Esordio psicotico e complessità

Clara Minisini, Luca Burigana

Alcune ricerche che hanno riscontrato una correlazione tra durata della psicosi non trattata e prognosi delle patologie organiche, più tardi si interviene, più difficile è per la persona riprendersi.

Affrontare il tema della psicosi alla luce del modello della complessità comporta un cambio di prospettiva rispetto a quella che ad oggi è la più diffusa lettura del disturbo psicotico in psichiatria, la quale mira solo ad identificarne i disturbi e a nominarli. Per cogliere un disturbo mentale nella sua complessità, è necessario comprendere le persone che ne soffrono nel loro ambiente. “Il malato è, prima di tutto, una persona, e come tale deve essere considerato”. Questa frase introduce bene la concezione dell’individuo che si intende proporre. È stata pronunciata da Franco Basaglia, lo psichiatra che negli anni ‘70 avviò la rivoluzione sanitaria e culturale culminata nella legge 180 (il superamento del modello manicomiale in Italia) e nell’applicazione del modello territoriale dei servizi sanitari. Le radici filosofiche alla base di un tale cambiamento si svilupparono nel terreno della fenomenologia che già dai primi anni del ‘900 aveva avviato un ripensamento della psicopatologia, ponendo al centro la persona, con i suoi vissuti soggettivi ed i suoi atti intenzionali.
Tuttavia, come accennato, ad oggi è più diffusa una descrizione della psicosi puramente nosografica. Essa elenca una serie di sintomi, più o meno durevoli, che in vario modo possono essere sperimentati dalle persone portatrici di un episodio psicotico. Tali indicatori sintomatici sono:
– allucinazioni: alterazioni senso-percettive, come, ad esempio, sentire delle voci, vedere persone ed oggetti, percepire odori, provare sensazioni tattili che non corrispondono alle stimolazioni effettivamente presenti nell’ambiente;
– convinzioni false: alterazioni del contenuto del pensiero che assumono la forma di convinzioni stabili, le quali vengono mantenute a dispetto di qualunque evidenza del contrario, nonostante non siano accettate e condivise dagli altri;
– confusione del pensiero: alterazioni della forma del pensiero, come, ad esempio, una disorganizzazione ed una mancanza di coerenza nel flusso del pensiero, un’alterazione nelle associazioni tra le idee; il pensiero può essere insolitamente veloce o lento, la persona può incontrare difficoltà a spiegarsi;
– cambiamenti comportamentali: la persona si comporta diversamente dal solito, può essere iperattiva e ridurre le ore di sonno o passare le giornate a letto;
– cambiamenti emotivi: la persona vive sbalzi d’umore apparentemente immotivati; potrebbe comportarsi freddamente con amici o essere insolitamente eccitata o depressa.
La transizione verso la psicosi – definita esordio psicotico – rappresenta una condizione che, negli ultimi anni, sta attirando il mondo scientifico al fine di definirne l’evoluzione a scopo preventivo. La speranza di superare un disturbo come la psicosi, per anni associato al probabile esito della cronicizzazione (sorte che per anni accompagnava inesorabilmente la diagnosi di schizofrenia, un tipo particolare di psicosi), si deve soprattutto ad alcune ricerche ormai storiche che hanno riscontrato una correlazione tra durata della psicosi non trattata e prognosi: più tardi si interviene, più difficile è per la persona riprendersi. Ma riprendersi è possibile, e non così raro.
Elenchiamo alcuni dati per comprendere meglio le ricadute del disagio mentale: secondo l’OMS, una percentuale di popolazione maggiorenne compresa tra il 20 ed il 25% ha sofferto di una patologia mentale clinicamente significativa. Se ci si riferisce ai disturbi psicotici, si stima che 3 ragazzi su 100 sperimenteranno nell’arco della loro vita almeno un episodio psicotico. La schizofrenia presenta un’incidenza (nuovi casi all’anno) compresa tra le 16 e le 42 persone in una popolazione di 100.000 abitanti di età compresa fra i 18 ed i 54 anni (con picco tra i 23 ed i 25) con una prevalenza (persone affette su 100 abitanti) dello 0,5%.
