Schizzi e pensieri di un diario africano

Entrare per la prima volta a Kibera, la più grande baraccopoli di Nairobi (Kenya) e la seconda più grande dell’Africa Sub-Sahariana, è un’esperienza che risulta impossibile trasporre in parole. Come l’ho definita tante volte dopo i miei tre mesi di lavoro lì, è un’esperienza sensoriale completa. Kibera è naso, occhi, udito, gusto, tatto, contatto. Troppi colori, odori, rumori… musica, polvere, grida di bambini, strette di mano, pesce fritto e flying toilets si mescolano disordinatamente, in un vortice di sensazioni, nella testa e nel cuore, trasformandosi in giganteschi punti interrogativi. Com’è possibile che un milione di persone viva in baracche così? Come fanno i bambini a girare scalzi nell’immondizia? Com’è possibile che esistano ancora luoghi così?
Il primo impatto con l’Africa genera una caotica sfilza di domande che trafiggono il cuore e la pancia come coltellate. E sono difficili da accettare la rassegnazione e l’amara consapevolezza che, nella migliore delle ipotesi, troveremo una risposta parziale solo a qualcuna di quelle domande. Perché le spiegazioni non ci sono, o forse non abbiamo le parole. O forse, più semplicemente, è troppo difficile capovolgere il mondo a cui siamo abituati, lasciarci alle spalle i nostri gesti, le nostre certezze, le nostre abitudini e farci avvolgere, disponibili, da una realtà che si può solo scoprire pian piano, senza pretendere spiegazioni, imparando a conoscerla, umilmente.
Io ho preferito ascoltarla, quest’Africa, con attenzione, nelle parole di chi la vive da sempre, di chi ci lotta quotidianamente perché vengano garantiti i diritti più basilari, di chi in questa terra rossa e arida si sporca le mani da sempre, fino a farsi male. E sono le loro voci che voglio farvi arrivare. Voci di speranza, di voglia di cambiamento, di determinazione e amore immenso per questa terra, contraddittoria, sicuramente, difficile, e, a volte, disperata. Ma pur sempre casa. Voci di sviluppo, perché lo sviluppo parte anche da lì, dal basso.
Kepha ha 26 anni ed è nato a Kibera. In una baraccopoli, la vita di un ragazzo non è certo facile. Ci sono la droga, la violenza, l’AIDS e la strada da cui è difficile tenersi lontano. Lui sa come per i giovani sia sempre più difficile sfuggire a tutto questo, se non ci sono alternative ed opportunità. Per questo ha fondato un’associazione, registrata col nome di Kibera Community Youth Programme (www.kcyp.kabissa.org). Oggi ci sono 106 volontari, che lottano per garantire un futuro ai giovani, educazione, lavoro, speranza. Hanno un gruppo di teatro che, girando per le scuole, educa i giovani alla pace, alla non violenza, a prevenire l’AIDS e ad allontanare la droga. Hanno una squadra di calcio che l’anno scorso ha vinto il campionato della baraccopoli: i giovani hanno bisogno anche di aggregazione e svago, di capire l’importanza del gruppo,e del gioco di squadra divertendosi. Anche correndo dietro ad un pallone fatto di fogli di giornale, vecchi stracci e nastro isolante. C’è poi una scuola di informatica e, non ultimo, il progetto che più mi ha sorpresa: un progetto per la produzione di energia rinnovabile che, con l’istallazione di pannelli solari sui tetti delle baracche/ufficio, permette di avere energia elettrica per sé e di venderne un poca anche agli altri abitanti della zona. I quali, non riuscendo a pagare bollette troppo salate per chi vive con meno di un euro al giorno, ricorrono agli allacci abusivi alla rete.
Poi ci sono Rachel e Josephine, le voci mature e vissute di due donne ormai sulla cinquantina, età non certo da poco per una donna di una baraccopoli. Nel cuore di Kibera, nel villaggio di Soweto, la prima ha fondato, nel 2000, la Saint Lazarus School, una scuola che accoglie 170 bambini orfani o abbandonati, garantendo loro un’educazione, un pasto al giorno e cure mediche basilari. La seconda, a Makina, altro villaggio di Kibera, accoglie oggi 530 bambini e ragazzi, il 90% dei quali orfani, figli di genitori malati di AIDS o vittime di abusi. Entrambe hanno contato per anni su consistenti donazioni da parte di due prestigiose ONG che, dallo scorso luglio, hanno tagliato i fondi a causa della crisi economica che sta colpendo la nostra fetta di mondo. Il cibo, allora, scarseggia, i gessetti sono sempre più consumati e i quaderni troppo pochi. Loro si stanno rimboccando le maniche per trovare una via per auto-sostenersi economicamente, perché il futuro di Kibera dovrebbe partire proprio da qui. E loro lo sanno.
Come mi ha detto Kepha, in una nostra chiacchierata, il rischio principale della cooperazione internazionale è che i soldi finiscano in progetti poco sostenibili e duraturi, destinati a fallire non appena vengano meno gli aiuti delle organizzazioni promotrici e finanziatrici. Questi sono progetti di sviluppo dal basso, senza troppa burocrazia intorno, solo impegno, passione e conoscenza. “Si può solo aiutare chi sta già facendo qualcosa per aiutare se stesso”, questo mi ha detto Kepha. Forse, bisognerebbe ripartire proprio da qui.

Federica Briamonte
dottore in Sviluppo e Cooperazione Internazionale, Research Master in Human Geography and Planning presso l’Università di Utrech

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