Madri che uccidono

Le riflessioni dello psicologo

Le ragioni che spingono le madri all’omicidio dei figli
e a tentare a loro volta il suicidio. Una drammatica, acuta conclusione, di situazioni, di sofferenze, di violenze psicologiche, di incomprensioni, di abbandoni, di solitudini, di miserie che durano chissà da quanto tempo

Soffro, lo capite che soffro,
patimenti che strappano le urla.
Maledetti figli di una madre detestabile,
possiate crepare, voi e vostro padre,
e che questa casa precipiti in rovina…
Ahi!
Perché il fulmine non mi incenerisce,
perché continuo a vivere?
Come vorrei lasciare questo mondo odioso,
dissolvermi nella morte.
(Euripide-MEDEA)

Nel tentare di balbettare qualcosa sulle storie di madri che uccidono i figli, il pensiero automaticamente, direi banalmente, va alla tragedia di Euripide la quale, tuttavia, ci illumina più del miglior psicologo su cosa si agita dentro una persona in preda a questi tremendi sentimenti.
Con gran pudore possiamo definirli di sofferenza, rabbia, distruttività, desiderio di morte, passione, amore.
Sì, ad un’attenta lettura delle storie che hanno recentemente riempito le pagine dei giornali, possiamo dire che è proprio questo potente sentimento amoroso ad aver spinto queste madri ad uccidere i propri figli e a tentare di darsi la morte (vedi il caso della donna di Merano).

La psichiatria classica definisce questi casi “suicidio allargato”. In altri termini la persona considera il mondo così brutto e fonte di tanti mali che, per amore, vuol sottrarre il figlio ad inevitabili sofferenze, uccidendolo.
Spesso ci si trova di fronte anche a persone che non si sentono all’altezza del compito di essere “buone madri” (“madre detestabile” – dice di sé  Medea), per cui preferiscono morire insieme ai figli.
In realtà le situazioni sono varie e molto complesse: ogni storia è diversa dall’altra, per cui non ci si può abbandonare a facili giudizi, invocando sempre la malattia psichiatrica come causa oppure il luogo comune del “folle ed improvviso gesto”.

E’ scientificamente provato che il “raptus” omicida non esiste.
E’ la drammatica acuta conclusione, invece, di situazioni di sofferenze, di violenze psicologiche, di incomprensioni, di abbandoni, di solitudini, di miserie che durano chissà da quanto tempo.
Dobbiamo, porci, allora, alcune domande, non tanto sul “perché la donna l’abbia fatto”, ma che vita conducesse, quale famiglia e quanti amici avesse, se avesse ricevuto un qualche aiuto nei momenti difficoltà oppure avesse dovuto gestirsi la sua sofferenza nella più completa solitudine.
Infatti, dice Euripide, attraverso la stessa Medea: “Ma non si può giudicare in modo obiettivo quando ci si sofferma all’apparenza: bisogna conoscere l’animo di una persona a fondo e non odiarla a prima vista, senza che ci abbia inflitto alcun torto”.

Viviamo, invece in una società in cui l’apparenza è al primo posto. Disabituati come siamo ad andare al di là della superficie, facilmente valutiamo e critichiamo secondo stereotipi e pregiudizi, etichettando facilmente gesti e comportamenti non omologati come “strani”, “bizzarri”, “pericolosi”.
Le “medee” contemporanee ci servono perché assumono su di sé tutti i sentimenti negativi ed inconfessabili, che noi possiamo provare in momenti difficili e drammatici della nostra vita. La funzione della tragedia greca era proprio questa: rappresentare, rendere espliciti l’oscuro e il malvagio che, in quanto uomini, sono in noi, proiettandoli sulla scena teatrale.
Così, le madri che uccidono, se considerate “matte”, “altre” da noi, assolvono allo stesso compito: ci difendono dall’angoscia di coglierci capaci di sentimenti di distruttività nei confronti anche dei nostri figli.
Cambia solo la scena:non più il teatro, ma i giornali, le televisioni, i miserabili talk- show.

