L’importante è non interrompere i processi educativi

La detenzione in istituti penali rappresenta il mantenimento dello status quo, un modo cioè per rimandare o non affrontare nel modo giusto la questione dei giovani stranieri, i nuovi reietti della società multietnica, quasi non fossero soggetti di diritto e perciò inesistenti o invisibili

    Nel variegato universo di stranieri presenti nelle strutture penali minorili, autentici crocevia di problematicità esistenziali, le categorie di minore straniero che s’incontrano sono molto diverse: se nei servizi di accoglienza le utenze straniere cambiano, a seconda del paese di provenienza e dello status della migrazione, il substrato motivazionale che genera il comportamento delinquenziale, sebbene si colori di varie sfaccettature, va spesso inquadrato nella commissione di quelli che si possono chiamare “reati di sopravvivenza” sia in senso meramente economico, sia soprattutto in chiave identitaria.

Il carcere, così come le strutture penali minorili in genere, non possono rappresentare la “discarica” dei problemi sociali, sebbene, in virtù della detenzione paradossalmente si  attivano, per questi minori, le prime significative esperienze di supporto sociale. Quello che difficilmente si trova in un contesto societario divenuto multietnico, nella giustizia minorile, invece, si sta cominciando a profilare, in modo convinto ed efficace, sotto il profilo normativo e socio-educativo. Qui si comincia infatti a considerare la fattibilità di alcuni progetti educativi individualizzati, per via della nuova filosofia normativa introdotta dal DPR 448/88 e soprattutto dal successivo DL 272/89, con cui il nuovo processo penale minorile focalizza l’obiettivo “di non interrompere i processi educativi in atto”, laddove questi ultimi ci siano.

Dal concetto retributivo della pena, il male va ricompensato solo con altrettanto male ovvero il colpevole deve essere punito solo col carcere, si passa, così, al concetto trattamentale e di reinserimento del reo. Ma per consentire tale risultato pedagogico, le azioni e gli interventi posti in essere nei confronti dei minorenni sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria Minorile, devono organizzarsi attraverso una progettualità di tipo dinamico-reticolare che sta comportando la sinergia tra il Dipartimento della Giustizia Minorile e le altre realtà istituzionali e socio-economiche esistenti sull’intero territorio nazionale.

 

   

Se dunque è possibile una nuova attenzione verso i processi educativi o il coinvolgimento in progetti di inserimento socio-lavorativo, nella giustizia minorile va posto come maggior nodo problematico quello della diversità culturale. La diversità culturale di origine deve infatti essere occasione per riflettere, considerando che, allo stato attuale, i progetti di rieducazione lasciano completamente insoluti i bisogni formativi degli stranieri sul piano identitario. La detenzione in istituti penali rappresenta il mantenimento dello status quo, un modo cioè per rimandare o non affrontare nel modo giusto la questione dei giovani stranieri, i nuovi reietti della società multietnica, quasi non fossero soggetti di diritto e perciò inesistenti o invisibili.

Il binomio detenzione-rieducazione, tuttavia, appare a molti ormai come inscindibile, anche se corre l’obbligo della “sicurezza sociale” che comporta  inevitabilmente una maggiore attenzione verso la prima esigenza (detenzione) a discapito della seconda (rieducazione). Il trattamento educativo, che va posto in termini di mediazione e di continua comunicazione, può raggiunger determinati risultati solo attraverso l’introiezione di modelli concettualizzati, fondati su saperi vissuti e investigati. In altri termini, l’attenzione verso queste nuove utenze straniere deve rientrare nel quadro generale di quella sfida della diversità culturale che sta trasformando le nostre società e che, nello specifico del problema di cui ci occupiamo, non può comportare trattamenti di scarto, di indifferenza verso la diversità, di negligenza verso minori completamente a rischio sia allorché trattenuti, sia allorché, scontata la pena, tornano in libertà col rischio dell’espulsione, qualora non riescano a integrarsi nel tessuto socio-produttivo.

La carcerazione, al di là delle istanze finalizzate alla “riparazione” del reato commesso, genera alcuni vissuti particolari, innanzitutto in relazione a se stessi. I sentimenti, espressi e non, giocano un ruolo estremamente delicato e nella fattispecie la solitudine e la nostalgia di casa, l’assenza delle persone care, aumentano lo status di precarietà, il rischio di perdita di senso, di speranza, di fiducia: talvolta si assiste alla rinuncia del proprio habitus etnico a vantaggio di  un’adesione totale e incondizionata alla cultura assimilante dell’altro.

