In loro difesa

Negli anni ’90 la Sierra Leone è stata teatro di colpi di stato e di una guerra civile, nella quale sono stati utilizzati migliaia di bambini soldatI. Non ci sono cifre ufficiali né stime precise sui ragazzi soldato impiegati durante gli anni della guerra. Molti sono stati costretti a prendere in mano le armi, altri hanno chiesto di essere arruolati ritenendo l’esercito un posto dove poter trovare cibo ed essere più al sicuro rispetto ai propri villaggi.

I ragazzi soldato non sono più un problema in Sierra Leone, ma dobbiamo essere consapevoli delle pesanti conseguenze che essi devono pagare.
Penso quasi con nostalgia a quei tempi, dieci anni fa, difficili e pericolosi, ma carichi di grande umanità. Quando le preoccupazioni ed attenzioni del giorno si prolungavano nella notte ed il tonfo delle onde dell’oceano mi faceva sussultare, temendo si trattasse del rombo delle armi da fuoco di un imminente attacco dei ribelli. Così passavo la notte in veranda, dove, fortunatamente, la brezza dell’oceano mi proteggeva dalle zanzare. “Vigliacco!”, mi dicevo.

Poi venni a sapere che anche i militari stanziati sul posto facevano altrettanto. “Lasciate il posto – gracchiava la radio – i ribelli pullulano sulle colline e potrebbero scendere da un momento all’altro”. Un bel dire. Dove potevamo andare con tanti ragazzi! Qualora si fosse arrivati al peggio, avevamo ancorato un barcone sulla spiaggia per i più piccoli. I più grandi avrebbero dovuto cavarsela da soli: ex-combattenti, erano degli esperti in materia. Li radunai. Erano una folla e dovevano sapere. La situazione era critica ed erano liberi di andarsene, se così volevano affrontare l’emergenza. Ma chi rimaneva doveva restare tra le mura, a portata di mano, per qualsiasi evenienza.

Nessuno si allontanò. “Dove potremmo mai andare?”, uno di loro chiedeva per tutti. “A cascare in mano ai ribelli per essere riarmati e tornare in foresta? O, peggio ancora, in mano ai civili per essere lapidati sul posto?” Queste loro obiezioni non erano fantasie. Tutto era già capitato sotto i loro occhi. Solamente qualche settimana prima dovemmo affrontare per quattro giorni gli attacchi di una ciurmaglia venuta da lontano. Solo che non avevano fatto i conti con la capacità di questi ragazzi di difendersi, armarsi con “molotov”, coltelli e bastoni inchiodati, improvvisare fionde, destri ad usarle con la precisione di Davide. Ma, soprattutto, in preda a quella droga che portavano in corpo.

La droga di menar le mani ed il coraggio sadico di sopportare la sofferenza fisica. Nel bel mezzo di una sassaiola, nella quale cercavo di calmare gli animi, mi trascinarono al sicuro, gridandomi dei buoni consigli, tutti a loro beneficio: “Sta fuori. Fra poco tutto finirà. Se ti prendi una sassata, da chi andiamo poi noi?” Avevano un bel dire, i miei piccoli manigoldi. Ne avranno combinate tante, ma la testa l’avevano ancora attaccata al collo. Il loro problema era che erano cresciuti troppo in fretta ed i loro giocattoli erano i fucili, le pistole, le bombe a mano. Data la mistura dei dialetti, tra loro parlavano Krio e questo mi avvantaggiava nel capirli. Mi capitò di seguire una loro conversazione sui diversi tipi di armi. Io ne ricordo un tipo solo, la Beretta. “Quel fucile…no, a me non va, è troppo pesante e portartelo dietro è una gran fatica.

L’altro…si riscalda troppo in fretta. Io preferisco la Beretta. Mi sta bene in mano, proprio l’arma per noi”
“Già, abbiamo fatto una bella cosa” dicevo io, “l’arma ideale per il ragazzo soldato”.
Ci sono alcuni di loro che mi tornano spesso in mente.