Con una differenza: nei moderni mezzi di comunicazione manca il “coro”, che accompagnava lo spettatore verso la catarsi, per cui spesso ci troviamo di fronte solo a spettacoli trash da cui è espulso il sentimento che dovrebbe caratterizzaci come esseri appartenenti al genere umano: la pietà.
Già, la pietà, non nell’accezione della commiserazione, ma della pietas, che si traduce in italiano come rispetto, amore, affetto, tenerezza, benevolenza.
Dovremmo innanzi tutto rispettare il dolore di queste donne, cercando di avvicinarci con delicatezza all’immensità della loro tragedia. Scopriremmo, forse, che il loro senso di inadeguatezza non è riconducibile solo a cause psichiatriche, ma che nasce e si sviluppa in contesti socialmente degradati, in condizioni di emarginazione e di isolamento.

Qualcuno si è meravigliato che una donna immigrata che ha abbandonato il figlio appena partorito nel cassonetto, non abbia chiesto aiuto. Si è saputo che era clandestina ed aveva paura di essere scoperta ed espulsa dall’Italia.
Di fronte ad un gesto che fa inorridire le menti benpensanti, dobbiamo incominciare a chiederci se anche noi abbiamo le nostre responsabilità.
Forse le abbiamo, se stiamo costruendo un mondo in cui i legami sociali sono sempre più deboli, in cui la competizione ci rende sempre più privi di sensibilità verso i più deboli, in cui, in nome della sicurezza, scompare la tolleranza.

In un mondo simile, solo chi ha risorse sufficienti (economiche, psicologiche, sociali) resiste e forse va avanti. Gli altri, più fragili, sono destinati a fermarsi o a perire.
Per arrestare una deriva che potrebbe condurci rapidamente alla barbarie, diventa, allora, indispensabile, sviluppare reti sociali che possano sostenere le persone in difficoltà, rafforzare quelle esistenti, non delegando i problemi solo ai tecnici “psy”, ma valorizzando soprattutto i legami naturali (gli amici, i parenti, i gruppi informali).
Anche i servizi pubblici, però, devono fare la loro parte.

Non possono essere “servizi di attesa della domanda”, che offrono prestazioni, cioè, solo a chi esplicitamente le richiede”. E’ necessario che fisicamente gli operatori escano dalle loro stanze, vadano incontro alle persone nei luoghi di vita e di lavoro: i più deboli, infatti, possono essere definiti “soggetti al disotto del bisogno”, incapaci, per mancanza di risorse personali, di esprimere e formulare chiaramente le proprie esigenze. Non accedono, pertanto, spontaneamente, ai servizi.

In un momento in cui tutti si sentono in grado di dispensare consigli sui buoni comportamenti, con vari mezzi (dalla stampa, alla televisione, ai servizi di consulenza psicologica), sta emergendo la faccia brutale di chi vuole che” i diversi” siano nuovamente espulsi dalle relazioni sociali ed isolati.
Questo processo accentua drammaticamente il senso di solitudine delle persone e dei gruppi vulnerabili, favorendo il disagio fino alla comparsa del disturbo psichico.
E’ necessario favorire, pertanto, collegamenti, sinergie, collaborazioni, progetti comuni, per promuovere l’inclusione sociale. 

Bisogna avere consapevolezza che tali comportamenti virtuosi sono “controcorrente”, si oppongono, cioè, ad una organizzazione omologata della società e dei sevizi che tende a separare le competenze tecniche, ad irrigidire gli operatori nei ruoli professionali.
Un assetto sociale di questo tipo non potrà mai comprendere la persona nella sua interezza, poiché tenderà a sezionarla in bisogni separati e a fornire risposte scarsamente integrate e, alla fine, non efficaci.
Sarà, dunque, un assetto “imbecille” (imbecillus = debole, privo di forze).
“Quando agli imbecilli proponi idee nuove e avvedute, ti ritengono un essere futile, non un individuo assennato: e se vieni ritenuto superiore a chi passa per variamente colto, darai solo fastidio, in città.
È una sorte toccata purtroppo a me.” (Euripide, Medea).
E’ necessario, allora, favorendo ascolto e partecipazione, non essere “imbecilli”.

 

Rocco Canosa
psichiatra, presidente nazionale di
Psichiatria Democratica e direttore generale
dell’Azienda Sanitaria Locale Bari 2

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