Il costo medio annuo (approssimativo, in quanto non basato su campioni molto ampi) di una persona affetta da schizofrenia è pari ad E 7.506,57, di cui 6.607,59 imputabili alla malattia stessa. Con riferimento ai soli costi medici direttamente imputabili alla patologia, la voce che incide maggiormente è rappresentata dai ricoveri (69,5% – E 4.590,50), seguita da semiresidenzialità (13,6% – E 898,52), farmaci (9,5% – E 626,58) ed interventi terapeutici (7,4% – E 491,99).
Il mondo clinico e scientifico si avvale principalmente di una descrizione sintomatologica della psicosi proprio perché l’origine del disturbo è ancora un tema controverso. Il modello causale generalmente più accreditato è quello denominato “vulnerabilità-stress”: una persona eredita una predisposizione al disturbo che sfocia in malattia solo in concomitanza di fattori ambientali che richiedono un grosso sforzo di adattamento. In un soggetto caratterizzato da alta vulnerabilità (bassa capacità di adattamento ai cambiamenti) anche bassi livelli di stress possono portare a vivere un disturbo mentre, in una persona con una vulnerabilità più bassa, la possibilità di sviluppare un disturbo anche a fronte di livelli di stress molto elevati (liti, divorzi, lutti, abuso di droghe) appare minore. La teoria è interessante in quanto, nel prendere in considerazione la persona e le informazioni ambientali, pone al centro dei costrutti come vulnerabilità e stress dotati di valenza soggettiva e mutevole.
I comportamenti ed i vissuti espressi da una persona (in questo caso, una serie di comportamenti definiti, nel loro insieme, psicosi) perdono di senso se li si toglie dall’ambiente in cui vengono espressi (e per ambiente si intende anche l’ambiente soggettivamente percepito della persona). Per cogliere il fenomeno dell’esordio psicotico appare, quindi, necessario considerare la persona e l’ambiente entro cui è inserita come un sistema inscindibile di scambi e relazioni.
Proprio perché non fotografa uno stato della persona, ma un suo processo dinamico, il modello della vulnerabilità-stress costituisce un buon punto di partenza per introdurre il modello della complessità al fine di comprendere la psicosi.
Il pensiero complesso è consapevole in partenza dell’impossibilità della conoscenza completa: uno degli assiomi della complessità è l’impossibilità, anche teorica, dell’onniscienza. È animato da una tensione permanente tra l’aspirazione ad un sapere non parcellizzato, settoriale, riduttivo, ed il riconoscimento dell’incompiutezza e della incompletezza di ogni conoscenza.
Nell’affrontare il tema della psicosi alla luce del modello della complessità è necessario tenere a mente che si sta parlando dell’umano, nella sua totalità non spiegabile con semplicistiche relazioni di causa-effetto e nemmeno ancorandosi a singole teorie, per quanto valide, mai esaustive.
Prendendo in considerazione solo alcuni aspetti, si incorre nel rischio di considerare solo la sintomatologia e la malattia in sé e non l’individuo, con la conseguenza che diventa il sintomo l’oggetto del trattamento. In una visione sintomocentrica, l’intervento farmacologico diventerebbe la scelta primaria; d’altro canto, considerare solo l’ambiente potrebbe portare alla colpevolizzazione dei familiari e, comunque, collocherebbe la persona in una sfera di passività non realistica.
Le cause precise che generano un esordio psicotico sono ancora sconosciute. Si è accennato alla predisposizione genetica, alla vulnerabilità che risente di eventi traumatici, allo stile comunicativo familiare, all’uso di sostanze ed anche allo stress come goccia che fa traboccare il vaso. Tutte queste, noi non le chiameremmo cause perché, a nostro avviso, divengono tali solo in un’ottica retrospettiva, nella quale, a ritroso dalla sintomatologia già in atto, si ricercano i possibili fattori che la spieghino. Vanno valutati tutti gli aspetti del sistema uomo-ambiente come “informazioni”, tutte caratterizzate da un peso diverso. Si può, quindi, fare prevenzione solo se si mette tra parentesi la malattia e la ricerca