Bambini che crescono in fretta

A livello internazionale si discute ancora se si debba considerarlo assimilabile alla prostituzione ed al coinvolgimento dei minori nello spaccio di sostanze stupefacenti o nei conflitti armati. Si distingue inoltre tra child labour e child work, indicando con il primo termine lo sfruttamento del minore e con il secondo un’attività che non mette a repentaglio la salute e lo sviluppo del bambino

 

Il fenomeno del lavoro minorile è molto complesso e comprende situazioni diverse l’una dall’altra, tant’è che spesso si ritiene opportuno parlare di lavori minorili al plurale per indicarne le varie tipologie.

A livello internazionale si discute ancora se si debba considerare assimilabile al lavoro minorile la prostituzione ed il coinvolgimento di minori nello spaccio di sostanze stupefacenti o nei conflitti armati. Si distingue tra child labour e child work, indicando con il primo termine lo sfruttamento del minore impiegato in un lavoro all’esterno del nucleo familiare che gli impedisce la frequenza scolastica, con un basso salario o con mansioni pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo psicofisico; il child work, invece, indica un’attività lavorativa solitamente realizzata per la famiglia, che non impedisce la frequenza scolastica e non mette a repentaglio la salute e lo sviluppo del bambino. L’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro, nata ad opera del Trattato di Versailles del 1919 e preposta, in ambito ONU, alla salvaguardia dei diritti fondamentali dei lavoratori) prende in considerazione il lavoro minorile distinguendone le diverse tipologie in base alle conseguenze sui minori ed, in particolare, al fatto che esso impedisca o meno di frequentare la scuola, che obblighi i ragazzi a lasciarla prematuramente o che li costringa a conciliare scuola e lavoro.

Nella definizione di lavoro minorile possono rientrare le attività svolte prima del compimento dell’età minima di ammissione al lavoro stabilita dalle leggi nazionali sulla base di standard internazionali, oppure le attività che mettono a rischio la salute psicofisica del minore, o ancora le peggiori forme di lavoro minorile.

Il fenomeno si differenzia notevolmente nei Paesi del Sud del mondo rispetto a quello dei Paesi occidentali. Una importante diversità riguarda l’età di coinvolgimento dei minori nel lavoro: nel Sud del mondo si tratta di bambini anche in età di scuola primaria, mentre nei Paesi occidentali il lavoro minorile riguarda prevalentemente la fascia d’età che parte dagli undici anni.
Anche i tempi di svolgimento delle attività lavorative sono diversi: i minori occidentali, al contrario di quelli dei Paesi del Sud, riescono per lo più a conciliare il lavoro con la frequenza scolastica.

Il Dipartimento per la Giustizia Minorile ha voluto dare un proprio contributo alla conoscenza del fenomeno svolgendo una piccola indagine presso i servizi della Giustizia Minorile. Nel corso del 2005 sono stati sottoposti ad un questionario che indagava le precedenti esperienze lavorative 116 minori seguiti da quattro istituti penali per i minorenni (Torino, Roma, Catanzaro e Palermo), da quattro comunità per minori (Genova, Bologna, Santa Maria Capua Vetere–CE, Palermo) e da quattro uffici di servizio sociale per i minorenni (Torino, Roma, Catanzaro e Palermo). Inoltre, si è rivolto un questionario anche a 22 operatori dei suddetti servizi.

I minori che hanno partecipato all’indagine avevano un’età compresa tra i 14 ed 20 anni (si fa presente che i servizi della Giustizia Minorile si occupano anche di maggiorenni, fino ai 21 anni, che hanno commesso reati quando erano minorenni). Il 50% del campione aveva 17 anni e nel 93% dei casi si trattava di maschi.
Il 62% era italiano, il 38% straniero. I Paesi di provenienza dei minori stranieri erano: Romania, Albania, Marocco, ex Jugoslavia, Cina, Palestina, Ecuador, Eritrea.
Il 58% dei minori intervistati aveva come titolo di studio il diploma di scuola media, il 24% quello di scuola elementare, il 16% nessun titolo e solo il 2% il diploma di scuola superiore.  Per quanto riguarda l’attività professionale dei genitori, necessaria per inquadrare la tipologia delle famiglie, le madri erano per lo più casalinghe. Tra coloro che lavorano vi erano assistenti agli anziani o ai disabili, collaboratrici domestiche, operaie, commercianti, venditrici ambulanti, parrucchiere, baby-sitter.
Relativamente all’attività professionale dei padri, si trattava prevalentemente di disoccupati oppure di persone che svolgevano professioni per le quali non sono previsti particolari titoli di studio (operai, camionisti, commercianti, artigiani, meccanici, agricoltori, operatori scolastici).

Infatti, nel 37% dei casi i padri non avevano alcun titolo di studio, nel 27% avevano conseguito il diploma di scuola media, nel 19% quello di scuola elementare e solo nel 3% quello di scuola superiore.
La situazione per le madri era similare: il 31% non aveva titolo di studio, il 30% aveva conseguito il diploma di scuola elementare, il 20% quello di scuola media e solo il 2% quello di scuola superiore.

