Le colpe della degradazione

Sovraffollamento, assenza di tutela della salute, alloggiamento in situazione insalubre, promiscua e con mancanza di accesso all’aria, sono fattori che, considerati insieme, determinano un trattamento inaccettabile. Essi non sono il risultato di una volontà esplicita di infliggere sofferenza, bensì il risultato di politiche omissive, di assenza di prevenzione, di incapacità di risolvere problemi

Il comitato che io presiedo ha un nome lungo, “Comitato per la prevenzione della tortura, dei trattamenti e delle pene inumani e degradanti”, che riprende così la lettera dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 1950, che recita appunto: “Nessuno sarà sottoposto a tortura o a trattamenti e pene inumani o degradanti”. Ma mentre è relativamente semplice accordarsi su una definizione di tortura, è assai più complesso stabilire quando un trattamento o una situazione detentiva è contraria al senso di umanità, è un trattamento definibile, appunto, come “inumano o degradante”. Un aiuto in questa direzione viene da due sentenze della Corte europea di Strasburgo (che ben si possono riferire anche alla situazione italiana) che vigila sull’adempimento degli Stati agli obblighi derivanti dalla Convenzione del 1950.

La prima è del 2003, relativa al ricorso di un ex detenuto contro la Russia, ed è una sentenza da cui emerge che un trattamento può essere definito come inumano e degradante anche in assenza di una esplicita volontà di infliggere sofferenza. Nel caso specifico il trattamento così definito era il risultato della stessa situazione detentiva, delle sue carenze e delle condizioni materiali in cui il detenuto era stato tenuto, per sovraffollamento, mancanza di igiene, esposizione a possibili malattie: era la situazione detentiva offerta che era di per sé un trattamento in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Le autorità penitenziarie non avevano esercitato alcuna violenza diretta, al contrario avevano cercato di alleviare la condizione del detenuto; tuttavia la situazione da esse gestita è stata definita inumana e degradante come frutto di una mancata politica penitenziaria volta a garantire i diritti fondamentali della persona, in primo luogo il diritto ad essere posto in una situazione rispettosa della dignità personale e ad essere tutelato nella propria salute. Le condizioni materiali, dallo spazio ristretto all’assenza di letto, le condizioni igienicosanitarie, il regime offerto sono state giudicate inaccettabili. L’elemento centrale di questa sentenza è, quindi, proprio nel fatto che il sovraffollamento, l’assenza di tutela della salute, l’alloggiamento in situazione insalubre, promiscua e con mancanza di accesso all’aria, sono tutti fattori che considerati insieme determinano un trattamento inaccettabile. Essi non sono il risultato, come ho detto, di una volontà esplicita di infliggere sofferenza, bensì il risultato di politiche omissive, di assenza di prevenzione, di incapacità di risolvere problemi, di anteposizione della necessità securitaria a quella di non costringere comunque alcuna persona a vivere in condizioni non rispettose della sua dignità.

 La seconda sentenza, dello stesso anno, riguardava il ricorso di un detenuto sottoposto a regime di alta sicurezza nei Paesi Bassi. I suoi colloqui con la famiglia avvenivano attraverso un vetro separatore, senza alcuna possibilità di contatto fisico tra il detenuto e i familiari. Ciononostante il detenuto era sottoposto a perquisizione corporale, intima, dopo i colloqui. La Corte ha ritenuto che, non essendo possibile alcun contatto tra detenuto e familiari, il fatto che egli venisse sottoposto di routine a questo tipo di perquisizione, configurava un trattamento inumano e degradante, una diminuzione della sua dignità in assenza peraltro di alcuna motivazione fattuale. Il significato di questa seconda sentenza risiede nell’affermare che le misure adottate per interrompere la comunicazione tra l’interno e le organizzazioni criminali di appartenenza non possono tradursi invece in misure vessatorie verso la persona che ne è soggetta, non possono essere misure di improprio inasprimento della detenzione, non giustificate da altre finalità e, quindi, di fatto volte ad aggredire la sua dignità personale. Ho citato due sentenze, riferite a casi molto diversi: ne emerge un quadro complesso che pone sempre nuovi problemi nel cercare di definire quando un trattamento è da considerarsi “inumano o degradante”. A monte di tale complessità vi è il principio che stabilisce che l’articolo 3 della Convenzione indica un divieto inderogabile: al contrario degli obblighi stabiliti in altri articoli, rispetto ai quali è possibile derogare in caso, per esempio, di guerra, di situazione di pericolo per la nazione, per l’articolo 3 – come del resto per altri articoli, quali quello sulla tutela della vita, sul divieto di schiavitù e simili – nessuna deroga è possibile. Nessuna condizione “speciale” può giustificare il ricorso da parte di uno stato alla tortura o a un trattamento contrario al senso di umanità. Questo principio è particolarmente importante nel contesto attuale di “guerra al terrorismo internazionale”, soprattutto nel dibattito che si è stabilito anche in Europa, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 e la conseguente legislazione adottata negli Stati Uniti. Nello scossone incredulo che ha seguito quella data, molti paesi europei sono ricorsi all’adozione di misure antiterrorismo che hanno spesso messo a duro rischio i principi stabiliti nelle Convenzioni adottate negli anni Cinquanta, dopo la catastrofe del secondo conflitto mondiale. Stati con grande tradizione democratica hanno richiesto di poter detenere le persone per lunghi periodi, a volte anche per un periodo indeterminato, senza che queste venissero portate davanti al magistrato per la convalida della loro privazione della libertà, e senza alcuna imputazione formale. Quasi ovunque si sono chieste “mani libere” nel detenere persone, alcuni hanno proposto che il principio dell’intangibilità dei diritti fondamentali delle persone venisse bilanciato con la necessità di garantire la sicurezza della nazione e non fosse, quindi, più considerato come assoluto; altri ancora hanno avviato un ambiguo dibattito sulla possibilità di utilizzare “metodi forti”, coercizione fisica, durante gli interrogatori dei sospettati. In questo panorama – su cui non voglio qui dilungarmi – l’esistenza di una Convenzione e di organi di controllo sugli adempimenti degli Stati è stato un patrimonio forte, che ha permesso di fronteggiare i tentennamenti e di tenere saldi alcuni principi nel territorio europeo.