In relazione al gruppo, invece, si può affermare che non c’è luogo più meticcio di un istituto penale minorile o di una comunità ministeriale. La cella, la stanza, i luoghi di coabitazione e di convivenza diventano, in questo senso, degli autentici laboratori interculturali, in cui necessariamente i minori devono interagire a partire dalle tantissime forme di etnicizzazione, a volte manifestalmente esasperate, a volte  inadeguate. Insomma i ragazzi reclusi devono fare i conti con una convivenza coatta che li obbliga o alla conoscenza o alla rigidità. Ecco allora che l’operatore, in quanto agente di cambiamento, accompagnatore del processo di maturazione,  deve tentare di avviare processi di comprensione empatica e, da qui, tentare di favorire incontri formali e colloquiali, tra minori, su tematiche e pratiche che riescano intanto a stemperare gli eccessi stressanti della chiusura, dell’incomprensione, della continua conflittualità.

La mediazione è importantissima con i minori stranieri, anche se per molti versi occorre relazionarsi con essi esattamente come si fa con qualunque altro adolescente, pensando insieme “cose” da adolescenti, proponendo percorsi riabilitativi senza moralismi, promuovendo e divulgando progetti di qualità, quali potrebbero essere gli affidi familiari o la formazione di tutori specializzati in materia minorile, persone di riferimento valide che facciano da ponte per l’integrazione. Mediare, dunque, per aiutare a reinserirsi in una possibile realtà sociale con progetti educativi che vadano oltre le strutture penitenziarie: qui occorre  il confronto diretto fra tutte le istituzioni titolate al trattamento dei minori stranieri  al fine di esplicitarne disparità operative e avviare un confronto che faciliti l’integrazione.

L’alternativa che, altrimenti, si presenta per il futuro multiculturale non ammette sconti o deroghe: o si investe in dialogo, fiducia, comprensione e collaborazione o prenderanno sempre più piede, nel nostro paese, il disagio, l’esclusione, la marginalità, il conflitto.

Ciò che realmente si può fare per questi giovani utenti, la cui situazione è aggravata da un determinismo etnicizzato, deve avviarsi a partire dall’ammissione del disagio che lo straniero, il diverso, il “colorato” avverte. Gli sfondi educativi sono necessari per disinnescare quelle false attribuzioni che impediscono di decentrarsi, emotivamente e cognitivamente, da tutto ciò che in quell’etnia scorgiamo: e ciò è necessario se l’altro appare realmente per quello che è, piuttosto che rappresentazione angosciante di tutte le paure provenienti dalle sfide contemporanee. La sfida del terzo millennio non la si potrà controbilanciare se non si investe sul capitale umano, sulle risorse conoscitive, e se il territorio rimane indifferente sull’effettiva integrazione multiculturale.

Quando i confini geo-politici erano ben definiti, le barriere culturali e linguistiche tenevano fuori gli stranieri da una patria monoculturale e monolinguistica, e l’autoctonia costituiva la sola legge del paese che con la diversità non aveva nessuna forma di frequentazione, se non in termini di ospitalità, oppure di esportazione migratoria verso altri paesi europei o d’oltreocerano più ricchi di noi.

L’esperienza di lavoro educativo con gli stranieri, nella giustizia minorile multietnica, radica nell’esperienza umana e professionale il fascino entusiasmante e provocatorio dell’alterità, a prescindere dal colore della pelle o dalla ricchezza del portafoglio o dalla regione di appartenenza o dalla fede professata o dal reato commesso. Il contatto con la diversità può diventare allora affascinante e stimolante se si percepisce che la devianza minorile è una diversità tutta da scoprire e da capire, una diversità che pone molti più interrogativi rispetto agli interrogativi teorici di una semplice educazione alla diversità, così come proposta nelle scuole, nelle agenzie educative, nei luoghi di dibattito sul multiculturalismo, sulla facile o difficile integrazione, in società che trasformano costantemente l’insieme dei significati di cui ogni individuo ha bisogno per attribuire un senso alla propria vita e che di certo non può trovare restando ancorato all’idea obsoleta delle società di una volta.

 

Serenella Pesarin
direttore generale del Dipartimento Giustizia Minorile

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