Il videogioco in Italia tra pregiudizi, ansie e fraintendimenti

La fantasia è tanto più robusta quanto più debole è il raziocinio Giovanbattista Vico (1668 – 1744)

Di cosa parliamo esattamente quando parliamo di videogame? Le risposte possibili sono numerose. Per chi scrive, il videogame rappresenta la più significativa espressione culturale, mediale ed estetica dell’era digitale. Parlare di videogame significa confrontarsi con un insieme di pratiche tecno–sociali di natura (ri)creativa. In questa ottica, la nozione di videogame rimanda necessariamente a game culture, cultura del videogame. Tale cultura consiste in una serie di testi (i videogame in quanto tali), contesti (le interazioni tra il gioco digitale e la società tout court) e pre-testi (le motivazioni che spingono milioni di individui a investire risorse temporali, economiche, cognitive e affettive nei mondi virtuali). Un dato di fatto incontestabile è che il consumo di videogame è in forte espansione sul piano demografico ed economico, ma ciononostante il fenomeno appare ancora sottovalutato, incompreso, se non addirittura temuto. La dimensione del ludus virtuale viene frequentemente connotata dai mass media in termini negativi. La retorica dominante insiste sulla presunta insidiosità del medium. Attraverso i mezzi di informazione, comunicatori, giornalisti e politici attribuiscono al videogioco la capacità di produrre assuefazione, di promuovere valori dissacranti e perfino di istigare alla violenza. Eppure tutte le statistiche mostrano che negli ultimi decenni, l’aumento esponenziale della fruizione videoludica è stato accompagnato da una consistente diminuzione della criminalità giovanile nei paesi economicamente più avanzati.

La demonizzazione del videogame non deve sorprenderci. La storia della popular culture è costellata di episodi analoghi. Romanzi popolari, fumetti, musica rock e hip hop, cinema sono stati accusati di esercitare un’influenza nefasta sulle menti dei più giovani, per quanto la corposa letteratura scientifica sugli effetti dei media non abbia mai prodotto risultati che comprovino al di là di ogni ragionevole dubbio le tesi degli ‘apocalittici’ . Negli ultimi quarant’anni, il videogame è stato bersaglio di critiche feroci, per quanto non siano mancati riconoscimenti importanti. Per esempio, nell’estate del 2005, il New York Times apriva ufficialmente la sezione “Arts” ai videogame che per oltre vent’anni erano rimasti confinati nella rubrica “Technology”. Non si è trattata di una semplice revisione editoriale, ma di una vera e propria promozione culturale. Il fatto che il quotidiano più prestigioso e influente del pianeta abbia riconosciuto al medium digitale pieno valore intellettuale ed artistico – dirottandolo nella sezione dedicata alla letteratura, al cinema e alle arti visive – rappresenta una svolta epocale. Il messaggio è chiaro: oggi il videogame non è una mera innovazione tecnologica, ma una forma espressiva dotata di un proprio statuto.
All’iniziativa del New York Times ha fatto seguito quella della British Academy of Film and Televisions Arts (BAFTA), che nel 2006 ha definito il videogame una “forma di espressione artistica di pari importanza rispetto al cinema e alla televisione”. Analogamente, nel novembre dello stesso anno, il Ministro della Cultura francese, Renaud Donnedieu de Vabres, ha pubblicamente espresso il suo pieno supporto al medium, premiando con i massimi riconoscimenti Shigeru Miyamoto, l’inventore di Super Mario e annunciando una serie di iniziative atte a promuovere l’industria francese del divertimento elettronico, la cui importanza strategica viene considerata primaria per il paese.

