Diritto di cura

O si propongono modifiche legislative che in qualche modo tengano conto di un mutato sentire, o ci si muove sul piano pragmatico, individuando tecniche e modalità dell’agire indirizzate alla diminuzione o all’eliminazione del dolore.

La legge penale vigente prevede l’omicidio del consenziente come ipotesi autonoma di reato, ferma restando la configurabilità dell’omicidio volontario anche nei casi di morte pietosa, causata per impedire ulteriori sofferenze ai malati terminali irreversibili. Negli anni ’30 il legislatore non poteva che muoversi in base al comune sentire del periodo, sulla scorta di principi che negavano in modo assoluto il controllo della morte e la disponibilità del corpo e della vita. Se la morte pietosa costituisce omicidio, quella provocata su richiesta o con assenso dell’interessato configura un’ipotesi di reato più lieve e punita con minore severità (omicidio del consenziente: art. 579 del codice penale). Ma si ritorna allo schema base dell’omicidio volontario (art. 575 del codice penale) quando il consenziente, per età, infermità, deficienza psichica, inganno, violenza, minaccia o suggestione, non sia in grado di esprimere una volontà cosciente ed immune da vizi. La giurisprudenza si è data carico di precisare le modalità del consenso, che deve essere valido e senza riserve di alcun tipo, anche se non sono richieste formalità particolari. Risulta indifferente che l’iniziativa sia stata assunta dal soggetto attivo o da quello passivo e che la richiesta sia stata formulata in maniera più o meno pressante o ultimativa. Il consenso può essere anche implicito, ma in questo caso va desunto in modo equivoco. In diritto, quando si vuole assumere un comportamento quale espressione di volontà in mancanza di una dichiarazione esplicita, si pretende la sua univocità e la sua indiscutibile incompatibilità con una volontà diversa o contraria.

Va da sé che il consenso deve permanere sino al momento in cui il soggetto attivo commette il fatto. Nel contesto di infermità e sofferenza in cui matura il dramma dell’eutanasia, la prova di una volontà cosciente deve emergere in maniera rigorosa: ci si preoccupa che le condizioni generali dell’infermo non abbiano distorto la volontà e ridotto la coscienza in uno stato crepuscolare. Si è a lungo discusso, in dottrina e giurisprudenza, se sia applicabile all’omicidio del consenziente per eutanasia – che costituisce già una fattispecie attenuata rispetto all’omicidio volontario proprio in considerazione delle sue particolarità – l’attenuante di particolare valore morale e sociale di cui all’art. 62 n.1 del codice penale. Si è concluso nel senso di escluderle, ma – sorprendentemente – non per motivazioni strettamente giuridiche, bensì proprio per la persistenza di concezioni tuttora contrastanti sotto il profilo etico. Le stesse valutazioni dovrebbero condurre ad escluderle anche nel caso di eutanasia in assenza di coscienza del soggetto passivo, con conseguenze ben più rilevanti sul piano delle sanzioni. Il quadro generale é quindi il seguente: morte pietosa equiparata all’omicidio volontario, omicidio del consenziente assunto ad autonoma fattispecie di reato con trattamento sanzionatorio più blando, ma senza alcuna attenuante che consideri la particolarità del contesto e le motivazioni che connotano l’agire. A distanza di decenni dalla codificazione, tutto questo può sembrare brutale, non potendosi a mio parere negare al soggetto attivo un’adeguata considerazione della compassione che lo ha determinato, tanto più nei casi in cui ad agire sia uno stretto congiunto, spettatore costante ed impotente della sofferenza di un proprio caro.

Senza la stretta necessità di una modifica legislativa, sarà sufficiente quanto meno l’affermarsi di un indirizzo interpretativo che faccia ritenere di particolare valore morale l’uccisione pietosa, caratterizzata da una condotta ispirata dal solo scopo dell’eliminazione di un dolore irreversibile. Tenuto conto dello scenario normativo attuale, di cui si è data una sintetica descrizione, le soluzioni che si possono suggerire sono due: modifiche legislative che in qualche modo tengano conto di un mutato sentire, quanto meno in una parte qualificata della pubblica opinione; individuazione di tecniche e modalità dell’agire indirizzate alla diminuzione o all’eliminazione del dolore. Sotto il primo profilo ricordo che il parlamento olandese ha approvato, nel 1999, una legge che ha legalizzato l’eutanasia praticata da un medico a fronte di una scelta meditata del soggetto passivo e dell’insopportabilità delle sue sofferenze, nella completa assenza di alternative terapeutiche valide, come comprovato da un secondo medico appositamente consultato. In Svizzera si ammette l’eutanasia sotto forma di una sorta di suicidio controllato: il medico prepara la pozione letale, ma è il suicida a procedere. Sul piano astratto, si è proposta un legalizzazione nel solo caso di eutanasia medica su richiesta di persona che, nel momento, sia in pieno possesso delle facoltà mentali ed il suo stato terminale sia accompagnato da sofferenza estrema sul piano fisico e mentale. Va da sé che – per quanto riguarda la responsabilità civile – nessuna conseguenza patrimoniale potrà derivare al medico che abbia agito nell’osservanza dei parametri normativi così delineati.

Una riforma di questo genere appare estremamente prudente (eutanasia su richiesta medicalmente assistita, in contesto tormentoso ed in condizioni di irreversibilità), ma segnerebbe una svolta significativa sul piano etico, legittimando nella sostanza il suicidio assistito ed introducendo il principio di disponibilità del bene – vita. Ove ciò non si condivida, ed in attesa di una rimeditazione normativa, ritengo che – se si continua a negare alla società ed alla famiglia il diritto di aiutare il disagiato ad uccidersi ed è comunque ferma la criminalizzazione di chi assuma l’autonoma iniziativa, sostituendosi al malato non cosciente – l’attenzione vada doverosamente rivolta ad offrire al disagiato i mezzi per lenire od eliminare il dolore. Quello stesso alto concetto di dignità umana che induce a negare la possibilità di disporre della propria vita deve infatti condurre all’eliminazione di un grado di sofferenza che maggiormente la mortifica.

Si potranno così rendere obbligatori i trattamenti palliativi, quale corollario di una concezione che faccia del dolore una malattia, se non guaribile, doverosamente curabile. Ciò appare in linea con un principio fondamentale della nostra Carta Costituzionale, che tutela con enfasi il diritto alla salute, assunto come fondamentale sia nell’interesse individuale, sia collettivo (art. 32, comma 1 della Costituzione). Propongo perciò una lettura ampia del secondo comma dell’art. 32 della Costituzione, che impedisce alla legge di violare i limiti imposti dal rispetto per la persona umana, anche in chiave omissiva: l’interpretazione costituzionalmente compatibile della legge ordinaria potrà fin d’ora essere orientata alla verifica del doveroso rispetto della dignità dell’uomo e ciò risulterà violato se non si ritenga giuridicamente imposto l’obbligo di lenire il dolore. In definitiva, il riferimento ai parametri costituzionali può portare a ritenere doveroso per il medico praticare la terapia antidolorifica in tutte le situazioni che potrebbero altrimenti ricondursi all’eutanasia.

Arrigo De Pauli
Magistrato, presidente del Tribunale di Trieste

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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