Com’era prevedibile vista la tipologia del campione (ragazzi dell’area penale) le famiglie di provenienza dei minori intervistati sono di livello socio-culturale basso o medio-basso. Passando alla parte centrale dell’indagine, il 21% dei 116 minori intervistati non ha mai lavorato.
Per il restante 79% l’età di inizio della prima attività lavorativa nel 45% dei casi è stata dai 15 anni in poi (età in cui si rientra nella legalità) e nel 55% sotto i 15 anni (il 23% dei minori ha iniziato a lavorare a 14 anni, l’11% a 13, il 9% a 12 ed il 12% sotto i 12 anni).

Il numero di ore di lavoro giornaliere erano per quasi la metà dei minori (46%) otto; nel 32% erano meno di otto (nel 3% tre, nel 10% quattro, nel 5% cinque, nell’8% sei, nel 6% sette) e nell’22% più di otto (nell’8% nove, nell’8% dieci, nel 4% dodici e nel 2% addirittura quattordici).
Tra i tipi di attività svolte prevalgono i lavori di ausilio agli adulti nel campo dell’edilizia, del commercio, dell’artigianato, della meccanica, dell’agricoltura.
Il 45% dei minori ha svolto altre attività successivamente alla prima (si tratta per lo più di attività analoghe a quelle suddette).
Il 78% dei minori che hanno lavorato non ha avuto un regolare contratto.  Alla domanda sulle impressioni sul lavoro svolto e sul tipo di trattamento ricevuto da parte del datore di lavoro, sono state raccolte diverse risposte, di cui molte positive, quali:

1. si trattava di attività svolte nell’ambito familiare, temporanee e non impegnative;
2. il trattamento era ottimo, con rapporti basati sulla comprensione;
3. erano attività di apprendistato temporanee con retribuzione proporzionale all’impegno lavorativo;
4. il trattamento era discreto ed il lavoro interessante;
5. il lavoro era un mezzo per avere denaro per le piccole spese personali ed insegnava qualcosa.

Tra le risposte negative le principali sono state le seguenti:

1. le condizioni igienico-sanitarie erano insufficienti;
2. il lavoro era piacevole ma troppo pesante per un ragazzo;
3. il datore di lavoro era troppo esigente e la paga bassa;
4. il contratto era irregolare e l’esercizio commerciale abusivo.

Quasi tutti gli operatori che hanno compilato il questionario sono venuti a conoscenza di casi di sfruttamento minorile.
Si trattava di attività di apprendistato e/o collaborazione nel settore della ristorazione, del commercio (spesso ambulante), dell’artigianato, dell’edilizia, dell’agricoltura, terziario, in laboratori ed officine.
Alcuni minori erano molto giovani, non vi era un regolare contratto di lavoro, né assicurazione, la paga era bassa ed inadeguata rispetto all’orario svolto (che talvolta impediva l’assolvimento dell’obbligo scolastico), l’attività era faticosa e senza possibilità di crescita professionale, in alcuni casi si svolgeva in ore notturne e, soprattutto per lavori in officine o laboratori, le mansioni erano anche pericolose (saldare ed usare attrezzi pericolosi), con scarse misure di sicurezza e per molte ore al giorno.

Per gli stranieri provenienti dal Maghreb sono emerse situazioni di vita economica familiare molto precarie che inducevano i genitori a mandare molto presto i figli a lavorare per contribuire al sostentamento del nucleo.

L’età dei minori coinvolti indicata dagli operatori varia: la maggior parte indicano la fascia d’età tra i 14 ed i 18 anni, ma alcuni parlano anche di bambini di 10-13 anni.
Lo stato socio-economico dei ragazzi era molto basso, basso o medio-basso.
Alcuni frequentavano ancora la scuola, anche se in maniera saltuaria, la maggioranza l’aveva abbandonata.
Le famiglie erano solitamente coscienti dello sfruttamento cui veniva sottoposto il minore.
Talvolta le istituzioni sono intervenute per interrompere lo sfruttamento o i minori hanno interrotto spontaneamente l’attività, ma in altri casi non vi è stato alcun intervento istituzionale.

Quando vi è stato il suddetto intervento istituzionale, esso si è rivolto a diversi aspetti: segnalazione al Tribunale per i Minorenni, richiesta di collaborazione ai genitori per favorire la frequenza scolastica, intervento presso i datori di lavoro per regolarizzare la posizione del minore, promozione di percorsi formativi e lavorativi alternativi, inserimento in attività di scolarizzazione o in borse lavoro.

Spesso, però, sono stati gli stessi minori a chiedere agli operatori di non intervenire per evitare la perdita del lavoro. Da quanto evidenziato dai dati raccolti si può concludere sostenendo che lo sfruttamento del lavoro minorile è un fenomeno tuttora esistente nel nostro Paese, con un elevato livello di “sommerso” e con oggettive difficoltà di studio.

Giovanna Gioffré
Responsabile del Servizio 1°, promozione dei diritti dei minori
Fabrizio Brauzzi

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