Mentre il resto del mondo discuteva dei meriti e delle potenzialità espressive, didattiche, artistiche e commerciali del medium interattivo, l’Italia – con il pieno supporto della Germania – lanciava una nuova crociata contro i videogiochi. L’isteria collettiva causata dall’ennesimo scandalo innescato da un articolo sensazionalistico pubblicato su un settimanale a larga diffusione ha addirittura spinto il Commissario alla Giustizia della Comunità Europea, Franco Frattini, a farsi promotore di una campagna anti-videoludica a livello continentale. Come si spiega questa sorprendente differenza di trattamento tra l’Italia e il resto del mondo?
Le ragioni sono numerose, ma per ragioni di spazio ci limitiamo ad indicarne tre. La prima è che il videogame viene ancora percepito come un medium esotico. L’Italia ha infatti contribuito in modo significativo allo sviluppo di tutte forme di espressione artistica – dalla pittura al cinema, dalla letteratura al teatro. In questo caso, tuttavia, l’apporto del genio italico è ridotto, marginale, per non dire irrelevante. L’Italia consuma molti videogiochi – è infatti il quarto paese per volume di mercato in Europa – ma sembra strutturalmente incapace di produrli. I talenti non mancano, ma lavorano tutti all’estero, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Canada, in Europa. Nell’ambito del game design, la ‘fuga di cervelli’ è particolarmente grave: a tutt’oggi, gli studios italiani si contano sulle dita di una mano e faticano a competere con l’offerta internazionale. Mancano strutture, fondi, idee. Il videogioco, in altre parole, non sembra avere alcun diritto di cittadinanza nel Belpaese. Nato negli Stati Uniti e immediatamente adottato dal Giappone e dagli altri paesi europei, il medium interattivo viene considerato dall’intellighenzia italiana di ogni schieramento e scuola come espressione di una colonizzazione culturale aliena. E gli alieni, com’è noto, incutono timore. Un secondo problema, altrettanto grave, è di natura sociale. A differenza di altri paesi, in Italia il videogame rappresenta un motivo di forte contrasto generazionale: è sintomo di un profondo divario tra giovani e adulti. Stando infatti ai risultati della ricerca presentata nel dicembre del 2006 dall’Istituto IARD su un migliaio di studenti liceali e su circa 800 genitori distribuiti sull’intero territorio nazionale, adulti e adolescenti non videogiocano insieme . I primi hanno scarsa dimestichezza con i videogame. Li hanno conosciuti tardi – intorno ai 29 anni – e la stragrande maggioranza (oltre il 70%) di coloro che hanno tentato di manipolare joypad e mouse ha dichiarato di aver provato un senso di spaesamento.

Gli adulti, in altre parole, non comprendono il fascino esercitato da avatar e poligoni sui più giovani e questa mancanza di comprensione conduce – ancora una volta – alla diffidenza, all’antagonismo, alle contrapposizioni frontali. Non deve allora sorprendere che il videogame, in Italia, sia spesso usato come capro espiatorio per problematiche che spaziano dal malessere giovanile all’alienazione, dalla violenza al lassismo. La diffusione del videogame rappresenta l’alibi perfetto per fenomeni più disparati (e disperati) – la perdurante crisi della scuola italiana, il crescente disimpegno politico, i disturbi alimentari, i sassi gettati dal cavalcavia… Terzo, il videogame è un medium qualitativamente differente da quelli che lo hanno preceduto in quanto ridimensiona fortemente il ruolo dell’autore, trasferendo gran parte delle dinamiche di produzione testuale all’utente, una caratteristica che i critici della vecchia scuola, arroccati sulla nozione di arte come espressione di un’autorialità forte e riconoscibile – il famigerato genio romantico – non riescono nè vogliono accettare. Il videogame è un’arte democratica, vivace ed accessibile, ma i mondi dell’arte tradizionali sono elitari, aristocratici e strutturati su rigide gerarchie. In un contesto socio-culturale omogeneo, tecnofobico e tendezialmente resistente al nuovo, il videogame non può che essere percepito come elemento destabilizzante. Mentri gli adulti non sembrano comprendere le potenzialità del ludus digitale, i giovani hanno da tempo abbracciato il medium. Fino a pochi anni fa era la macchina da presa ad accendere gli entusiasmi degli studenti universitari, che sognavano di emulare Spielberg, Scorsese o Tarantino.

Oggi è il personal computer e la prospettiva di trasformare profondamente lo scenario contemporaneo a entusiasmare gli studenti, a Milano come a San Francisco. I videogame, infatti, rappresentano il terreno di sperimentazione tecnologica, culturale ed estetica più avanzata della nostra società. Si dice che siano ormai diventati parte integrante della cultura di massa. È certamente vero – in alcuni paesi più che in altri, come abbiamo visto. Allo stesso tempo, essi rimangono l’espressione più significativa di un movimento tecno-culturale trasversale. Costituiscono una vera e propria avanguardia. Nel giro di poche decadi, i videogame hanno contribuito a ridefinire l’assetto dei media tradizionali, grazie anche al prorompente sviluppo di internet. Hanno svolto un ruolo determinante nell’evoluzione delle tecnologie informatiche. Hanno inoltre reinventato la nozione stessa di ‘narrazione’: si parla spesso, a sproposito, di videogiochi come ‘cinema interattivo’. Ma i due media, al di là di alcune affinità superficiali, presentano profonde differenze. I videogiochi sono… videogiochi.
Nonostante tutto, c’è chi si ostina a considerarli un mero passatempo infantile. Questa forma di razzismo culturale non può tuttavia fermare l’affermazione sociale della game culture. Per capire un fenomeno così complesso occorre pazienza, apertura mentale, senso critico, equilibrio e curiosità. La partita, in Italia, si preannuncia difficile, ma non impossibile.

Matteo Bittanti
Ricercatore presso la University of California, Berkeley e membro del progetto di ricerca sui videogame dell’Università di Stanford presso lo Stanford Humanities Lab.

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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