Per un’alternativa democratica al liberismo

La Legge 133/08 prevede che il Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università, già abbondantemente ridotto dai precedenti governi, sia ulteriormente decurtato. Inoltre viene ridotto il finanziamento dei Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN), unico strumento che ormai finanzi la ricerca libera. Le cose più gravi sono però la drastica riduzione delle assunzioni del personale docente e tecnico-amministrativo e la possibilità di trasformazione degli Atenei in Fondazioni private.

La signora Gelmini ha affermato di non capire perché la contestano nelle Università, dato che lei non ha ancora emanato nessun provvedimento a riguardo. In realtà, basterebbe il disegno di legge da lei presentato nella passata legislatura il 5 febbraio 2008 (sull’argomento per giustificare l’occupazione di tutte gli Atenei e gli Enti di Ricerca italiani come misura preventiva di legittima difesa. La ministra dice che vuole combattere il baronato, ma taglia (o lascia tagliare) l’assunzione dei giovani, l’unica misura per sottrarli alla subordinazione accademica. La ministra dice che vuole valorizzare il merito, ma taglia (o lascia tagliare) le risorse sul finanziamento ordinario e sui progetti di ricerca, l’unico mezzo attraverso il quale il merito può affermarsi.

Dice che vuole “l’eccellenza”, ma dimentica (o non sa) che l’eccellenza emerge solo se si poggia su una robusta e diffusa base di ricerca e di docenza di buon livello. Fra l’altro, la ministra non conosce neanche i dati OCSE sulla ricerca pubblica e sull’università e cita dati falsi, come quelli sui corsi di laurea con un solo iscritto, che non esistono. Ci ha già comunque pensato il Ministro Tremonti a prendersi cura delle università e della ricerca pubblica italiana e, forse, nei 9 minuti a disposizione per far approvare quella che è ora la Legge 133/08 dal Consiglio dei Ministri, non ha fatto in tempo a spiegarle cosa proponeva per le istituzioni poste sotto la “tutela” del suo Ministero.

La Legge 133/08 prevede, infatti, che il Fondo di Finanziamento Ordinario delle Università, già abbondantemente ridotto dai precedenti governi, sia ulteriormente decurtato, e in realtà si riduce ora di un terzo rispetto a quello che era in precedenza; è inoltre ridotto il finanziamento del PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale), l’unico strumento che ormai finanzi la ricerca libera. Quello però che è più grave è la drastica riduzione delle assunzioni del personale docente e tecnico-amministrativo e la possibilità di trasformazione degli Atenei in Fondazioni private, con la privatizzazione dei rapporti di lavoro, il conferimento dei beni dell’Università al nuovo soggetto privato e l’indeterminatezza degli organi di gestione degli Atenei, senza nessuna garanzia per la libertà di ricerca e di insegnamento.

Quasi inutile citare i tagli ai già scarsissimi fondi del finanziamento del diritto allo studio che sono stati ulteriormente ridotti e l’inevitabile, forte aumento delle tasse universitarie se gli Atenei diventassero fondazioni. Dobbiamo tuttavia riconoscere che, in Italia, quella dei rapporti tra politica, formazione universitaria e ricerca è una lunga storia segnata da errori, contraddizioni e tentativi di condizionamenti politici ed ideologici, anche prima dell’avvento del governo delle destre. Ad esempio, il Programma dell’Unione, come concordato tra tutte le forze politiche che ne facevano parte prima delle elezioni del 2006, poteva rappresentare una sostanziale svolta positiva nell’atteggiamento rispetto alla Scuola, l’Università e la Ricerca.

Non possiamo però nasconderci che gran parte di questo programma sia stata completamente disattesa: le risorse messe a disposizione per il finanziamento ordinario delle Università e degli Enti Pubblici di Ricerca sono state irrisorie come è irrisorio il pacchetto finanziario per le assunzioni dei giovani ricercatori. Agendo su una situazione già gravemente compromessa, i tagli effettuati dalla Legge 133/08 possono mettere a repentaglio la stessa esistenza dell’università e della ricerca pubblica in Italia. Tali provvedimenti vanno ben oltre una pura manovra di risparmio e determinano uno scenario in cui sparisce l’università italiana come sistema nazionale tutelato dalla Costituzione, nella quale il ruolo pubblico è elemento decisivo di garanzia per il diritto allo studio, la libertà di ricerca e d’insegnamento e gli interessi generali del Paese.

