Com’è difficile accettare il lontano ed il diverso

Spesso rappresentiamo l’immigrato come un mostro senza sentimenti, capace di qualsivoglia gesto e lo trasformiamo nel capro espiatorio delle nostre tensioni sociali. In verità l’Istat  ci mostra che solo un criminale su tre proviene da un paese straniero

La presenza dell’estraneità e dell’alterità del nostro mondo rappresenta sempre una forma e una fonte d’insicurezza, più spesso “percepita” -per la verità- che effettivamente “reale”. La presenza di ciò che non ci è completamente comprensibile e che ci pare irriducibile ai nostri schemi abituali (che si alimentano di ciò che appartiene alle nostre tradizioni e radici) produce e induce un senso diffuso di insicurezza. Gli studiosi che si occupano di fenomeni migratori parlano a questo proposito di una soglia dell’8 per cento: quando l’8 per cento di una società appare composto da soggetti non riconducibili a schemi precostituiti, l’insicurezza tende a diventare il sentimento più diffuso. E per un particolare fenomeno ben noto in psicologia sociale succede che per ogni atto di violenza commesso da uno straniero si amplifica come per magia la pericolosità sociale di tutta la “categoria”: questo succede perché c’è una maggiore disponibilità di informazione rispetto alle cattive azioni altrui che alle buone. Per una buona notizia che passa al tg, ne passano dieci meno belle: quanti immigrati costruiscono imprese, aprono botteghe, creano ricchezza, si laureano nel nostro Paese senza che ne sappiamo nulla? Invece sappiamo bene chi si è macchiato di delitti, chi ha guidato ubriaco sterminando una famiglia, chi ha violentato e con quali conseguenze. Così spesso ci rappresentiamo l’immigrato come un mostro senza sentimenti, capace di qualsivoglia gesto, e lo trasformiamo nel capro espiatorio delle nostre tensioni sociali. In verità l’Istat ci mostra che solo un criminale su tre proviene da un paese straniero. è dunque più probabile imbatterci in un italiano pronto a delinquere che in uno straniero malintenzionato.

D’altro canto questo è un tema classico che appartiene a tutti i popoli di tutti i tempi: l’orco, il barbaro, il sarracino… Anzi, direi che il tema dell’incontro con l’altro-da-noi è un tema fondante la condizione umana in senso filosofico, antropologico, psicologico, e anche religioso. Karl Smith lo definisce hostis, colui che viene da un’altra polis, con il quale esistono rapporti di reciprocità in termini di diritti e doveri, di credenze e di identità. Uno spartano per un ateniese non era un nemico, ma un hostis: anche se i loro relativi codici culturali erano profondamente diversi, tra loro esistevano doveri di reciprocità. Soltanto successivamente, dopo le guerre persiane, nascerà la distinzione tra hostis e hospes. Le parole, pur mantenendo la stessa radice (colui che sta fuori dalle porte) si diversificano: la prima denotando il nemico (da qui le derivazioni ‘ostile’, ‘ostilità’), cioè colui che irrompe dalle frontiere e contamina il nostro territorio; e la seconda denotando l’ospite, colui che –pur forestiero- ci predisponiamo ad accogliere in pace. Eppure, in modo sottile e inquietante, la connessione psicologico-semantica tra ospite e nemico rimane. E anche per noi, a circa 2500 anni dalla formazione dei due vocaboli, questa relazione resta problematica e irrisolta, a dispetto delle elaborazioni di grandi sociologi, come Georg Simmel, che dipingono il migrante, oggi l’extracomunitario, non più come invasore di identità e territorio cui opporci con le armi, ma come pacifico pellegrino, che silenziosamente scuote con la sua stessa presenza e con la sua stessa identità le radici del nostro essere.

Quali sono allora le vie percorribili? Due illustri studiosi, Taylor e Habermas parlano di una “multiculturalità necessaria” in cui piuttosto che immaginarci monadi isolate, noi tutti –ispanici, anglosassoni, latini, islamici, cinesi o slavi- dovremmo pensarci come civiltà integrata in cui frammenti, schegge, pezzi d’identità s’incontrano e si scontrano producendo esiti totalmente nuovi, originando culture vivacemente inedite. Allora si può essere contemporaneamente un islamico praticante, fisico nucleare, grande appassionato d’arte. A nostro avviso questa multiculturalità orizzontale e verticale è il vero futuro dell’umanità: che non vuol dire sincretismo, non vuol dire rinuncia all’identità, ma significa concepire l’identità per quello che è, ossia un fenomeno inevitabilmente dinamico. Lo ha affermato anche Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia, criticando aspramente una suddivisione dei popoli del mondo esclusivamente in base alla civiltà e alla religione. Ciò porterebbe verso un “approccio solitarista” dell’identità umana, che vede gli esseri umani esclusivamente come membri di un gruppo particolare (islamici, statunitensi, ortodossi…), quando nella quotidianità vediamo e sentiamo noi stessi appartenere a diversi gruppi. Così una stessa persona può essere italiana, di origine slava, liberale, vegetariana, tennista e musicista jazz: tutti i diversi gruppi di cui fa simultaneamente parte le conferiscono un’identità particolare, e nessuna di queste collettività può essere considerata come la sola identità della persona, o come il suo solo gruppo d’appartenenza. La forzata imposizione di un’identità unica è invece spesso ingrediente necessario dell’arte -tutta marziale- di fomentare i confronti faziosi. Così la nostra umanità condivisa viene pesantemente messa a repentaglio quando le molteplici divisioni presenti nel mondo vengono unificate in un sistema di classificazione dominante, in termini di religione, cultura, nazione o civiltà. Un mondo suddiviso in maniera così univoca crea molte più divisioni di quante effettivamente ve ne siano in quel mondo di categorie e pluralità diverse che costituiscono la dimensione in cui viviamo. La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una maggiore comprensione della pluralità dell’identità umana, e del fatto che -operando trasversalmente- si possano colmare la divisioni apparentemente più impenetrabili. “Meticci” lo siamo per forza di cose, ma ‘pluralismo’ e ‘relativismo indifferente’ implicano cose ben diverse. Lo spartiacque è frutto di valori umani irrinunciabili e legati al valore universale della vita. Cerchiamo sempre quello che unisce e lasciamo perdere quel che ci divide se vogliamo costruire una comunità, ha affermato Giovani XXIII.

Alessandro Meluzzi
Psichiatra – psicologo – psicoterapeuta

Rossana Silvia Pecorara
Dottore di ricerca in scienze cognitive – psicologa

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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