L’attuale tendenza a un “pensiero reclusorio”, alla crescente richiesta di carcere, non riguarda solo l’Italia: riguarda quell’Europa, ormai spesso definita come “fortezza”, soprattutto per la sua chiusura ai flussi migratori che verso di lei accedono e a cui sempre più risponde con situazioni non socialmente inclusive, ma di mero respingimento e privazione della libertà. Oggi accanto al carcere si moltiplicano luoghi dove le persone sono, appunto, private della libertà, spesso senza aver commesso alcun reato, ma solo un illecito amministrativo, quello di essere irregolarmente presenti nel territorio. L’Europa vive attualmente grandi contraddizioni: ne celebriamo la capacità di dotarsi di organismi che vigilano sul rispetto dei diritti delle persone recluse e al contempo ne vediamo la debolezza e la subalternità nel consentire che sopra i propri cieli e nei propri aeroporti viaggino o atterrino aerei sospettati di trasportare persone in totale violazione di tali principi. Recentemente si sono conclusi nel Consiglio d’Europa i lavori della commissione che ha indagato sui voli segreti della C.I.A. e nel rapporto finale viene indicato un numero molto elevato di voli sospettati, quanto meno, di trasportare illegalmente all’interno degli aerei dei prigionieri, senza alcuna notifica o dichiarazione alle autorità aeroportuali dove tali aerei atterravano, per poi ripartire, del loro effettivo carico. Molti Stati europei hanno spesso chiuso i propri occhi di fronte a tale realtà, non hanno indagato le denunce che pure hanno ricevuto, e hanno finito col dimostrare grande subalternità e scarsa volontà di garantire nei fatti, ciò che a parole dichiarano essere propri valori costitutivi.Anche a fronte dei primi risultati della commissione, delle indicazioni contenute nel suo rapporto e delle richieste di indagine, la risposta è stata tiepida, non centrata sulla effettiva volontà di fare chiarezza, né sulla consapevolezza di quanto della propria identità si andava perdendo dietro tale timidezza e tale accondiscendenza verso le richieste statunitensi: l’Europa sembra a volte più interessata a perseguire la contraffazione dei prodotti, a perseguire i falsificatori di CD che ad indagare i voli illegali avvenuti nel proprio territorio e a perseguire chi, almeno per omissione, li ha consentiti. Questo elemento rimanda a una domanda fondamentale proprio sul senso della pena, rimanda alla scala dei valori e beni giuridici tutelati, alle priorità da definire nell’utilizzo di quello strumento importante e costoso che è lo strumento penale e, conseguentemente, al come punire, ovvero a quali reati riservare quella punizione grave e dura che è la detenzione.

Atti della Giornata di Studi Nazionale, Persone, non reati che camminano. Ripensare la pena

Venerdì 25 maggio 2007 – Casa di Reclusione di Padova (www.ristretti.it/)

Mauro Palma
Presidente del comitato per la prevenzione della tortura,
dei trattamenti e delle pene inumani e degradanti

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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