Quali provvedimenti sarebbero invece necessari, se si volessero seguire le indicazioni europee fissate dal “Protocollo di Lisbona”, che l’Italia ha sottoscritto? In primo luogo, università e ricerca pubblica hanno urgente bisogno di soldi veri. Non solo i tagli, ma anche qualsiasi tentativo di ulteriori “riforme a costo zero” farebbero solo danno, così come farebbe solo danno qualsiasi progetto che affidasse il finanziamento dell’università e della ricerca pubblica al “mercato”. Negli ultimi venticinque anni, università e ricerca pubblica hanno fatto tutto quanto potevano (ed anche tentato di fare ciò che non potevano) per “aprirsi alle imprese”.

Ormai, su questo fronte non si può più chiedere niente ed in particolare non si può più:
a) tagliare fondi all’università ed alla ricerca pubblica per favorire progetti di ricerca industriale

b) cercare ancora di adeguare maggiormente gli studi universitari alle necessità delle imprese, le quali, per come sono fatte ora in Italia, hanno in grande maggioranza la sola esigenza di avere manodopera, magari poco qualificata, ma a basso costo.

c) costringere chi fa ricerca su temi che non si prestano ad immediate applicazioni industriali a cercare improbabili rapporti con l’impresa. Non si possono più neppure tagliare ulteriormente risorse umane e materiali a questi temi, magari con la scusa di “finanziare solo l’eccellenza”.

Infatti, non si possono prevedere i settori del sapere che serviranno domani: data la cometa che potrebbe colpire la Terra nel 2036, magari nel 2022 la ricerca applicata più importante sarà la meccanica celeste. Tutti sanno anche che senza avere una base di “ricerca ordinaria” non si può fare “ricerca eccellente”. In altre parole, tentare di fare solo “ricerche finalizzate” e “ricerche eccellenti”, così come finanziare solo astrofisici, archeologi e filosofi che “collaborano con l’impresa” è prendersi in giro da soli e buttare soldi. Un altro problema dell’università e della ricerca pubblica che non può più attendere è quello del precariato.

Ormai, a parole, tutti riconoscono che il precariato nell’università e nella ricerca è una jattura e va eliminato. Cerchiamo però di trovare una soluzione finale del problema del precariato che sia diversa dai campi di sterminio e quindi evitiamo anche qui di tentare di risparmiare soldi dicendo che vogliamo immettere in ruolo “solo l’eccellenza”. Sappiamo benissimo che i precari nelle università e nella ricerca pubblica ci sono perché servono e che, se se ne andasse anche solo il 10% di loro, queste istituzioni sarebbero paralizzate, dato che, inclusi i precari, l’Italia ha la percentuale più bassa di docenti universitari e di ricercatori per occupato tra i paesi europei.

Sappiamo anche che sono pochissimi i casi nei quali qualcuno mantiene un precario nel suo dipartimento o nel suo istituto “per fare un favore al parente o all’amante”, in primo luogo perché queste categorie si possono benissimo fare entrare con regolare concorso ed in secondo perché gli si farebbe un ben povero favore a farli entrare come precari. L’unica soluzione possibile è quindi incominciare subito un consistente numero di nuovi concorsi e riconoscere tra i titoli l’esperienza e la professionalità acquisita negli anni passati a fare ricerca e docenza da precari. Nel contempo, però, è necessario mettere in piedi un meccanismo di accesso che vada al di là dell’emergenza, anche perché non dobbiamo avere certo paura che i docenti ed i ricercatori in Italia diventino troppi: questo percorso dovrebbe partire con il dottorato, seguito da 2/3 anni di formazione/selezione (“tenure track”, per chi ama gli anglicismi) e separazione della valutazione per l’accesso da quella per la progressione di carriera.

