Le responsabilità dei media

L’attenzione alla vita, in ogni fase del suo sviluppo, credo sia la caratteristica di ogni società che abbia la presunzione di definirsi civile. La cura della vita impone di non giudicare, ma di capire: senza l’attenzione alle “ragioni dell’altro”, non vi potrà mai essere accoglienza.

Quello che colpisce sul piano informativo è spesso la sgradevole patina di sensazionalismo che fa da velo alla ricerca della cause di simili vicende, dei fenomeni sociali e di conseguenti percorsi personali che possono portare a scelte estreme, come l’abbandono di neonati, in condizioni di pericolo o, peggio, all’infanticidio.

C’è a volte una ricorrente amnesia che sembra colpire i mezzi di comunicazione, che nella spirale di una informazione sempre più veloce ed   emozionale, rimuove la domanda del “perché”, delle cause, dei motivi, dei contesti e rischia di creare nuovi mostri, nuovi “altri da noi” incomprensibili e paurosi.

D’altro canto la povertà – quella che le statistiche chiamano assoluta e che non muta quantitativamente, in Italia, da anni – è “multidimensionale”, rende cioè non solo consumatori insoddisfatti, ma anche   studenti difficoltosi, persone con minori esperienze e relazioni, espone a rischi sociali e di salute più alti, a minori e più problematici rapporti con le strutture sociali e sanitarie.

Un tempo la metafora di questi percorsi erano le grandi e anonime periferie urbane, che hanno visto negli anni ’90 sforzi di risanamento urbanistico, di progettazione sociale, a fronte di una sostanziale assenza  di coerenti politiche sociali   che prevenissero o contrastassero le povertà.

Le periferie che negli anni ‘70 –  secondo le analisi coeve di Pier Paolo Pasolini – erano i luoghi in cui si verificava il “genocidio” delle culture popolari e delle conseguenti relazioni sociali tradizionali del nostro paese, sostituite da una pseudo cultura veicolata inconsapevolmente – dalle élites del tempo – attraverso la televisione. E in questo genocidio veniva coinvolta la famiglia popolare, sia sul piano culturale che su quello sociale:

–        famiglie in cui veniva meno la figura del marito unico percettore  di reddito  sul quale si fondava l’incompleto welfare italiano, limitato agli aspetti previdenziali e sanitari;

–        in cui i tempi di vita, venivano sempre più condizionati dal lavoro e si  dissolvevano dentro ad una società dal tempo sfasato, soprattutto per chi ha lavori meno retribuiti e meno qualificati,

–        in cui le culture e le etiche di riferimento –  le tradizionali etiche di reciprocità mutuate da contesti locali di provenienza, rinforzate per lo più dalle matrici cattoliche e marxiste – si indebolivano fino a scomparire nelle ultime generazioni, dove la profezia pasoliniana del genocidio culturale si è compiuta in silenzio.

Quelle culture e quelle tradizioni non erano prive di aspetti negativi, ma avevano una vocazione al contenimento del disagio, una capacità di tenuta anche di fronte alle difficoltà, esistenziali ed economiche.

Paolo Calza Bini che ha affermato in proposito:

“La complessità della vita metropolitana ha

1) distrutto le reti di socialità e solidarietà delle comunità abitative una volta fondate sulla residenzialità, la convivenza di vicinato la comunanza diusi, costumi, valori;

2) ridotto la consistenza dei legami forti insiti nelle reti parentali e amicali, restringendo i tempi e le possibilità del loro esplicarsi;

3) reso quasi insignificanti ai fini della solidarietà sociale (specie in caso di disagio e degrado sociale) i legami deboli derivanti dai rapporti occasionali di conoscenza.[1]

Il sospetto è che – nonostante tutto – Corviale a Roma, Secondigliano a Napoli, Ponte Lambro a Milano, rimangono ancora degli incubatori di disagio, senza che efficaci politiche di contrasto ne abbiano cambiato il destino e, oggi, in assenza di anticorpi endogeni, in grado di sviluppare solidarietà che rappresentino un qualche tipo di presidio.

A ciò si sono aggiunti gli insediamenti abusivi – nuove baraccopoli o utilizzo abusivo di aree di dismissioni industriali – ove immigrazione – regolare o irregolare – e disagio nostrano si mischiano o meno, rappresentando altri incubatori di marginalità estrema.  Fenomeni che gli anni 80-90 avevano ridotto o azzerato si ripresentano oggi in maniera drammatica.