“Il boia (killer)” era uno di questi. Ne doveva aver combinate di cotte e di crude per meritarsi quel nome, ma specialmente per portare sempre con sé un teschio, trofeo delle sue conquiste. La coscienza lo tormentava. Ma non con il tormento di una colpa da riparare, bensì con la paura superstiziosa di essere colpito da qualche forza diabolica. Di notte non dormiva e di giorno era sempre ansioso e tribolato ad evitare che qualche male lo raggiungesse. Era un’anima veramente in pena. Uno dei ragazzi che lo conosceva mi diceva che nella foresta si era sottomesso ad un rito di sangue. Per questo non riusciva a liberarsi da quest’incubo “che gli capitasse qualcosa”.

Da chi e da dove, non lo sapeva dire. Forse, superstiziosamente, dagli spiriti di tanta gente che aveva tormentato e ucciso. Prima di andare a letto veniva a chiedermi la benedizione e lo stesso faceva al mattino quando si alzava, perché temeva non solo il buio della notte, ma anche quello che gli sarebbe potuto capitare di giorno. Pregavamo e lo benedicevo, l’unica terapia che potevo applicargli. Ed in parte funzionò. Cominciò a cercarmi sempre più di rado e lo vedevo rasserenarsi di giorno in giorno. Si sposò con la ragazza che l’aveva seguito nel peregrinare in foresta, ma la convivenza non durò. Purtroppo non ce la faceva a liberarsi dalla droga che lo rendeva violento ed incontrollabile.

Lei, Fatu, venne da me un giorno con la faccia tumefatta. La sconsigliai di continuare una convivenza che poteva anche diventarle fatale. Fatu era costantemente in pericolo, ma la sofferenza maggiore la portava lui, il suo ragazzo, marcato irrimediabilmente.
Quando vivevo con loro, troppe volte avevo dovuto intervenire fisicamente per contenere la loro violenza che, per un quarto d’ora, li faceva impazzire. Volevo evitare compissero azioni le cui conseguenze li avrebbero marcati per tutta la vita come dei criminali.

Eppure questi ragazzi non erano cattivi e non volevano ritornare a fare i ribelli. Feci molta fatica a convincere sei di loro a ritornare tra i ribelli, quando mi trovavo in pericolo di essere catturato ed incapace, quindi, di proteggerli. “Se mi portano via, ritornate tra loro, ma non fate del male. Se non lo fate vi uccideranno come disertori e se i civili vi prendono, vi bruceranno vivi”.

“Ma tu, se poi ritorniamo, tu ci riprenderai?” Tutto si avverò: fui portato via e vennero a trovarmi riarmati. Riuscii ad uscirne e me li ripresi.
Tamba mi diceva: “Due volte entrai a Freetown con loro. Nel ‘97 e nel ‘99. Cercavo affannosamente la mia famiglia per poter scappare ed essere protetto dai miei. Purtroppo dovetti ritornare a fare il ribelle. Senza i miei a proteggermi, di chi potevo fidarmi?” Era proprio così.
Ricordavo Saidu, 14 anni, costretto a fare il portatore. Ce la fece a fuggire. Ma, quasi alla porta di casa sua, fu intercettato dai suoi compagni. Lo riconobbero ed uccisero a sassate.

Blackie. La storia di Blackie è di una sensibilità che non ci si aspetterebbe da un ragazzo di tredici anni, già sperimentato in scontri dove la morte violenta era una vicina compagna. A scuola, ormai troppo in ritardo, lo chiamavano “il nonno”. Ma lui voleva imparare. Per incoraggiarlo gli chiesi: “Ma tu non sai qualche cosa che loro non sanno? Da piccolo non hai frequentato la scuola coranica? Non scrivevi in arabo i versetti coranici? Scrivi un versetto alla lavagna e fallo leggere ai tuoi compagni”. La sua faccia si illuminò. Fu promosso capo-classe. Avevo trovato una famiglia di suoi conoscenti, pronta ad adottarlo. Una bella occasione. Poteva ricostruire la sua appartenenza, la sua identità. Si rifiutò di andare a vivere con loro.

Per settimane questo rifiuto rimase un mistero. Un giorno mi confidò: “Te lo dico perché, ma è un segreto. Mi hanno chiesto se sapevo niente del loro figlio, mio compagno di giochi, della stessa mia età. Si, risposi, ha seguito la ritirata dei ribelli verso il nord. Non era vero, ma io non volevo che soffrissero, volevo che vivessero almeno sperando. In uno scontro a fuoco mi misi al riparo dietro l’angolo di una casa e vidi tutto. John si era gettato in un fossato per salvarsi. Un militare lo vide, lo strappò fuori, lo freddò sul posto e gettò il corpo nel fossato. Avevo detto loro una bugia. Non ce l’avrei fatta a convivere con loro”.

