A chi spetta decidere

Il problema che occorre porsi è se il testamento biologico scritto da un individuo sano possa considerarsi ancora una prescrizione vincolante quando l’individuo non è più in condizione di manifestare un consenso alla cessazione dell’assistenza sanitaria.

Quando si parla della fine della vita, il primo interrogativo che mi sono sempre posto consiste nell’individuare chi possa decidere della vita o della morte di un essere umano. Voglio subito chiarire che il dubbio non consiste nel domandarsi se un Tribunale possa infliggere la pena capitale. Gli argomenti sostenuti nel passato per affermare la legittimità dell’istituto anche da insigni giuristi – Vittorio Emanuele Orlando sosteneva che lo Stato potesse liberamente disporre di ogni diritto e pure della vita stessa dei sudditi – mi sono sempre apparsi inconsistenti. Pure gli argomenti proposti nei Paesi che ancora oggi ammettono la pena di morte, Stati Uniti, Cina e numerosi altri, mi sembrano privi di adeguato fondamento. Pare allora fondata l’opinione che a nessun Tribunale possa riconoscersi la competenza a decidere della vita di un uomo, a qualsiasi sesso, razza o nazionalità, appartenga.

Il problema si pone allora, in primo luogo, quando sia l’individuo stesso a volere la fine della propria vita. Darsi la morte non è un diritto, bensì un mero potere di fatto. Molti sistemi penali moderni, si osservi, continuano a considerare il suicidio un reato. Tuttavia, se l’uomo riesce a togliersi la vita, evidentemente, non c’è più nessuno da punire, perché la responsabilità penale è personale. Casomai, si può punire chi abbia aiutato il suicida a portare a termine il suo gesto o lo abbia istigato a compierlo (cfr. art. 580 C.p.). Vale ancora la pena ricordare che se il suicidio non riesce, chi lo abbia tentato, ma non sia riuscito a portare a termine il proprio proposito non è assoggettato a pena. In definitiva, mi sembra che in un individuo cosciente la scelta di porre termine alla propria vita sia rimessa soltanto a lui e non possa comportare sanzione umana purché agisca da solo.

In proposito, ha trovato ampia eco, anche sulla stampa, il caso di Giovanni Nuvoli che, affetto dalla terribile SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), poteva sopravvivere solo grazie ad una macchina che gli consentiva di respirare. Per lungo tempo ha scelto lui le terapie cui accettava di sottoporsi, rifiutandone altre. Alla fine, ha rifiutato pure di essere alimentato ed in tal modo si è lentamente dato la morte per fame. In questo caso, si pongono problemi non solo morali, ma anche giuridici, perché i medici che lo avevano in cura ben sapevano che non somministrando alimenti sarebbe sopraggiunta la morte. Tuttavia, ove la legge non preveda la possibilità di un trattamento sanitario obbligatorio, non credo possa richiedersi ai sanitari di fornirlo. La scelta rimane dell’individuo.

Viene poi in considerazione l’ipotesi di un malato terminale, pur cosciente, ma destinato a morire a seguito di indicibili sofferenze. Mi è stato raccontato da un medico pio e di sicura moralità il caso di un paziente che, per effetto di una crisi di rigetto seguita ad una trasfusione di midollo, aveva ormai espulso tutti i visceri, ed anche i muscoli cominciavano a distaccarsi dalle ossa. In questi casi, quello che mi domando è se non sia un dovere della Sanità pubblica, ma pure di ogni persona dotata di umana sensibilità, promuovere la ricerca e l’applicazione delle migliori pratiche in materia di terapia del dolore – in questo settore diversi Paesi sono più avanti del nostro – in modo da accompagnare la persona alla ormai prossima ed inevitabile fine della vita risparmiandole sofferenze. L’uso di stupefacenti, somministrati in ambito ospedaliero, non credo dovrebbe essere ancora demonizzato.

Il problema più complesso, comunque, si pone quando ci troviamo in presenza di una persona non cosciente. In questa ipotesi, non può essere lei a decidere nell’attualità della propria sorte e gli interessi in gioco possono essere numerosi. Lo scorso anno ho perso mio padre dopo una settimana di rianimazione in cui era in stato di incoscienza e veniva mantenuto in vita solo con l’ausilio delle macchine. Nessuno di noi familiari ha preso neppure in considerazione l’idea di accelerarne la fine. Abbiamo continuato a coltivare la speranza che potesse riprendersi, sebbene fosse affetto dal morbo di Parkinson e dalla leucemia. La nostra scelta era confortata dalla constatazione che lui aveva accettato con grande dignità le tante sofferenze e limitazioni di autonomia che le sue patologie gli imponevano.

