Quando il gioco non è pericoloso

Non emergono correlazioni significative tra videogiochi e comportamenti socialmente scorretti. Il gioco digitale può essere visto come strumento di socializzazione quando si utilizza la modalità “giocare on-line” che permette ai giocatori una vera e propria collaborazione. Quanto poi alla dipendenza ed alle psicopatologie indotte troppo facilmente si dimentica che ogni attività umana, ludica e non, può degenerare e che il gioco diventa “pericoloso”, ed in ogni epoca lo è divenuto, quando l’attività in questione diviene il contenitore di psicopatologie individuali o di gruppo già in essere o fortemente latenti

E ormai tempo che la psicologia professionale si occupi di videogiochi né più né meno di quanto in generale si occupa di attività mediatiche e culturali (TV, Cinema, Editoria, Teatro etc.). Abbiamo insomma a che fare con un settore che a tutto tondo può dirsi ormai inserito nel panorama della cultura contemporanea.
Con i suoi 18 milioni di videogiocatori di età superiore ai 14 anni ( nota 1 ) (9 milioni dei quali di età compresa tra i 25 ed i 44 anni), con 605 milioni di euro di fatturato nel 2004 e 13,5 milioni di pezzi software venduti, il fenomeno videogiochi si impone ormai all’attenzione dello psicologo sociale, del clinico, dello studioso dell’apprendimento e della comunicazione. Luogo intellettuale ed emotivo di sperimentazione, di creazione di nuovi linguaggi, di interazione sociale e di esplorazione del mondo, il videogioco sta dimostrandosi punto di congiunzione tra l’arte, la tecnologia, la comunicazione di massa e l’intrattenimento. Risultati sorprendenti ove si consideri che la storia di questa area mediatica non conta ancora 50 anni. E’ infatti il 1958 quando W. A. Higinbotham (Brookhaven National Laboratory) realizza Tennis for Two visualizzato su un oscilloscopio. E Spacewar!, considerato ufficialmente il primo videogame della storia, figlio dello studente del MIT Steve Russell, vede la luce nel 1961. Il contesto nel quale si inserisce il videogioco oscilla tra diversi ambiti, per alcuni versi apparentemente molto distanti tra loro: tecnologia, gioco, narrazione, simulazione, arte. A fianco di un sempre crescente interesse dell’opinione pubblica di diversi paesi del mondo, con contenuti troppo spesso basati più sul sensazionalismo polemico che sulla conoscenza reale delle opere videoludiche, molte discipline stanno apprestandosi ad affrontare il mondo dei videogiochi per studiarne le caratteristiche e le potenzialità.

Già oggi l’uso dei computer e dei Videogiochi nell’educazione e nell’apprendimento, è sempre più frequentemente visto, soprattutto negli Stati Uniti, come utile integrazione dell’attività didattica. L’uso dei Videogiochi, più precisamente delle simulazioni, è stato adottato con enorme successo da alcuni reparti militari statunitensi, per condurre esercitazioni con le stesse caratteristiche delle operazioni reali, senza lo svantaggio dei rischi ad esse correlate. Ancora oggi la critica che buona parte della cultura (assai spesso molto stereotipata sul tema) pedagogica, sociologica e psicologica rivolge al mondo dei videogiochi è centrata sugli effetti che tali attività avrebbero sui ragazzi. In sintesi da più parti si sostiene che molti giochi indurrebbero comportamenti aggressivi e violenti nei giovani e promuoverebbero atteggiamenti individualistici oltre a creare dipendenza talvolta patologica. Tuttavia non emergono correlazioni significative tra videogiochi e comportamenti socialmente scorretti ( nota 2 ). Inoltre il gioco può essere visto come strumento di socializzazione, poiché soprattutto nei giochi strategici (che ad oggi coinvolgono nel nostro paese 1,8 milioni di videogiocatori), si utilizza la modalità “giocare on-line” che permette ai giocatori una vera e propria collaborazione e induce, pena la sconfitta, l’espressione delle abilità socio-comunicative di ogni giocatore anche ad un certo livello (talvolta vengono create delle vere e proprie comunità di gioco con linguaggi propri che permettono ai giovani giocatori anche una florida espressione di idee al di fuori della microcultura sociale e familiare di appartenenza). Quanto poi alla dipendenza ed alle psicopatologie indotte, spesso citate a sproposito ma certo esistenti, troppo facilmente si dimentica che ogni attività umana, ludica e non, può degenerare e che il gioco diventa “pericoloso”, ed in ogni epoca lo è divenuto, quando l’attività in questione diviene il contenitore di psicopatologie individuali o di gruppo già in essere o fortemente latenti. Basterebbe pensare a fenomeni come mobbing, bullismo, gioco d’azzardo, e tanti altri ed ancor più gravi esempi si potrebbero portare, per comprendere come luoghi di lavoro, di studio, di divertimento possano trasformarsi in veri e propri “inferni”, pericolosi per la stessa sopravvivenza.