Si badi però che “tenure track” significa che quando un ateneo o un ente di ricerca hanno bisogno di una persona, si fa una selezione per assumerne una, la si valuta per un po’ (appunto, per 2 o 3 anni) e, se va bene, le si dà il posto fisso, non che si prendono 5 persone, si fanno lavorare per anni e poi si assume “il migliore”, mandando gli altri “sul mercato”. Per quanto riguarda la ricerca industriale, alla condizione strutturale di arretratezza tecnologica dell’economia del paese si è tentato di ovviare per più di un terzo di secolo con una politica essenzialmente basata sugli incentivi all’innovazione. Il risultato, nonostante le risorse anche ingenti che sono state spese, non è però esaltante se il nostro rimane un paese a basso tasso di innovazione e, anche in conseguenza di questo fatto, ha perso credibilità l’idea che esista una relazione diretta e lineare tra investimenti in ricerca, innovazione e sviluppo.

E’ risultato chiaro che una politica esclusivamente o quasi di incentivi alla ricerca industriale si traduce prevalentemente, in assenza di una domanda sostenuta di innovazione da parte del sistema industriale, in innovazione di processo e non di prodotto, con ovvie conseguenze sul piano occupazionale, non ripagate però, né in termini di nuova occupazione, né in termini di una maggior capacità di tenuta rispetto ai cicli del mercato. E’ quindi certamente necessario rivedere il metodo di valutazione ex-ante ed ex-post della validità e dell’impatto sociale degli interventi richiesti e di quelli finanziati. Tuttavia, qualsiasi sia il sistema di valutazione, esso rischia di essere inefficiente e dispersivo in assenza di coerenti interventi di vera e propria politica industriale.

A partire dalla seconda metà degli anni ’60 hanno infatti incominciato a realizzarsi le condizioni di quello che viene ormai individuato come una forma di vero e proprio “declino industriale” del Paese. Se l’assetto originario del sistema produttivo nazionale era già di per sé scarsamente propenso all’innovazione a causa della prevalente distribuzione su settori merceologici tradizionali e dell’assenza di un sistema creditizio moderno, la progressiva scomparsa delle medie e grandi imprese e la generale ritirata dai pochi settori capaci di produrre innovazione (chimica, elettronica, energia), anche in settori industriali maturi, ha aggravato drammaticamente la situazione: pensare di intervenire su di un tale contesto solo sul versante delle politiche scientifiche e dell’università sarebbe un errore gravissimo. Per permettere ad un modello di sviluppo autogeno basato sull’innovazione di decollare devono perciò esistere in Italia condizioni che non potranno verificarsi spontaneamente, senza una adeguata azione di programmazione dell’economia ed un intervento concreto dello Stato e degli Enti Locali, prevalentemente a livello regionale (ed aver trascurato ideologicamente questo fatto e’ stato anche nel recente passato uno degli errori più gravi).

A questo problema, bisogna quindi rispondere con una proposta articolata, che superi le solite rituali politiche di agevolazioni alle imprese:
a) Lo Stato deve dedicare adeguate attenzione e risorse alla preparazione del Piano Nazionale della Ricerca, che non può ridursi ad un vuoto elenco di principi generali e di stanziamenti che verranno erogati “se sarà possibile”, ma deve divenire un reale strumento di programmazione, con risorse economiche certe, del quale deve essere costantemente tenuta sotto controllo l’attuazione e verificata l’eventuale necessità di modifica.

b) Lo Stato e gli Enti Locali debbono generare una reale, costante e quantitativamente rilevante domanda interna di prodotti e servizi ad alta tecnologia, in primo luogo tramite l’aggiornamento e l’innovazione tecnologica nei propri settori di intervento (scuola, sanità, tutela del territorio e dell’ambiente, tutela e valorizzazione dei beni culturali, giustizia, trasporti, ecc.) e, in secondo luogo, potenziando il sistema di ricerca pubblico: quest’ultimo strumento e’ probabilmente il più facile da impiegare in tempi brevi, anche al fine di garantire da subito uno sbocco alla produzione dei pochi settori ad alta tecnologia ancora presenti in Italia (es. industria spaziale).

