Il “tempo” del virtuale

Una moderata attività ludica al computer può aumentare il proprio benessere permettendo di scaricare lo stress, di aumentare la propria rete di socializzazione, di sviluppare determinate abilità psicomotorie e percettive e di stimolare i processi di ragionamento e di apprendimento. Tuttavia quando il tempo trascorso davanti al monitor comincia a compromettere fasce sempre più estese della giornata andando progressivamente a restringere gli spazi dello studio, delle attività sportive e formative allora comincia il pericolo

Parliamo di videogiochi quale forma di intrattenimento computerizzata e dei loro principali fruitori, ragazzi e ragazze. E diciamo subito che sarebbe giusto considerare anche tutte quelle altre forme di intrattenimento virtuale che hanno come punto comune la necessità di interagire attraverso l’interfaccia di un computer. Ci riferiamo ad attività ormai divenute comuni nell’agire quotidiano di molti di noi, come la navigazione in internet, la comunicazione via posta elettronica o nelle cosiddette chat, la partecipazione a forum tematici, e via dicendo. Sono nuove forme di socializzazione che si sono repentinamente imposte de facto nella vita sociale della maggior parte delle persone. E sappiamo che in tal senso vengono via via sempre più coinvolte anche quelle fasce d’età che finora non venivano affatto annoverate fra gli appassionati di computer: i bambini che sempre prima vengono a contatto con i videogiochi e gli anziani che sempre più spesso entrano nella cerchia degli utenti informatici. Statistiche alla mano, comunque, risulta che il fenomeno dell’intrattenimento computerizzato, in termini quantitativi di tempo investito, riguarda principalmente gli adolescenti impegnati con i videogiochi. Sarebbe sleale trascurare gli aspetti positivi che i videogiochi possono produrre: numerosi studi sostengono che una moderata attività ludica al computer non solo non rappresenta alcun pericolo per la salute personale, ma addirittura può diventare un valido espediente per aumentare il proprio benessere permettendo di scaricare lo stress, di aumentare la propria rete di socializzazione, di sviluppare determinate abilità psicomotorie e percettive e di stimolare, infine, i processi di ragionamento e di apprendimento.

Tuttavia quando il tempo trascorso “davanti al computer” comincia sistematicamente a compromettere fasce sempre più estese della giornata andando progressivamente a restringere quegli spazi che negli adolescenti dovrebbero venire impiegati per lo studio, per le attività sportive e formative in genere e non ultima la tradizionale socializzazione diretta (uscire con gli amici, tanto per intenderci), allora i genitori o coloro che hanno la responsabilità dei ragazzi dovrebbero cominciare ad allarmarsi. Gli esperti hanno fissato la soglia ad una sola ora al giorno quale limite massimo da dedicare ai videogame in sicurezza, intervallando peraltro l’attività con brevi e frequenti pause. Ora però sappiamo che spesso i ragazzi impiegano per giocare con il computer quantitativi di tempo che vanno ben oltre tale soglia. Una recente indagine del Centro Studi Minori e Media di Firenze ha messo in luce che un bambino italiano su quattro gioca anche tre ore al giorno sviluppando forme di dipendenza dal computer o di videoabuso come tecnicamente viene chiamato tale fenomeno. Sono i ragazzi, più spesso rispetto alle ragazze, a vivere un determinato stato interno che gli anglosassoni identificano con il termine craving e che esprime un desiderio irresistibile a mettersi a giocare con un particolare videogioco oppure a non riuscire a sospenderlo in tempi ragionevoli; meccanismo che tenderebbe a soggiogare la parte razionale del soggetto rendendolo di fatto schiavo a svolgere l’attività ludica fino all’esaurimento. Interessante notare il tipico profilo di tali sfrenati videogiocatori: sono spesso ragazzi di sesso maschile in età adolescenziale, dotati di una spiccata intelligenza e tuttavia caratterizzati da scadenti risultati scolastici e da problemi familiari o relazionali.