Ma i casi possono essere diversi ed il problema si pone soprattutto nell’ipotesi di malati in stato vegetativo permanente. Si tratta di pazienti, più o meno insensibili agli stimoli esterni, che sono costretti in un letto, incapaci di propria determinazione. Sopravvivono anche per diversi lustri solo grazie all’assistenza sanitaria, spesso con il necessario supporto delle macchine. In questo caso, sembra corretto tener conto anche delle difficoltà dei familiari, che si vedono costretti a sacrificare le proprie esistenze per dedicarsi all’assistenza dell’infermo a tempo pieno. Non penso competa a nessuno biasimare le scelte di questi familiari, anche perché è davvero molto facile ergersi a tutori della retta coscienza e difensori della migliore morale, pretendendo però che i sacrifici necessari per attuare con coerenza questi principi siano sopportati da altri. In simili casi, mi sembra non si debba trascurare un dato di fatto. La Sanità pubblica è tenuta ad assicurare assistenza pure a questi malati, anche se questo comporta degli oneri per la collettività ed i familiari possono evitare di dover prestare assistenza continuativa al congiunto semplicemente consentendo l’ospedalizzazione dell’infermo. Mi domando allora se occorra assicurare tutela alle determinazioni di una famiglia che non è in grado di assistere il congiunto in stato vegetativo permanente presso il proprio domicilio o comunque non intenda farlo, ma neppure accetta di saperlo “rinchiuso” in un ospedale. In questi casi, dubito che la scelta tra la morte e la vita, sebbene alquanto malridotta, possa essere affidata ai familiari dell’infermo, oppure ad un comitato etico, come pure si sostiene da alcuni, specie nella letteratura nordamericana. Mi pare che il principio secondo cui a nessun uomo può essere riconosciuto il diritto di decidere della vita di un altro debba essere comunque salvaguardato.

Resta però fermo il fatto che un individuo cosciente ed in buone condizioni psicofisiche, anche se non gliene riconosciamo il diritto, di fatto può comunque sottrarsi ad una vita che non riesce più a sopportare. Il soggetto incosciente non è più in grado di esercitare questa facoltà. La maggioranza dei giuristi che accettano di porsi il problema sembra ora optare per la tesi secondo cui pure l’individuo incosciente deve essere considerato unico arbitro del proprio destino. In questa condizione non è però possibile, evidentemente, domandargli se preferisce rimanere in stato vegetativo permanente oppure veder cessare la propria esistenza. È per questo che taluni ritengono possa risolversi il problema andando ad analizzare come la pensava in materia l’infermo quando era ancora in piena coscienza. In simili circostanze, però, occorre di regola rifarsi alle confidenze che il futuro infermo aveva fatto alle persone a lui vicine, di solito i familiari, ma si tratta proprio delle persone che possono avere un interesse ad una evoluzione della vicenda piuttosto che ad un’altra. Maggiore affidabilità si attribuisce allora al c.d. testamento biologico. Si tratterebbe, in sostanza, di un documento scritto dal futuro infermo che manifesta la propria volontà per il caso in cui venga a trovarsi, ad esempio, in stato vegetativo permanente. La persona ancora sana potrebbe allora dichiarare che al verificarsi dell’evento vorrebbe essere lasciata morire, oppure vorrebbe essere assistita senza limiti di tempo, o semmai soltanto per un certo numero di mesi o di anni, salvo essere poi lasciata andare verso la fine.

Il problema che occorre porsi, però, è se una simile scelta, operata da un individuo sano che può cambiare idea, possa considerarsi ancora una prescrizione vincolante quando l’individuo non è più in condizione di manifestare un consenso attuale alla cessazione dell’assistenza sanitaria. Per fare un esempio, se io stipulo una promessa di matrimonio e poi, prima della celebrazione delle nozze, cambio idea, subisco delle conseguenze, ma non posso essere costretto a sposarmi. L’ordinamento giuridico mi riconosce il diritto di mutare proposito ed alla volontà successiva è riconosciuta prevalenza su quella precedentemente espressa.

Qualora poi si ritenga comunque di poter riconoscere valore irrevocabile alle dichiarazioni rese da chi sia poi divenuto permanentemente incosciente in un testamento biologico, insorge il problema di definire attraverso quale percorso l’individuo debba essere condotto per realizzare il proposito che aveva un tempo manifestato. La cosa più semplice, naturalmente, consiste nell’interrompere l’alimentazione dell’infermo. Ma la morte per fame è una fine terribile, che può forse consentirsi ad un individuo ancora in grado di determinare coscientemente il proprio destino, come nel ricordato caso di Giovanni Nuvoli, ma suscita maggiori perplessità quando si ricorra alla sospensione dell’alimentazione di un individuo incosciente. La persona in stato vegetativo permanente non ha una vita di relazione, non possiede neppure un minimo di autonomia, l’unica cosa che certamente gli resta è il suo corpo, per quanto malridotto. È corretto consentire che rimanga privato di questo corpo attraverso la sua devastazione, specie quando non sia possibile accertare che fosse adeguatamente informato sulle conseguenze della scelta che aveva manifestato quando era ancora sano?

Problemi enormi, ai quali probabilmente non riusciremo ad assicurare una soluzione convincente almeno fin quando la scienza non saprà dirci qual è in realtà la vita di un essere umano in stato vegetativo permanente. Una persona ridotta in simili condizioni è in grado di pensare, può vivere di ricordi, può conservare una vita affettiva, può pregare? Tutto questo non lo sappiamo ancora.

Paolo Di Marzio
Magistrato Tribunale di Napoli

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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