A che punto siamo?

Una domanda circola tra gli addetti ai lavori: “possibile che se ne siano accorti solo ora?”. Eppure l’allarme è stato lanciato già molti anni fa, in ritardo rispetto ad altri paesi europei, come ad esempio quelli scandinavi, dove il problema bullismo è oggetto di attenzione a partire dagli anni ’70 e i diritti delle vittime tutelati da precise disposizioni di legge. Nel 1995 in Italia fu realizzata una ricerca nazionale che coinvolse oltre 5000 studenti di scuole elementari e medie di varie regioni italiane. I risultati, pubblicati nel volume “Il bullismo in Italia” (Giunti editore) rivelarono che il 41,6% degli alunni delle classi elementari e il 26% delle medie dichiaravano di avere subito, con una certa frequenza, prepotenze da parte dei loro compagni

L’episodio di bullismo, filmato e diffuso in rete, avvenuto in una scuola di Torino, dove un gruppo di ragazzi insulta e attacca fisicamente un loro compagno di classe affetto da autismo, ha suscitato grande interesse nonché preoccupazione nella pubblica opinione. Quasi tutti i giorni sulla stampa o nei telegiornali vengono ormai riportate notizie di ragazzi protagonisti di violenze verso loro compagni o insegnanti e di atti di vandalismo verso le strutture della scuola. La parola “bullismo” compare in diversi titoli dei quotidiani. Opinionisti ed esperti, spesso dell’ultima ora, si avventurano in interpretazioni del fenomeno, individuandone le cause ora nella scuola, nella famiglia, nella crisi dei valori, e via discorrendo.

Sono un docente universitario di psicologia, conduco ricerche ed interventi nelle scuole sul fenomeno del bullismo da oltre 10 anni e, come tanti altri colleghi, sono rimasto sorpreso dall’attenzione e dal clamore di questi ultimi mesi. Una domanda, forse un po’ risentita, circola tra gli addetti ai lavori: “possibile che se ne siano accorti solo ora?”. Eppure l’allarme è stato lanciato già molti anni fa, e persino in ritardo rispetto ad altri paesi europei, come ad esempio quelli scandinavi, dove il problema bullismo è oggetto di attenzione a partire dagli anni ’70 e i diritti delle vittime tutelati da precise disposizioni di legge.

Nel 1995 in Italia fu realizzata una ricerca nazionale, coordinata dalla prof.ssa Ada Fonzi dell’Università di Firenze, che coinvolse oltre 5000 studenti di scuole elementari e medie di varie regioni italiane. I risultati, pubblicati nel volume “Il bullismo in Italia” (Giunti editore) rivelarono che il 41,6% degli alunni delle classi elementari e il 26% delle medie dichiaravano di avere subito, con una certa frequenza, prepotenze da parte dei loro compagni, e che il 28% degli alunni delle elementari e il 20% delle medie dichiarava di avere fatto prepotenze verso i loro coetanei. La nostra reazione come ricercatori, e prima ancora come cittadini, fu di serio allarme: i bambini italiani risultavano coinvolti nel fenomeno del bullismo in misura quasi doppia rispetto ai loro coetanei di altri paesi europei. Il fenomeno si presentava poi con caratteristiche variegate nelle diverse regioni italiane; ad esempio, nella città di Napoli, si registrava una curiosa, ma non inspiegabile, anomalia: il numero dei “prepotenti” superava quello delle “vittime”.

Quando cominciammo ad occuparci del problema, il termine “bullismo” neanche esisteva nel dizionario italiano e utilizzavamo ancora il corrispettivo inglese “bullying”. I problemi di traduzione nascevano dall’ingombro semantico del termine “bullo” che i dizionari definivano ancora come “simpatico spaccone” mentre l’equivalente “bully” nei dizionari inglesi denotava più nettamente “una persona che usa la propria forza o potere per intimorire o danneggiare una persona più debole”. In questa definizione è condensata l’essenza del fenomeno bullismo che è un tipo di relazione asimmetrica, persistente nel tempo, che infligge sofferenza a chi lo subisce e colloca chi lo pratica in una posizione di dominanza sociale.

In questi dieci anni numerosi ricercatori e professionisti si sono occupati del problema e alcuni sono presenti con i loro contributi in questo numero della rivista. La nostra conoscenza del fenomeno è molto aumentata e possiamo formulare ipotesi più definite sulle possibile strategie di intervento.
Sappiamo, ad esempio, che il fenomeno è diffuso pressoché ovunque e non circoscritto a contesti degradati socialmente (come attestano chiaramente gli ultimi episodi di cronaca), anche se l’ambiente sociale può influire sulle forme che esso assume.

Il bullismo tra ragazzi può manifestarsi fuori ma soprattutto dentro la scuola. Dai risultati della ricerca nazionale a cui si faceva riferimento, oltre il 50% degli episodi di bullismo avvenivano in classe. Gli insegnanti spesso non ne sono a conoscenza ma altre volte assistono senza intervenire: o perché ritengono che la cosa non li riguardi o perché impotenti nel trovare un modo efficace per comunicare con i ragazzi su questi argomenti; può anche accadere, come abbiamo documentato in una ricerca di qualche anno fa che perfino i docenti possano essere vittime di prepotenze da parte dei loro allievi.

