fortemente influenzata anche dall’intenzione che ci muove a compiere una determinata azione.
L’intenzione del nostro agire, di cui possiamo talora non essere consapevoli, è quindi un elemento così importante da condizionare non solo il tipo di riflessi sensitivo-motori che entreranno in gioco nella selezione e nella modulazione di ciascun movimento somatico, ma anche le modalità di percezione di noi stessi e del mondo in cui viviamo.
Ciò non vale per l’animale, in quanto in esso prevale l’istinto, non un’azione, ma una “reazione”, condizionata ed istantanea, a stimoli ambientali specifici. Una reazione che avviene “senza alcun dubbio o esitazione”, assolutamente certa ed a prova d’errore. Non è così per l’uomo, la cui vita non appare come una “reazione al mondo”, ma come “un’azione nel mondo e sul mondo”. Per questo la percezione che l’uomo ha del mondo e di se stesso è così fortemente condizionata dal fine che la nostra azione si prefigge, dall’intenzione che ha originato la nostra azione.
Come dice Umberto Gallimberti (4) “Il mondo allora è una riserva infinita di significati latenti da cui emergono quelli che l’azione rende palesi… Siccome l’uomo non abita il mondo, ma la costellazione dei significati che la sua azione ha fatto emergere, possiamo dire che il mondo che l’uomo conosce e abita è il mondo che la sua azione ha costruito. Ma costruendo il mondo, l’uomo costruisce se stesso, perché il significato che le cose acquistano quando sono investite dall’azione agisce come stimolo sull’organismo umano informandolo del significato acquisito dalle cose. La soggettività non è altro che l’interiorizzazione di questi significati…”.
Maurice Merleau-Ponty, nella sua “Fenomenologia della percezione” (5), aggiunge un elemento di riflessione di grande importanza: “Tutto ciò che so del mondo, anche tramite la scienza, io lo so a partire da una percezione mia o da un’esperienza del mondo senza la quale gli stessi simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l’espressione seconda. La scienza non ha e non avrà mai il medesimo senso d’essere del mondo percepito… Non dobbiamo dunque chiederci se percepiamo veramente il mondo, dobbiamo invece dire: il mondo è ciò che noi percepiamo”.
Possiamo, allora, comprendere perché un essere umano, quando guarda qualcosa, non vede un semplice oggetto, ma un oggetto su uno sfondo, come la gestalt ci insegna. Lo sguardo dell’uomo è, infatti, uno sguardo capace di spingersi ben oltre, sino a “fare di un’immagine un paesaggio e un panorama” (da “pan”, tutto ed “orao”, visione), allo stesso modo in cui la sua capacità di ascolto può fare di un suono una musica o la sua capacità di azione di un movimento un gesto.
Non si tratta di un semplice processo di integrazione ed elaborazione di dinamiche sensitivo-motorie, attività che molti altri organismi viventi sono in grado di compiere, bensì della nostra capacità di maturare una percezione d’insieme non solo del mondo, ma di “noi stessi nel mondo”. Solo quando perveniamo ad una percezione d’insieme di “noi stessi nel mondo” possiamo davvero cogliere un senso, più precisamente “il nostro senso”, il senso che asume per noi il mondo ed il nostro essere al mondo.
Alain Berthoz, nel suo libro “Il senso del movimento” (6), afferma che noi uomini non guardiamo dove andiamo, ma andiamo dove guardiamo.
Guardare, nel senso più ampio del termine, significa non solo vedere lo spazio che ci circonda e le cose che lo abitano, ma anche osservare ed avere consapevolezza della nostra posizione nello spazio rispetto a ciò che ci circonda, del nostro “essere nello spazio”. Qual è, infatti, il punto di partenza di qualsiasi nostro gesto, di qualsiasi nostro pensiero e di qualsiasi nostra azione, se non quel “noi stessi” di cui così spesso ci dimentichiamo?
Ma, oltre ad un punto di partenza, esiste anche un punto d’arrivo. E per stabilire un punto d’arrivo, un obiettivo, una meta, dobbiamo essere desti e consapevoli della libertà di scelta di cui disponiamo.
Per scegliere consapevolmente in piena libertà, come diceva Georges I. Gurdjieff (7), dobbiamo “rimembrarci di noi stessi”, del nostro essere nel mondo, del nostro “esserci”. Solo in questo modo possiamo davvero definirci uomini e cercare di essere “noi stessi”, cessando di comportarci come una macchina a cui tutto sembra accadere per caso o per destino, una ”macchina che reagisce” e non un “essere che agisce”, per essere il più possibile consapevoli del senso di ogni nostro pensiero e di ogni nostra azione, per chiederci di volta in volta, come suggeriva Kant a chiare lettere nella sua “Critica della ragion pratica”: “Che cosa debbo io fare?”.
Non si tratta di scegliere tra una qualsiasi delle tante possibilità che la vita ci offre, ma di scegliere proprio ciò che più corrisponde al nostro autentico essere. Il senso del ben noto motto socratico “conosci te stesso” è proprio questo: conosci te stesso per poter essere il tuo autentico essere.
E che cosa avviene quando scopriamo che non siamo ciò che pensavamo di essere, ma qualcos’altro, o meglio, qualcun altro? Avviene che, se superiamo lo smarrimento, possiamo accedere al più radicale dei cambiamenti, al cambiamento che ci fa incamminare lungo la strada dell’incontro con noi stessi.
Quando ciò avviene, tutto cambia, dentro e fuori di noi: cambiano i nostri pensieri, la nostra visione del mondo, le nostre azioni, i nostri comportamenti, il nostro modo di vivere e… la nostra postura.
Possiamo, a questo punto, renderci conto che, al di là delle tanto utili, efficaci e spesso indispensabili terapie di cui disponiamo al fine di rendere più equilibrata ed armonica la nostra postura, esiste un altro livello di intervento: quello a cui si accede interrogandoci sul senso di ciò che ci accade e sul senso del nostro “reagire al mondo”, del nostro “agire nel mondo”, del nostro “essere al mondo”.

Dario Urzi
Medico chirurgo, Direttore Centro ricerche equilibrio e postura
Stefano Clauti
Medico Chirurgo, Odontoiatra, Esperto terapie manuali

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G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, “So quel che fai”, Raffaello Cortina Edizioni, Milano, 2006, ISBN 88-6030-002-9, pp. 23-49.
Platone, “Timeo”, Bompiani, 2000, ISBN 45290268, p. 90 a-b.
I. Kant, “Antropologia pragmatica”, Laterza, Bari, 1969, ISBN 88-842-02566-5, p. 38.
U. Galimberti, “Psiche e techne”, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1999, ISBN 88-07-10257-9, p. 178.
Maurice Merleau-Ponty, “Fenomenologia della percezione”, Studi Bompiani, Milano, 2003, ISBN 88-452-5356-2, pp. 17-25.
A. Berthoz, “Il senso del movimento”, McGraw-Hill, Milano, 1998, ISBN 88-386-3708-3, p. 175.
P.D. Ouspensky, “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, Casa Editrice Astrolabio, ISBN 978-88-340-0411-1, p. 132-133.


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