Contestualmente va fatto notare come gli stessi soggetti riescano a cimentarsi nei loro videogiochi preferiti mettendo in atto abilità, impegno e costanza non comuni e dove unitamente all’attivazione di riflessi estremamente allenati si riscontrano un’indomita determinazione al raggiungimento degli obiettivi (la vittoria) e una stupefacente capacità di resistenza allo stress. Resta fuor di dubbio che se tale insieme di caratteristiche comportamentali e cognitive fosse impiegato nel mondo scolastico i risultati sarebbero eccezionalmente elevati! Ma purtroppo si tratta di un circolo vizioso: più il tempo viene impiegato per giocare e più vengono compromesse le attività formative e relazionali con la conseguenza di incorrere in inevitabili fallimenti in ogni contesto, il che spinge il ragazzo a trovare nuovamente una disperata gratificazione laddove gli riesce di avere piena padronanza dell’ambiente circostante, seppur virtuale, il videogioco. È una dipendenza che può essere paragonata a tutti gli effetti ad una droga che viene perseguita dal soggetto tenacemente al fine di trovare pace, soddisfazione, tranquillità interiore fuggendo per più tempo possibile ai morsi persecutori derivanti dai fallimenti della vita reale. Spezzare questa catena non è semplice e il ragazzo da solo difficilmente può farcela in tempi sufficientemente brevi. Né giova a quest’età avere dei genitori che, presi dalla disperazione e dal disorientamento, finiscono ad adottare unicamente schemi comportamentali di rimprovero, punitivi o di rifiuto. A complicare le cose, vi è il fatto che durante l’adolescenza i ragazzi e le ragazze, dovendo maturare una propria identità indipendente, prendono naturalmente le distanze dai genitori rifiutando da questi eventuali proposte di aiuto. Una figura esterna alla famiglia, come uno psicologo o un educatore, viene più facilmente accettata dagli adolescenti riuscendo con maggior probabilità di successo a fornire ai ragazzi gradatamente quegli elementi indispensabili per metterli in grado di affrontare la vita reale e a “mettersi in gioco”.

Albert Bandura, psicologo e uno dei padri del cognitivismo sociale, una fra le più importanti teorie psicologiche dell’apprendimento, ha messo in luce negli anni settanta un concetto chiave nello spiegare i motivi per i quali un individuo si decide ad impegnarsi in determinati compiti a differenza di altri: l’autoefficacia o self-efficacy in inglese. In estrema sintesi, l’autoefficacia può essere descritta come quel processo cognitivo che permette all’individuo di prevedere quale esito otterrà nel cimentarsi in un certo compito: se egli prevederà di riuscirvi con successo, si impegnerà con zelo, altrimenti vi rinuncerà. L’esito di successo aumenta la propria autostima mentre quello di insuccesso la diminuisce. Fondamentale in questo processo è quindi l’idea soggettiva delle proprie capacità di successo o di insuccesso attribuite all’esecuzione di un compito. Ritornando al tema di discussione, il concetto dell’autoefficacia spiegherebbe quei comportamenti di rinuncia per cui ad un certo punto un ragazzo smette di dedicarsi a determinati compiti, come, ad esempio, quello di studiare per prepararsi ad un’interrogazione:  in pratica, vi rinuncia a priori convinto che non ne valga la pena poiché l’esito sarebbe un insuccesso garantito. Perché allora i videogiochi in tali ragazzi non spaventano scoraggiando l’impegno, anzi tutt’altro? Forse perché se si sbaglia non si perde niente e non si ricevono umiliazioni o altre frustrazioni di sorta salvaguardando la propria autostima… Forse perché la difficoltà aumenta progressivamente ed è determinata proprio dal giocatore che in qualunque momento può tornare ad un livello inferiore per esercitarsi di più… Forse perché il metodo di apprendimento è più stimolante ed accattivante in un ambiente in cui la grafica ed i suoni sono coinvolgenti… Non è facile dare una risposta, ma probabilmente i videogiochi hanno sviluppato qualche preziosa strategia che potrebbe essere efficacemente adottata nel campo dell’apprendimento didattico.

 Paolo Falconer
Psicologo
Esperto in problematiche di apprendimento scolastico

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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