Tre Paesi non riconosciuti. Tranne che dal Cremlino

Transnistria, Abkhazia e Ossezia del Sud: Moldavia e Georgia sono contrarie alla loro indipendenza, ma Mosca sovvenziona questi “staterelli” che rappresentano altrettanti avamposti russi nel cuore dell’Europa e del Caucaso

Il monumento ai caduti della guerra combattuta in Transnistria all’inizio degli anni ‘90.

Il monumento ai caduti della guerra combattuta in Transnistria all’inizio degli anni ‘90.

Transnistria a ovest, a due passi dall’Unione Europea (anzi, in pieno territorio UE, non appena la Moldavia si aggiungerà ai “28”); Abkhazia e Ossezia del Sud ben più ad est, nel centro della regione caucasica ed a non molte centinaia di chilometri dai confini iraniani. Zone distanti, che potrebbero non avere nessun comune denominatore geografico, ma unite da una sottile linea politica tracciata da Mosca e che si inseriscono come pedine in uno scacchiere internazionale ben delineato. Tre territori o – perché no? – tre staterelli, per i quali il diminutivo non è usato a caso, che rappresentano altrettanti motivi di divisione, scontro, anacronistica – ma, paradossalmente, di nuovo attuale – guerra fredda.
Altrettante questioni delicate, congelate, nell’ultimo anno, per le note vicissitudini dell’Ucraina orientale, ma che rischiano, in futuro, di ripiombare sulle prime pagine dei giornali.

STATI FANTASMA
Il motivo è presto spiegato: Transnistria, Abkhazia ed Ossezia del Sud non sono riconosciute da nessuna diplomazia internazionale, se non dalla Russia e, per quanto riguarda i due “paesini” caucasici, da Nicaragua, Venezuela e qualche microstaterello oceanico. Fine. Eppure, nonostante il mancato beneplacito dell’Onu, si tratta di altrettante strutture istituzionali che, de facto, risultano tali. Con un loro ordinamento, una loro moneta e, persino, un loro esercito. E confini quasi regolari, pattugliati e controllati. Tutti i crismi, insomma, per fungere da Stato sovrano tout court. Eppure, lo sono solo per Mosca, o quasi.

Uno dei cartelloni propagandistici di Tiraspol, capitale transnistriana, dove il tempo sembra essersi fermato a qualche decennio fa.

Uno dei cartelloni propagandistici di Tiraspol, capitale transnistriana, dove il tempo sembra essersi fermato a qualche decennio fa.

TIRASPOL
La Moldavia considera tuttora la Transnistria come un proprio territorio e non ci sono motivi per ritenere che Chisinau possa procedere, nel breve periodo, ad una rinuncia formale. Subito dopo la caduta dell’Urss ed il distacco moldavo dal mondo sovietico, Tiraspol, la capitale transnistriana, fino ad allora parte integrante dei confini sovietici all’interno della Repubblica socialista di Moldavia, optò per lo scisma. Mosca, in maniera più o meno velata, ne organizzò la ribellione, per motivi logistico-strategici e perché, nella regione, una parte consistente di popolazione era (ed è) di origine russa ed ucraina. Si combatté per qualche mese, morirono quasi mille persone, si giunse ad una tregua, più sostanziale che formale. Sul campo non vinse nessuno, ma politicamente il successo fu tutto (o quasi) degli amici di Mosca. Da allora, da un ventennio abbondante, sono, di fatto, autonomi. Con tutti i problemi del caso: corruzione alle stelle, un sistema economico ballerino, una Democrazia sui generis che solamente qualche anno fa si è aperta a libere elezioni. Soprattutto, prima del new deal di fine 2011, la Transnistria è stata per due decenni il regno dell’illegalità, del contrabbando, del traffico di armi e di qualsiasi altra attività fuori dai canoni. Una sorta di far west senza regole, in cui Mosca, da lontano, ha continuato a dettare le regole ed a finanziare in vari modi un territorio che, di fatto, con la Moldavia non ha più nessun rapporto commerciale.
Per la Russia, Tiraspol e dintorni, mezzo milione di abitanti con poche fabbriche ed un po’ di agricoltura, rappresentano un avamposto imprescindibile nel cuore dell’Europa. Se il Donbass e l’Ucraina meridionale, e magari persino Odessa, un giorno dovessero cadere (definitivamente) nelle mani dei separatisti filorussi, il Cremlino potrebbe davvero contare su un corridoio quasi diretto fra “casa propria” e la (ex) regione moldava. Un’autostrada fin dentro il futuro centro nevralgico dell’Unione Europea. Ipotesi forse fantasiosa, al momento, ma, visti gli scenari, non proprio irreale, da non escludere del tutto.
L’elezione, tre anni fa, del giovane presidente Yevgeny Shevchuk, riuscito ad interrompere, dopo un voto finalmente regolare, il regno ventennale dell’incontrastato padre padrone del “Paese”, Igor Smirnov, proprietario di mezza Transnistria e a dir poco chiacchierato per quanto riguarda i suoi traffici non proprio limpidissimi, ha ridato un minimo di credibilità a questo territorio. Ma i contestuali accadimenti internazionali, così geograficamente vicini a questa regione posta al confine fra mondo latino e mondo slavo, rendono incerto il futuro al di là (e al di qua) del fiume Nistro.

TSKHINVALI
Altro capitolo, altrettanto complesso, è quello che concerne Ossezia (del Sud) ed Abkhazia. La prima, divisa con un Nord parte integrante della Repubblica russa, è stata teatro, nel 2008, di una guerra lampo, tanto veloce, quanto cruenta, fra l’esercito di Mosca e quello georgiano.
Almeno 1.600 furono i civili uccisi in questo conflitto e 150.000 le persone costrette ad abbandonare le proprie abitazioni.
Fu Tbilisi ad aprire il fronte contro la “propria” Repubblica secessionista e la sua città principe, Tskhinvali, ma la reazione del Cremlino in difesa della popolazione russa (maggioritaria) presente in Ossezia fu rapida e massiccia. Le truppe georgiane furono presto sbaragliate e l’esercito di Mosca arrivò fino alle porte della capitale, prima di ritirarsi, dopo numerose pressioni internazionali, sulle posizioni precedenti a questa blitz-krieg.
L’improvvida escalation, mal gestita dal premier della Georgia Saakashvili, che, probabilmente, si attendeva un aiuto più massiccio dagli Americani e dall’Alleanza Atlantica, portò, paradossalmente, ad un’indipendenza pressoché sostanziale dell’Ossezia, riconosciuta, però, solo da Mosca.

SUKHUMI
Nell’ultimo ventennio, in Abkhazia, se non altro non si è combattuto. La regione si trova in una posizione quasi bucolica, sul Mar Nero meridionale, dove un milione di Russi ogni anno trascorre le vacanze. L’economia se la cava grazie al turismo e la capitale Sukhumi ha festeggiato di recente i vent’anni di un’indipendenza che continua a richiedere a gran voce, ma che, formalmente, sarà difficilmente raggiungibile.
Il negoziato di Ginevra è in stallo, le parti appaiono tuttora distanti, e Mosca continua a mantenere sul territorio oltre 3.000 soldati, che certamente non facilitano la strada della pace. Ma neanche Tbilisi ha fatto passi in avanti per normalizzare i rapporti, e l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti verso il grande alleato georgiano, con tutti gli interessi reciproci che ne derivano, non contribuisce a rasserenare il clima con la Russia. L’Europa – e non è una novità – rimane alla finestra, in attesa di sviluppi.

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