I gruppi, si sa (e la società è un grande gruppo) hanno tra le loro esigenze quella di collocare “il male” altrove, all’esterno. Hanno bisogno del capro espiatorio e lo trovano facilmente nel nuovo, nel diverso, nello sconosciuto. Si tratta di una funzione che ha i suoi aspetti positivi. “Tifa” per la conservazione, invita alla prudenza, mette al riparo da troppo facili entusiasmi. Ma gli intellettuali, i ricercatori, i professionisti, hanno invece, come singoli e come comunità, il compito di esplorare, di indagare, di conoscere nel dettaglio. E tale compito diventa ineludibile quando un fenomeno socioculturale assume dimensioni quali quelli di cui qui stiamo trattando.
Come può dunque la psicologia professionale rapportarsi al fenomeno videogiochi? A mio avviso i campi di intervento di indagine e di ricerca sono attualmente i seguenti:
• Area di ricerca sull’apprendimento
• Area di ricerca sulla socializzazione
• Area di ricerca clinica
• Area di interfaccia sociale

Area di ricerca sull’apprendimento:
E’ sufficiente osservare ciò che avviene naturalmente, senza alcuna strategia preordinata, per rendersi conto delle potenzialità dei videogiochi nel campo dell’apprendimento: i nostri figli, ormai anche quelli piccolissimi, di età prescolare imparano i primi rudimenti di informatica, di inglese (e talvolta di italiano) proprio attraverso le prime esperienze con i videogiochi. E’ noto del resto che ad esempio la psicologia di orientamento comportamentistico ha messo a punto sistemi (pensiamo al biofeedback o all’e-learning di matrice comportamentista) che molto da vicino somigliano a certo tipo di videogiochi (quelli che stimolano i riflessi, le abilità di riconoscimento etc.).
La sfida del futuro sarà quella di creare dei nuovi modelli di apprendimento che seducano i ragazzi rendendo l’apprendimento più divertente e permettendo anche a coloro che non sono molto motivati a studiare con i vecchi sistemi di poter trovare nuove vie. Ma non solo, dovremo cercare di capire in quali ambiti, quali aree di studio, possano essere meglio apprese sul piano cognitivo, mnemonico, di organizzazione spazio temporale utilizzando strategicamente il mezzo dei videogiochi. Non sarei per nulla stupito se a seguito di accurate ricerche emergesse che alcune materie o parte di esse possono essere meglio insegnate con l’ausilio di videogiochi piuttosto che con la didattica tradizionale.