delle cause e si osserva, si supporta e si comprende l’uomo nella sua complessità dinamica, una sorta di prevenzione ontologica in cui il concetto stesso di prevenzione perde un legame diretto col patologico specifico e si espande ad influire su una vasta gamma di disturbi possibili. Alla specificità degli interventi si deve, perciò, affiancare una visione globale e non deterministica dell’uomo in movimento verso un futuro non definibile, ma sicuramente dipendente e, in certi casi, definito dalle informazioni ricevute nel qui ed ora. Lo stesso episodio psicotico costituisce un’informazione che può aggravare la situazione. Molti ragazzi possono incorrere in depressione o in un disturbo post-traumatico in seguito ad una crisi psicotica. Si è riscontrato che le possibili ricadute in seguito ad un primo episodio rappresentano un trauma che, se non affrontato, aggrava la prognosi in modo esponenziale.
Studi incoraggianti sull’esordio psicotico sono condotti da un gruppo di ricercatori australiani guidati da Patrick McGorry, da anni impegnato in un programma di prevenzione della psicosi. Il protocollo da loro sperimentato si è dimostrato efficace nel ridurre la probabilità di pervenire ad un esordio psicotico in ragazzi con sintomi sottosoglia (l’anticamera della psicosi). Parte centrale del protocollo è la psicoterapia (principalmente cognitivo-comportamentale), cruciale nel fornire strumenti ai ragazzi a rischio d’esordio per fronteggiare lo stress e, quindi, ridurne la vulnerabilità.
Dopo anni di scollamento tra psicoterapia ed interventi per la cura delle psicosi, si assiste ad un promettente connubio, il cui intento non è la cura, ma fornire capacità all’individuo per riprendere un percorso. All’empowerment inteso come capacità di lavorare, relazionarsi e vivere, si associa l’idoneità dell’individuo a riconoscere il proprio funzionamento e le proprie vulnerabilità prima che sfocino in disturbo. L’osservatore deve osservarsi riflessivamente divenendo osservazione. Un percorso di questo tipo presenta, tuttavia, alcuni punti critici: in primis, l’età media con cui ci si confronta è l’adolescenza. Ciò implica che, prima di bloccarsi, la persona stava attraversando alcune sfide evolutive che l’avrebbero portata alla creazione della propria identità. L’obiettivo principale diventa, pertanto, quello di accompagnare la persona verso una ripresa di tali sfide (ad esempio, rapporto ed identificazione col gruppo dei pari, separazione dalla famiglia, rapporti con l’altro sesso). Questo primo aspetto ci conduce al secondo punto, a nostro avviso, nella pratica quotidiana, il più grosso scoglio riscontrato: come si può supportare un percorso che comporti un’attivazione di servizi extra, di lavoro con coetanei, in alcuni casi di creazione di nuove reti sociali prima inesistenti?
Una risposta piccola, ma che può rivelarsi molto promettente, proviene da idee non nuove – il supporto tra pari e l’associazionismo giovanile – non applicate ai ragazzi in fase di esordio. Da alcune esperienze pilota da noi seguite, emerge che è possibile riavviare col lavoro tra coetanei una rete sociale che acquisti autonomia nel tempo e che, se si supporta la ripresa dei processi evolutivi e si accantonano le cornici diagnostiche per entrare in contatto con la persona, determina risultati straordinari sulla sintomatologia. I risultati del nostro lavoro, condotto presso un Centro di Salute Mentale di Trieste, fanno emergere un quadro molto complesso di interazioni e ci fanno riflettere sull’opportunità, anche economica, di promuovere una rete stabile di informazione e formazione tra coetanei affinché le situazioni di marginalità silenziosa a rischio non rimangano più tali ed i servizi intervengano in loco con strumenti preventivi di ripresa evolutiva (come servizi di supporto psicologico nelle scuole) più che di cura.

Clara Minisini
Psicologa, cultrice della materia al corso di Psichiatria Sociale – facoltà di Psicologia dell’università di Trieste
Luca Burigana
Dottore in Scienze e Tecniche Psicologiche indirizzo Psico-Biologico

Rispondi