Le sfide dell’Ateneo triestino

Il sostegno pubblico al sistema universitario nel nostro Paese è ormai da anni al di sotto della media dei modelli avanzati e più competitivi in Europa. Per altro verso, si deve avere il coraggio di ammettere che alcune patologie del nostro sistema universitario derivano anche da un improprio impiego, da parte delle comunità accademiche

Sono tempi, questi, in cui si parla molto – e non sempre con proprietà d’analisi e di proposta – di riforma dell’università. Non v’è dubbio che si tratta di questione cruciale, in agenda nel nostro Paese da decenni. Chi si avventuri nell’apparato normativo che regola l’università in Italia non fatica a rendersi conto dell’inadeguatezza dello stesso: si tratta di un corpus di fonti normative frammentario e disomogeneo, oltre che, non di rado, datato a tempi anteriori persino all’avvento della Costituzione repubblicana. Per parte sua, questa connotazione disorganica è figlia di precisi fattori storici: per un verso, una certa radicata riluttanza del nostro establishment politico a intendere l’università – e con essa l’intera filiera della formazione – come strumento strategico di sviluppo sociale ed economico, bisognoso, come tale, di essere organizzato e sostenuto con adeguati interventi normativi e finanziari; per l’altro, il ciclico affiorare di pulsioni conservatrici endogene al mondo accademico, non di rado espresse da componenti parlamentari vicine, per provenienza, a quel mondo.

La storia del nostro Paese non è priva, al riguardo, persino di un’anedottica istituzionale ad hoc: così, è noto che a chi gli domandava come mai avesse richiamato dal fronte della seconda guerra d’indipendenza Gabrio Casati – per nominarlo ministro della Pubblica Istruzione, con l’incarico di predisporre quella che sarebbe divenuta la prima riforma del sistema scolastico e universitario dell’Italia unita (la c.d. “legge Casati”, del 1859) – il conte di Cavour rispondesse che materie come quelle si possono efficacemente riformare solo in fasi congiunturali in cui si può legiferare per decreto governativo, in luogo che per dettato parlamentare. Tornando all’attualità, è noto che l’attenzione sul sistema universitario è venuta con particolare enfasi alla ribalta, a partire dall’estate 2008, in concomitanza con il varo della manovra finanziaria nota come “legge Tremonti” (l. 6 agosto 2008, n. 133).

Può essere curioso, e un po’ preoccupante, constatare come ci sia voluto un intervento di tale portata, in termini di definanziamento del sistema – un miliardo e mezzo circa di euro, nell’arco di un quinquennio – per provocare quel moto di diffuso interesse collettivo, non circoscritto a chi in università lavora e studia, cui tutti stiamo assistendo dalle cronache dei media. In altri termini, si sarebbe potuto e dovuto accendere i fari sull’università ben prima e non solo in relazione ai nodi del suo finanziamento. Certo, va con forza sottolineato come il sostegno pubblico al sistema universitario veda il nostro Paese, ormai da anni, al di sotto della media dei modelli avanzati e più competitivi in Europa: gli obiettivi di investimento pubblico al 3% del P.I.L., scanditi dall’agenda di Lisbona, sono irrimediabilmente lontani dalla scadenza del 2010 ed anzi, il trend dell’ultimo lustro denuncia una costante flessione dell’investimento statale nell’università. Ne deriva che il punto di partenza di ogni credibile riforma non può non coincidere con una robusta inversione di rotta al riguardo.

Per altro verso, si deve avere il coraggio di ammettere che alcune patologie del nostro sistema universitario derivano anche da un improprio impiego, da parte delle comunità accademiche (non di rado con la complicità dei politici), delle prerogative di autonomia: fenomeno, questo, concretatosi in forme di ipertrofia della spesa, disgiunte da etica di responsabilità, con effetti ben visibili in quella che, in estrema sintesi, potrebbe definirsi “ansia della moltiplicazione” (rispettivamente, di università, di sedi decentrate, di corsi di studio ecc.). Porre rimedio a queste degenerazioni è indispensabile, ma è da auspicarsi che ciò si faccia con gli strumenti del “buon governo”, piuttosto che assecondando pulsioni emotive. Ciò di cui occorre dotarsi, in definitiva, è un sistema che, valutando le università in chiave di risultati scientifici, formativi e gestionali, ne incentivi i processi di organizzazione efficiente ed efficace, destinando una parte delle risorse pubbliche a premio-incentivo delle realtà capaci di conseguire gli obiettivi in parola.

Per parte sua, l’Università di Trieste ha già imboccato, a partire dall’ultimo biennio, un percorso di rinnovamento, declinato in diverse azioni: rafforzare il proprio sistema di relazioni, a tutela e a promozione del proprio prodotto scientifico, tuttora altamente qualificato e riconosciuto, anche a livello internazionale; mettere il suo patrimonio di sapere e di competenza a disposizione di giovani di qualità di ogni provenienza, nella consapevolezza che attrarre talenti è garanzia di sviluppo per la comunità scientifica e territoriale, con un importante indotto sull’economia e sul tessuto delle imprese; imboccare la duplice via dell’equilibrio di bilancio e della riorganizzazione della macchina amministrativa, cercando di tradurre le sfide davvero impegnative che l’attendono, in momenti di coesione sociale interna e di rinnovata identità.

Francesco Peroni 
Magnifico Rettore Università Trieste

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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