c) Lo Stato deve selezionare un numero ristretto di settori merceologici ad alta tecnologia che, per il loro ruolo strategico e per la situazione attuale del mercato, meritino e permettano una politica di espansione per il sistema produttivo nazionale e concentrare su questi tutte le risorse disponibili per la ricerca industriale (e non dirottando su questa gli stanziamenti, già troppo scarsi, destinati all’università ed alla ricerca pubblica), difendendoli anche politicamente dai condizionamenti stranieri. Questo aspetto riguarda l’industria nazionale delle comunicazioni e quella aerospaziale, il cui sviluppo potrebbe essere garantito da un adeguato piano di settore, partendo dai punti di eccellenza in essa ancora presenti, e da una “domanda garantita” da parte dello Stato, sia per velivoli destinati a servizi speciali (aeroambulanze, velivoli antincendio, velivoli e satelliti per geodesia, meteorologia e per il controllo dell’ambiente e del territorio, satelliti per telecomunicazioni, ecc.) che di missioni spaziali destinate alla ricerca di base (astronomia, biologia, scienze della Terra), anche concordate in ambito europeo ed internazionale.

d) Lo Stato e gli Enti Locali debbono incentivare lo sviluppo di una nuova imprenditoria, disponibile a puntare sull’innovazione tecnologica. Ciò si può ottenere garantendo l’apertura di credito e agevolazioni fiscali a giovani di adeguata preparazione tecnico-scientifica, possibilmente associati in gruppi di sufficiente consistenza, per l’apertura di attività imprenditoriale di produzione di merci, materiali ed immateriali, ad alto contenuto tecnologico e privilegiando poi queste strutture per la fornitura di ciò che si renda necessario per la realizzazione di quanto schematizzato al punto a). Non è invece probabile che provvedimenti di generica agevolazione fiscale su produzioni ad alta tecnologia o di offerta di trasferimento di tecnologia alla maggior parte delle imprese attualmente esistente possa permettere un ragionevole rapporto costo/beneficio per la collettività. Ancora più inefficace sarebbe puntare alla creazione di imprese ad alta tecnologia a partire dalle competenze del personale di ricerca operante nelle università e negli Enti Pubblici di Ricerca: cercare di trasformare questo personale in “imprenditori” otterrebbe il solo risultato di depauperare ancora di più le scarse risorse umane della ricerca e della formazione superiore pubblica, sottraendone una parte ai compiti che sa e deve svolgere.

e) Lo Stato e gli Enti Locali debbono provvedere a creare ed attivare, tenendole almeno inizialmente sotto il proprio controllo, istituzioni (distinte come ruolo e come struttura dagli Enti pubblici di ricerca) destinati allo sviluppo tecnologico in settori precompetitivi, e quindi non suscettibili di immediate capacità di mercato, ed alla realizzazione di prototipi di dispositivi che, tramite applicazioni di tecnologie avanzate, possano contribuire alla soluzione di problemi di interesse per il Paese e per gli Enti Locali (es. smaltimento ecologicamente compatibile dei rifiuti, traffico automobilistico, sanità, controllo del territorio, ecc.). Gli attuali o previsti “Poli scientifico-tecnologici” (che, affidati solo al mercato, sono spesso divenute scatole vuote e costose) dovrebbero essere ristrutturati a questo fine. E’ chiaro che progetti di questa portata devono essere finanziati adeguatamente, dato il loro costo e la loro natura sostanzialmente extramercantile. Tuttavia, a ben guardare, si potrebbe trattare sostanzialmente di una rifinalizzazione di risorse già disponibili (come i finanziamenti regionali alla ricerca e quelli per l’imprenditoria giovanile), che sono però attualmente impiegate in modo tale da non assicurare un adeguato ritorno, in termini di occupazione e di benessere generale del Paese.

Vito Francesco Polcaro
Università di Roma – Tor vergata

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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