Sappiamo che il bullismo coinvolge soggetti di tutte le fasce di età. Perfino tra i bambini dell’asilo possono esistere forme di prevaricazione, insospettabili agli adulti, ma non per questo meno da stigmatizzare. Studi nazionali ed internazionali ci dicono che il bullismo è un fenomeno molto stabile e una volta che ad un alunno viene assegnata l’etichetta di “bullo” o “vittima”, la probabilità che questa gli rimarrà addosso per i successivi anni di scuola è molto elevata. Con quali conseguenze? Purtroppo molto gravi. L’impunità che sovente accompagna le azioni di bullismo rinforza nei protagonisti l’idea che la sopraffazione sia una modalità vincente nelle interazioni sociali e li espone, al tempo stesso, al rischio elevato di trovarsi coinvolti in comportamenti antisociali in adolescenza e persino nell’età adulta. Le vittime, dal canto loro, affronteranno le sfide del loro sviluppo con un basso sentimento di autostima e saranno inclini a sperimentare in età adolescenziale ed adulta sentimenti di tipo depressivo.

Un importante obiettivo dei ricercatori è stato quello di delineare un profilo psicologico del bullo e della vittima. Anche se ogni generalizzazione va accolta con la dovuta cautela, si può affermare che sovente il bullo è un ragazzo fisicamente più grande degli altri, ha un’opinione elevata di sé e giustifica la violenza come modo per risolvere situazioni conflittuali. La vittima è spesso più debole degli altri, ma soprattutto ha un carattere ansioso e manifesta chiaramente all’esterno la propria vulnerabilità, divenendo così un bersaglio ideale per il prevaricatore. Bulli e vittime provengono da famiglie con diverse caratteristiche e sono stati esposti a diversi stili educativi. Nella famiglia del bullo le relazioni tra i membri sono spesso conflittuali ed i genitori tendono ad adottare uno stile educativo incoerente perché permissivo e coercitivo al tempo stesso. Permissivo perché esercitano una scarsa supervisione nei confronti del figlio ma anche coercitivo perché quando assolvono funzioni genitoriali ricorrono a modalità violente ed intrusive. Meno definita è la struttura familiare delle vittime. Alcune ricerche, ma i risultati non trovano tutti concordi, le caratterizzano per uno stile educativo iperprotettivo ed insicuro.

Una delle acquisizioni più importanti degli ultimi anni è che il bullismo non può però essere considerato un fenomeno circoscritto al solo prepotente e alla sua vittima. Nel famoso video incriminato, ciò che ha colpito la maggior parte degli osservatori non è stato solo il “gioco crudele” dei tre ragazzi direttamente coinvolti ma anche il ruolo di una loro compagna che filmava la scena, di altri ragazzi che ridevano sostenendo i più violenti e di altri ancora che si comportavano come nulla stesse accadendo continuando persino a studiare. Il bullismo è, in altri termini, un fenomeno di gruppo dove oltre ai due attori principali sono presenti sulla scena possibili “aiutanti” del bullo, i suoi “sostenitori” che ridono alle sue azioni e lo incitano, “esterni” cioè ragazzi che sembrano indifferenti e per nulla coinvolti su quanto accade attorno a loro. Un altro personaggio, spesso in “cerca di attore” è il “difensore della vittima”. Perché nessuno o pochi prendono le sue parti? Forse perché si teme di essere assimilati a lui. Forse perché ci hanno sempre insegnato a farci i fatti nostri. Forse perché si ha paura del potere che il bullo ha nei confronti della classe. Forse perché non c’è una reale condanna nei confronti del bullo e dei suoi comportamenti. Ecco allora che il bullismo da fenomeno individuale diviene un fenomeno di gruppo e in ultimo un fenomeno culturale. In una società in cui, di fatto, sono dominanti i valori della sopraffazione e dell’arbitrio del più forte sul più debole, in cui i modelli vincenti rappresentati attraverso i mass media (basti pensare alle risse durante i dibattiti televisivi) sono quelli dell’arroganza e del non rispetto per l’altro, il bullismo trova un suo fertile humus.

Non vi è oggi un’emergenza bullismo. È da tempo che denunciamo la gravità della situazione e la necessità di fronteggiarlo in modo adeguato. Tuttavia un aspetto oggi colpisce più che nel passato ed è, a mio avviso, legato al tema della responsabilità. Quando viene chiesto ai ragazzi che perpetuano atti prevaricanti verso i loro compagni, la risposta più comune è “ma in fondo cosa ho fatto? Era solo uno scherzo!”. Quella stessa mancanza di responsabilità presente nelle dichiarazioni degli allievi del Liceo Parini di Milano che, dopo avere allagato la propria scuola, affermarono di non avere pensato alle conseguenze della loro azione e di essersene resi conto solo dopo il clamore che essa aveva suscitato. Questi meccanismi che un noto psicologo statunitense Albert Bandura ha chiamato di “disimpegno morale” caratterizzano i comportamenti di bullismo quando si tende a sminuire le conseguenze delle proprie azioni (“sono solo scherzi”), a deresponsabilizzarsi (“è tutta la classe che lo prende in giro”) o persino a giustificare l’azione aggressiva nei confronti di presunte provocazioni della vittima (“in fondo se lo meritano”).

I programmi e le strategie di intervento nelle scuole sono oggi numerosi. Sarebbe auspicabile un maggiore coordinamento e una più seria azione di valutazione della loro efficacia. È fondamentale che non vengano delegati ai soli “esperti” ma che coinvolgano attivamente i docenti e tutte le componenti della scuola in attività sia curriculari che extra-curriculari. È fondamentale che coinvolgano attivamente i ragazzi (penso alle varie strategie di peer education) proprio al fine di promuovere attitudini empatiche e prosociali negli stessi e condurli verso un percorso di assunzione di quella responsabilità che essi devono avere verso gli altri e verso la società.

Dario Bacchini
Professore Associato di Psicologia dello Sviluppo
Dipartimento di Psicologia – Seconda Università di Napoli

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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