In queste situazioni si possono creare contesti, per condizionamenti sociali e condizioni familiari, ove si concentrano   gruppi sociali più deboli e meno tutelati nei quali spesso si verificano i casi di maternità indesiderate o desiderate, ma non compatibili con le proprie condizioni di vita: in particolare pensiamo a madri bambine, persone con forme di disturbi mentali, donne con dipendenze o donne immigrate  regolari e non.

Il dato che rimane incontrovertibile è che il nostro paese non ha sviluppato politiche di contrasto alla povertà e non ha innestato su queste, politiche sociali mirate ai minori.

Se i presidi sociali ordinari – la famiglia e le solidarietà parentali e di vicinato – vengono meno, se le reti sociali si frantumano, è necessario – non opzionale – un intervento pubblico denso, non tanto sul piano della gestione, ma della promozione di risposte.

Questo non è avvenuto nel nostro paese, né sul piano della costruzione di un coerente sistema di protezione sociale, né sul piano della creazione di servizi a supporto della genitorialità. Il poco che si è fatto è insufficiente:

–        Le politiche di detassazione – per la cosiddetta “trappola dell’incapienza”- non beneficiano le famiglie povere.

–        L’assenza di interventi economici attivi in caso di mancanza di reddito  – che si chiamino Rmi o Rui non fa differenza – a livello nazionale, produce una disparità grave a livello regionale e la mancata copertura di bisogni sociali per molte famiglie.

–        L’erogazione di servizi – a livello locale – è un quadro ancora più nebuloso, che conferma  le disuguaglianze su base territoriale.

Ovviamente sarebbe semplicistico pensare che tutto questo risolva un tema complesso come quello che stiamo affrontando, ma d’altro canto è altrettanto semplicistico pensare il contrario. Se non vi sono le condizioni materiali e relazionali minime, come costruire sistemi di valori condivisi?

Sul piano dell’esito delle politiche sociali del nostro paese, noi stiamo riflettendo oggi a partire dal riconoscimento di un fallimento. Fallimento nella trasmissione di valori fondamentali delle famiglie sul rispetto della vita che nasce,   di una idea di società solidale che si fa carico delle difficoltà di chi ho accanto,   delle politiche di tutela della genitorialità, fallimento, infinie, di una presenza di strutture territoriali socio-sanitarie in grado di prevenire, almeno, le situazioni estreme.

Non mi scandalizza partire da una consapevole scelta di arretramento su una linea di resistenza – per il tempo presente – ad un disagio crescente. Ma questo rappresenta come un ultimo baluardo rispetto al quale non ci può essere ulteriore arretramento.

Perché tutelare un minore è un risultato straordinario, farlo nascere in condizioni di sicurezza è un successo rispetto all’infanticidio o all’abbandono. Ma solo rispetto all’infanticidio e all’abbandono.

Il dato corrente è che alcune regioni del nostro paese non hanno strutture di presidio sociale tali da garantire standard adeguati: questa consapevolezza fu uno dei risultati che la sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento, di alcuni anni fa, segnalava. I Livelli essenziali di assistenza previsti dalla legge di riforma dei servizi sociali (328/2000) non sono stati ancora definiti. In alcune regioni in cui non c’è RMI regionale, per la povertà non c’è molto di più dei pacchi viveri. Come si fa a parlare di politiche sociali in queste condizioni?

Sarebbe come parlare di politiche di contrasto al terrorismo, disponendo – al più – delle sole polizie municipali.

E non credo che si possa rispondere: ma questo è un problema più complesso della povertà tradizionale, perché alla maggiore complessità si risponde ispessendo la risposta sociale, non ignorandola.

Le Caritas diocesane tentano di dare il loro contributo, con la promozione   di una rete di Centri di ascolto sia parrocchiali (in almeno un terzo delle oltre ventimila parrocchie italiane) sia diocesani. A livello diocesano sono 220 presidi territoriali che forniscono servizi – a cittadini residenti e immigrati – di ascolto, accompagnamento alle risorse territoriali, risposte primarie, nel tentativo di suscitare risposte comunitarie e di connettere i bisogni alle reti esistenti di risposte.

D’altro canto si sta operando nella promozione di un volontariato familiare di prossimità, capace di essere attento e disponibile ad intervenire nelle situazioni di disagio familiare, sempre nella prospettiva della connessione – laddove possibile – alla rete dei servizi territoriali, garantendo relazioni, sostegno, accompagnamento, ricostruendo uno stile tradizionale di solidarietà di vicinato.


[1] Paolo Calza Bini, 2001

Francesco Marisco
Vicedirettore di Caritas Italia

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