La nuova cultura antimanicomiale

E’ sempre più importante la prevenzione, frutto di un impegno implementato e sviluppato sempre più nella comunità locale, nell’ambiente di vita e di lavoro dei cittadini, con interventi rivolti non solo ai malati mentali, ma anche e soprattutto a tutto ciò che si presenta quale minaccia per la salute mentale di tutti.

La Legge 180/78 ha mutato l’approccio verso i malati mentali, riconoscendo la malattia mentale alla stessa stregua delle altre. Ha determinato la fina dei manicomi, chiudendoli ed impedendone la costruzione di altri. Ha riconosciuto dignità e cittadinanza a coloro che erano affetti da disagio mentale. Tale legge ha abolito la pericolosità sociale, sostituendo il modello manicomiale di assistenza psichiatrica fondato sulla segregazione del malato di mente per privilegiare l’intervento sociale-territoriale. Sono trascorsi 30 anni dall’entrata in vigore della legge. Merita effettuare una riflessione e soffermarsi sui cambiamenti e sulla realizzazione di quanto previsto. Solo nel 1994 si è giunti al Progetto Obiettivo che identificava quali strutture dovevano attivarsi a livello nazionale e dare inizio all’organizzazione di sistema dei servizi di assistenza psichiatrica.

Da più parti provengono critiche alla grave carenza della legge 180, la quale non ha previsto adeguate misure d’intervento per il “dopo chiusura dei manicomi”. Ci si è limitatati a trasferire le competenze al territorio, alle Regioni, “psichiatria territoriale”, senza che queste fossero pronte. Di fatto, l’assistenza socio sanitaria è passata dallo Stato ai familiari, su cui grava concretamente il carico del proprio congiunto malato. La qualità dei servizi, dunque, linee strategiche da perseguire e intervento istituzionale per la realizzazione ottimale di servizi alle persone per la piena integrazione socio-sanitaria. La nuova cultura antimanicomiale determina l’attuazione del decentramento, la territorialità, il lavoro in  equipe, la riqualificazione degli operatori addetti al trattamento dei cittadini sofferenti in ogni livello e grado di intervento: ospedale, ambulatorio, domicilio, strutture d’accoglienza.

La strada da seguire è la prevenzione, con il lavoro che sia implementato e sviluppato sempre più nella comunità locale, nell’ambiente di vita e di lavoro dei cittadini. Lavoro ed interventi rivolti non solo ai malati mentali, ma anche a tutto ciò che si presenta quale minaccia per la salute mentale di tutti. Partire quindi dall’organizzazione sanitaria di base, non dall’Ospedale Psichiatrico, offrendo alternative al ricovero che siano presupposto di accoglienza ed integrazione socio-sanitaria. Un vero servizio individualizzato alla persona e per la persona, attraverso un vero processo d’aiuto. Tutto ciò pare semplice a dirsi, ma è ben più problematico a farsi, vista la specificità del malato e considerati i presupposti in norma. Spesso, infatti, il problema non sta nella mancanza di strutture. Anche se queste esistono, se il malato non ci vuole andare, nessuno, così recita la normativa vigente, lo può obbligare. Un vero dramma sociale che investe le famiglie con un malato di mente in casa.

E’ fondamentale che il malato venga curato e non resti in balia di sé stesso. Bisogna trovare una soluzione a ciò che la norma oggi detta, perché costui, se patologicamente compromesso, non è in grado di stabilire che è giusto curarsi e non è giusto non curarsi. La cronaca quotidiana è ricca di esempi. Non trascorre giorno nel nostro paese senza eventi critici che richiamano stragi, morti ammazzati dal figlio, dalla madre, dal padre, dalla fidanzata, dal collega di lavoro, dal vicino di casa…, perché pare, così recitano i giornalisti, fosse affetto da sindrome depressiva. Per non parlare dei suicidi. Non si interviene in termini di prevenzione. I medici del CSM non vanno al domicilio come il medico di base, i malati sono in balia di sé stessi e in carico alle proprie famiglie, vittime privilegiate che nulla possono per far capire al congiunto che si deve curare.

Il risultato finale è sotto gli occhi di tutti noi che operiamo nel pianeta carcere e ci occupiamo di esecuzione della pena. Gli Istituti Penitenziari hanno sostituito i manicomi. Gravissimo per la carenza di cure. Contrariamente a ciò che pensa la gente comune, sarebbe meno grave se i malati fossero ristretti in strutture dove poterli curare. Un esempio per tutti è il “caso Izzo”, il mostro del Circeo. Fu condannato all’ergastolo e non gli fu applicata la misura di sicurezza dell’OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario). Dopo 30 anni di carcere senza cure, ma di buon comportamento penitenziario, gli è stata concessa la semilibertà. Dopo un tempo brevissimo ha ucciso altre due donne. Ha ripetuto lo stesso gesto compulsivo del 1975, perché gli si sono presentate le stesse circostanze: la vicinanza con le donne. Nessuno ha posto l’accento sul fatto che costui è un malato di mente ed in quanto tale dev’essere curato. E’ solo un criminale. Ma qualcuno ancora oggi sostiene che la malattia mentale non esiste.

Però, i testi scientifici affermano che il cervello è un organo. Ai sensi di quanto regolamentato, non si ammala mai!

D.ssa Rossana Carta
direttore dell’Ufficio esecuzione penale esterna del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

Rispondi