La speranza riposta nelle mani dei bambini

Papa Giovanni Paolo II affermava che “i bambini che hanno visto la guerra sono l’unica speranza di pace”: ciò può valere anche per la Bosnia-Erzegovina, perché proprio tra i bambini di questa società che non hanno vissuto il conflitto possono crescere i semi della convivenza e della riappacificazione.

I lunghi e gelidi inverni di inizio anni Novanta portavano nelle nostre case le immagini sconvolgenti della guerra in Bosnia Erzegovina: a pochi chilometri dall’Italia, si stava combattendo la più atroce guerra che l’Europa avesse conosciuto dal 1945. È davvero difficile dimenticare le immagini della Sarajevo assediata, delle case bombardate, dei profughi in fuga, del ponte di Mostar tirato giù a cannonate, dei campi di prigionia così simili ai campi di concentramento…

La Bosnia Erzegovina oggi è un paese che non funziona: una complessità istituzionale che blocca ogni riforma, nessuna attività economica di rilievo, una divisione su basi etniche ancora molto sentita. Un paese che, uscito distrutto da cinque anni di combattimenti, non è riuscito ad avviare il circolo virtuoso della ricostruzione, della rinascita e della voglia di pensare ad un futuro migliore. Tutto è rimasto fermo a livelli preoccupanti: un esempio significativo riguarda le stime più recenti sul tasso di disoccupazione, calcolato attorno al 40%. Tutto questo in un paese che ha l’età media della popolazione tra le più giovani d’Europa (36,2 anni).
Tra le fasce più a rischio c’è senza dubbio quella dei bambini: sia i bambini di oggi, sia quelli che erano bambini all’epoca della guerra e che adesso, 15 anni dopo, attraversano una gioventù travagliata.

Partiamo da questi ultimi. Una recente ricerca sviluppata nel 2008 da Caritas Bosnia ed Erzegovina su un campione di oltre 1.000 giovani tra i 17 e i 31 anni ha dimostrato che il 56% dei ragazzi ed il 62% delle ragazze non ha mai lavorato in vita propria; e chi lavora ha un salario medio di 250 € al mese.
“Molti giovani in BIH hanno difficoltà a trovare lavoro. Questo fenomeno è qualcosa di molto radicato, perché noi oggi stiamo vivendo una fase di transizione politico-economica, e non si è ancora trovato il modo per affrontare il problema dell’occupazione giovanile – mi raccontava don Simo Marsic, responsabile della pastorale giovanile della diocesi di Sarajevo – C’è una debole offerta di lavoro, il sistema degli investimenti pubblici e privati è insufficiente. Io mi occupo anche della formazione per i fidanzati. Spesso mi capita di sentire i miei giovani scoraggiati perché non trovano lavoro e non possono pensare ad un futuro con la persona a cui vogliono bene, perché dipendono ancora dalla loro famiglia di origine, che spesso rappresenta per loro l’unica certezza economica”.

Anche il bisogno aggregativo è diventato una delle emergenze maggiori nella società bosniaca: gli stimoli ad una sana crescita dal punto di vista della socializzazione si scontrano, infatti, con le scarse occasioni di incontro e con strutture ricreative inesistenti. “Vado solo a bere il caffè con le amiche. Qui non abbiamo nemmeno il cinema. Non abbiamo luoghi dove possiamo esprimerci. A volte vado all’unico Centro culturale della città, quando organizzano degli eventi” ci raccontava qualche mese fa Martina, 19 anni, una volontaria di Caritas Mostar.
I più giovani continuano a soffrire in modo sproporzionato lo stress sociale del dopoguerra: 130.000 rifugiati sono minori, e sono minori anche 108.000 sfollati interni e 268 vittime delle mine antiuomo registrati dal 1996 al 2004 (fonti UNICEF).

Un tale disagio sociale si traduce spesso in ulteriori problemi per la società bosniaca: la mancanza di lavoro espone i giovanissimi ad elevati rischi di alcolismo e tabagismo (il 21% di loro beve molto, il 45% fuma), tossicodipendenza (il 17% usa droghe leggere) ed altre forme di emarginazione. Chi può, emigra alla ricerca di lavoro all’estero, soprattutto in Europa occidentale ed in Nord America: recenti sondaggi affermano che il 66% dei giovani della Bosnia Erzegovina vuole andarsene all’estero.
Riguardo coloro che sono bambini oggi, anch’essi rientrano tra le categorie più a rischio di povertà; soprattutto la fascia di quelli al di sotto dei 5 anni è particolarmente a rischio. Le minacce che li colpiscono assumono forme diverse: bassissimo accesso all’educazione pre-scolare (meno del 9% dei bambini), scarse possibilità di accesso all’istruzione secondaria, bassissima copertura sanitaria, soprattutto nelle aree rurali. Molti bambini hanno perso uno o entrambi i genitori a causa della guerra e vivono in un ambiente familiare che non sostiene adeguatamente la loro crescita e uno sviluppo positivo.

Le divisioni su base etnica del paese si ripercuotono anche sui più giovani, dal momento che ogni nazionalità presente nel paese (bosgnacchi, serbi e croati) si è organizzata le proprie strutture scolastiche ed un proprio programma formativo. In questo modo è stato impedito ai bambini di mescolarsi e conoscersi fin dai primi anni della loro vita e si è favorita una crescita in cui essere separati e divisi secondo principi etnici è una cosa normale. In Bosnia Erzegovina non sono rari i casi di “due scuole sotto lo stesso tetto”: un unico edificio al cui interno studiano i ragazzi di un gruppo etnico al piano terra, e i ragazzi di un altro gruppo etnico al piano superiore, su programmi diversi. E, immagine che più di ogni altra colpisce, il momento dell’intervallo i ragazzi del piano terra lo trascorrono da una parte del cortile, i ragazzi del piano superiore dall’altra parte.

Un discorso a parte lo meritano i bambini e i ragazzi affetti da disabilità. La struttura debole e non funzionante dell’apparato statale della Bosnia Erzegovina ha infatti portato in questi anni ad una totale esclusione dei minori con bisogni speciali.
Da un lato, non si è potuto/voluto investire sul loro inserimento scolastico e lavorativo: non è prevista la figura dell’insegnante di sostegno nelle scuole, non vi sono leggi che favoriscano l’assunzione di persone con disabilità fisica o mentale nei luoghi di lavoro.
Tutto questo, insomma, fa emergere gli estremi di un’emergenza sociale in atto. Il giovane in Bosnia Erzegovina è culturalmente l’anello più debole della catena sociale, in quanto soggetto a scarsa educazione, scarso tempo dedicato in famiglia, bassa attenzione sanitaria e, talvolta, pure sottoposto a lavoro minorile (ad esempio in agricoltura) per sostenere l’economia familiare.

Tornano allora in mente le parole di Papa Giovanni Paolo II, quando affermava che “i bambini che hanno visto la guerra sono l’unica speranza di pace”: ciò può valere anche per la Bosnia Erzegovina, perché proprio tra i bambini di questa società che non hanno vissuto il conflitto possono crescere i semi della convivenza e della riappacificazione.
Ma bisogna lasciar crescere tutto ciò in maniera sana: se non si lavora tutti per cambiare una realtà difficile, non sarà possibile consegnare alle nuove generazioni gli strumenti per costruire un nuovo paese, una nuova Bosnia Erzegovina. E trasformare in realtà la speranza riposta nelle mani dei bambini.

Daniele Bombardi
Coordinatore Caritas Italiana in Bosnia e Erzegovina e in Serbia

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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