Quando venne il suo tempo di cambiare campo per avvicinarsi di più al suo luogo natale e rendere possibile che qualcuno lo riconoscesse e lo portasse dai suoi, scoppiò in lacrime. “Non conosco nessuno laggiù. E poi, chi mi vuole? Voglio rimanere”. Lo incoraggiai dicendo: “Fatti vedere. Sapranno almeno che sei vivo. Poi torna”. Il “poi torna” gli fece sorgere un sorriso. Il “poi torna” lo aveva rasserenato. Non lo vidi più. Spero che l’affettività verso la sua famiglia gli sia rinata in cuore o che almeno si sia fermato, che non sia diventato uno tra i tanti raminghi del dopo guerra.

E pensare che le alte autorità del paese volevano che anche questi ragazzi fossero giudicati dal tribunale dei crimini di guerra. La reazione di chi era coinvolto nel farli ritornare ad una vita normale, tutti quei poveri diavoli che avevano passato giorni e notti con loro, non fu tarda a farsi sentire e ci fu un incontro con i magistrati “venuti da lontano”. Un magistrato mi chiese che cosa pensavo. Vidi gli orecchi tesi attorno a me. “Stavamo aspettando che cosa avresti detto” mi disse appena fuori uno dei presenti. Fremevo e quasi persi il controllo di me stesso. “Questa guerra è vostra. Siete stati voi adulti a creare queste vittime, le vostre vittime che ora volete condannare”. “Ma lei pensa che un ragazzo non possa essere colpevole?” mi rimbeccò risentito il magistrato.

“Lo può essere, ma per lui c’è il tribunale dei minori, non quello dei criminali di guerra”.
“Ne parlerò al Presidente” disse per chiudere.
“Ci ha fatto lei le domande. Ci dia una risposta. Come si dice dalle sue parti: ‘Don’t pass the buck!’” Quanta diplomazia!
Volle finire lui e lo lasciai dire: “È vero”, disse, “Siamo dei diplomatici!”
Qualche ragazzo fu portato in corte, ma solo per testimoniare.

Ancora oggi, all’imbrunire, quando i lineamenti di una faccia ben “abbronzata” sono meno distinguibili ed a localizzarla aiutano più gli occhi ed i denti bianchi che altro, passando per la città, mi sento chiamare con il tipico Krio di Freetown: “Fada, Fada! A dae” (padre, padre! sono ancora attorno). Cerco di agganciare il mio ex, sperando di individuarlo, ma…erano tanti…e sono cresciuti. Appena fuori tiro chiedo a chi mi accompagna: “Lo riconosci?” Qualche volta sì. Allora mi scopro a guardare indietro, preso dalla voglia di ritornare.
Il resto del percorso è un rimuginare di ricordi.

Contesto:
Negli anni ’90 la Sierra Leone è stata teatro di diversi colpi di stato e di una guerra civile, nella quale sono stati utilizzati migliaia di bambini come soldati sia dal Fronte Rivoluzionario Unito (i cosiddetti ribelli), sia dall’esercito regolare. Non ci sono cifre ufficiali né stime precise sui ragazzi soldato impiegati durante gli anni della guerra. Molti sono stati costretti a prendere in mano le armi, altri hanno chiesto di essere arruolati ritenendo l’esercito un posto dove poter trovare cibo ed essere più al sicuro rispetto ai propri villaggi. Gli effetti su tutti i bambini sono stati devastanti sia sul piano fisico, sia su quello psicologico. Padre Giuseppe Berton, missionario saveriano a Freetown, capitale della Sierra Leone, durante gli anni della guerra è riuscito a salvare diversi ragazzi. Oggi il suo impegno è rivolto ad offrire un futuro dignitoso ai tanti bambini e ragazzi che vivono per strada a Freetown.

Padre Giuseppe Berton
Missionario saveriano a Freetown (Sierra Leone)

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

Rispondi