Area di ricerca sulla socializzazione:
Sembrerà paradossale, soprattutto a chi non abbia molta dimestichezza con i videogiochi, sentire parlare di tali attività quali pratiche positive per i processi di socializzazione. Eppure non solo alcuni videogiochi propongono interazioni con personaggi gestiti dal computer che si comportano secondo la scala delle motivazioni di Maslow (dunque hanno bisogni primari ma anche più sofisticati, vogliono essere accuditi, sono permalosi, si arrabbiano possono essere sedotti o seducenti, insomma rappresentano la gamma delle emozioni umane e dunque educano all’interazione sociale) ma i videogiochi on line vanno oltre, propongono autentici processi di socializzazione. Unmilioneottocentomila italiani videogiocano on line. Si tratta di un dato molto significativo. Ed attorno ai videogiochi on line sorgono vere e proprie comunità reali, centrate all’origine su interessi comuni e specifici ma che presto si generalizzano. E nascono così meeting, incontri, amicizie amori, insomma, esperienze di vita. Molto interessante anche la dinamica di gruppo che in tali comunità si instaura, i conflitti, la gestione dell’aggressività, i temi della leadership e del potere, le fantasie portanti o, per dirla con Bion gli “assunti di base” nei quali il gruppo si trova imbrigliato o attraverso i quali il gruppo cammina verso la sua maturazione. Credo che molto presto l’approfondimento di tutte queste tematiche potrà portare ad una nuova disciplina, la “Psicologia delle comunità virtuali” per la quale già da ora sarebbe assai utile un primo manuale.

Area di ricerca clinica:
Soprattutto i videogiochi di ultima generazione si stanno dimostrando efficacissimi come proiettivi. E’ molto facile cioè, per i ragazzi immedesimarsi in un personaggio e farlo agire, metterlo in situazioni tal quali quelle da lui sperate, fantasticate, effettivamente vissute. Oggi la possibilità di gioco on line offre anche, ad un ipotetico operatore, la possibilità di interagire e dunque di passare messaggi. Appare dunque, anche da queste semplici riflessioni, intuitivamente evidente a chiunque la potenzialità psicodiagnostica e psicoterapeutica che lo strumento offre. Già in una prima esplorazione effettuata un paio di anni fa in un ospedale pediatrico ( nota 3 ) tali potenzialità emergevano con chiarezza. Del resto ad ogni psicologo clinico è nota l’importanza dell’osservazione del gioco e dell’interazione attraverso il gioco nei processi valutativi e terapeutici di bambini e preadolescenti.
E’ pur vero che l’ambito clinico è di estrema delicatezza. Richiede ricerca, procedure, protocolli, validazioni, una strada insomma tutta ancora da esplorare ma che, sono convinto, se percorsa con convinzione e dedicandoci le necessarie risorse, potrebbe essere molto promettente.

Area di interfaccia sociale:
E veniamo all’ultimo settore nel quale la psicologia professionale potrebbe portare un utile contributo. La società vuole conoscere, sapere in modo semplice cosa mette in mano ai propri figli, se deve preoccuparsi, quali emozioni può suscitare in un ragazzo un determinato tipo di videogioco, se è adatto alla sua età e così via. Il problema è stato sentito sia dai Governi che dagli stessi produttori di videogiochi e, da un paio di anni a questa parte è stato adottato un sistema (PEGI) a livello europeo, teso a dare all’utente il minimo di informazioni indispensabili sul videogioco che acquista. Il sistema PEGI è costituito da cinque loghi, che definiscono l’idoneità del prodotto per classi d’età e sei immagini che descrivono il contenuto del prodotto. Esso fornisce una classificazione che non dipende dalla difficoltà tecnica o dalla capacità di lettura del giocatore. Il PEGI unisce un’auto-valutazione dell’editore ad un esame critico da parte di un amministratore indipendente per assicurare che la classificazione sia idonea.

La classificazione del sistema PEGI è suddivisa come segue:
Classificazione per età
Classificazione per contenuto
Sicuramente il sistema è valido e molto utile al consumatore ma la psicologia potrebbe autonomamente portare un ulteriore apporto nella direzione positiva del segnalare le potenzialità di alcuni giochi, valorizzandoli non solo nel senso “che non sono nocivi” ma, al contrario definendoli particolarmente utili ad esempio per lo sviluppo di competenze sociali, di apprendimento, etc. Potremmo cioè, e sarebbe un buon servizio per la collettività, spiegare alla società cosa sono i videogiochi, quali i limiti, quali i pericoli, ma anche quali le opportunità educative, di crescita e aiutare l’utente ad orientarsi nella varietà che il mercato propone.

Rolando Ciofi
Segretario generale del MOPI (Movimento Psicologi Indipendenti)
e direttore responsabile della rivista periodica Simposio
rivista di Psicologi e Psicoterapeuti

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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