Arte e potere: da Augusto a Stalin, da Roma a Mosca

di Lorenzo De Vecchi

“Caos anziché musica”: così la Pravda, lo storico giornale sovietico, stroncò la fragile psiche di un giovanissimo Šostakovic

Un giovanissimo Sostakovic.

Un giovanissimo Sostakovic.

Mi è capitato, poche settimane fa, di parlare ad alcune classi liceali di un famoso libro di storia romana, in particolare di storia augustea. Il titolo è “The Roman Revolution”, l’autore Ronald Syme: chi si occupa di queste cose, anche da dilettante, lo conosce. Non solo perché si tratta di uno dei più grandi storici dell’antichità del secolo scorso, ma anche perché il libro è una pietra miliare nella storia della sfortuna della figura del “princeps”. Dopo Syme, e ancora oggi, sembra difficile prescindere da una constatazione, peraltro ovvia – e, in verità, avanzata, ora più ora meno, da sempre – circa la conquista del potere assoluto da parte di Augusto: la scia di sangue che essa ha lasciato è lunga come poche altre. Perché si trattava di un impero immenso, perché la tarda Repubblica era ormai un carnaio e perché le proscrizioni e le lotte civili erano quasi una norma da decenni.

PARAGONI
Ora, rispetto alla specifica valutazione dell’operato di colui che per duemila anni è stato un faro del potere politico occidentale, è evidente che nel secondo dopoguerra pesano anche considerazioni di ordine generale. Giacché non solo la storia è maestra di vita, come affermava Cicerone, ma la vita stessa è maestra di storia, come commentò uno storico russo all’inaugurazione dell’Anno Accademico 1920/1921 a Mosca: solo dall’ottobre del ’17 sappiamo cos’è davvero una rivoluzione, e con questo parametro andranno valutate tutte le presunte rivoluzioni del passato (ovvio che per la storiografia sovietica quella romana non fu affatto una rivoluzione: gli schiavi c’erano prima di Augusto e dopo; identici i sistemi di produzione, ergo nessuna rivoluzione). Ebbene, nel secondo dopoguerra pesa, è ovvio, l’esperienza dei totalitarismi del secolo breve. Parlare con ammirazione di un uomo che fu pur sempre l’autore di uno dei più impressionanti accentramenti di potere della storia non era comodo, e forse non lo è ancora oggi. Comunque, non va di moda.
“The Roman Revolution” uscì sei giorni dopo l’invasione della Polonia. Non ci fu chi non vide, da subito, l’analogia che gli Italiani stessi riconoscevano tra i due imperi: quello augusteo e quello fascista. Augusto il tiranno, il sanguinario, il rivoluzionario, scriveva Syme. E tutti a vedere nel grande libro la denuncia dell’autocrazia nazi-fascista. Cosa che il libro, in realtà, non è.
Ma su questo non è il caso di soffermarsi. Diremo, piuttosto, che nel 1936, subito dopo che Syme concepì il libro, Stalin emanò la Costituzione. Ad un conservatore inglese, Stalin doveva certo fare più impressione che Mussolini, e l’idea di una Costituzione emanata in un regime simile doveva far sorridere chi si concentrava, nei propri studi romani, sull’abisso che separa l’apparire e l’essere in uno Stato autocratico.

DEGENERAZIONE
Il 1936 era un anno speciale anche rispetto all’analogia, che ha assillato l’immaginazione nonché la storiografia dell’epoca, tra la propaganda delle autocrazie antiche e quella dei totalitarismi moderni. Anche questo tema non è del tutto sopito e restano studi in cui si sente il disagio nella discussione sul rapporto tra potere e cultura nell’antichità, con lo spettro del Novecento a fare da filtro ineliminabile. Il 1936, dunque, è l’anno in cui sulla Pravda del 28 gennaio esce un articolo celeberrimo dal titolo eloquente: “Caos anziché musica”. Erano i mesi in cui, in Germania, l’operazione Arte degenerata guidata da Goebbels avanzava inesorabile verso la mostra monacense del ’37, intitolata, appunto, “Entartete Kunst”. Ogni Tedesco vi poteva vedere a quale caos arrivasse l’arte ebraico-bolscevica. I bolscevichi, da parte loro, non erano da meno. A parte l’opposizione ideologica, il caos, per Hitler e per Stalin, aveva la stessa natura.
Quel famigerato numero della Pravda fece a pezzi la già fragile psiche di uno dei più grandi musicisti del secolo. Il giovanissimo Šostakovič aveva conquistato la Russia e il mondo con la sua Prima Sinfonia e, subito dopo, con “Il Naso”, opera tratta dal racconto di Gogol. Opera che, nel giro di un paio d’anni, da miracolo di una Nazione rinvigorita e davvero progressista anche nell’arte diventò, come affermò un recensore prono al nuovo clima politico, “una bomba a mano scagliata da un anarchico”. Il giovane fenomeno della musica russa scricchiolò, ma restò in piedi, tanto che, nel ’34, mise in scena un altro capolavoro che andava ben oltre l’audacia de “Il Naso”. “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk” voleva essere una cruda, ma popolare, realistica rappresentazione della Russia prerivoluzionaria. E “realismo” stava diventando la nuova parola d’ordine del regime. Ma nel ’34 Ždanov non era ancora succeduto a Kirov come responsabile della cultura nell’URSS e la linea del partito forse non era ancora così netta su ciò che doveva essere “realismo”: a Leningrado e a Mosca l’opera suscitò un entusiasmo travolgente. La storia di Katerina, martire e insieme colpevole di una violenza senza via d’uscita, è atroce, e la musica che l’avvolgeva era una descrizione parossistica di una realtà degenerata, cruda. Era questo il “realismo” che voleva il partito? I nemici di Šostakovič, gli inetti e gli invidiosi lavoravano ai fianchi, facendo di lui il vero nemico della grande arte popolare russa. Stalin, attentissimo a ciò che accadeva nei teatri (come Augusto, come ogni capo assoluto), una sera andò al Bol’šoj. Due anni erano passati dal trionfo popolare, “sovietico” della “Lady”.
Dopo quella sera, l’opera divenne, una volta per tutte, caos anziché musica.

L’EMINENZA
Chi scrisse quell’articolo, tra i più celebri del ventesimo secolo?
Nessuno disse: Stalin. Egli lavorava come un’eminenza grigia. Non firmava articoli, li emanava come per un sortilegio. Non si capiva cosa pensasse, spesso nemmeno cosa esattamente facesse, ma dietro una presa di posizione netta c’era sempre la sua ombra, che perciò acquistava un’autorità quasi soprannaturale. Šostakovič, di fatto, non si riprese più. Edulcorò libretto e musica, ripropose l’opera ribattezzandola “Katerina Izmajlova” e si guardò bene da altre imprese così esplicitamente sovversive. Se protesta, anticonformismo, urlo ci furono, vennero mascherati da arazzi musicali popolareggianti o da quel sarcasmo sottile che da sempre era la sua arma più affilata. Ma lui non godette mai di un istante di pace finché Stalin visse, e nemmeno dopo se la passò molto meglio.

I CONFRONTI
Syme non guardava con simpatia ai poeti augustei. Virgilio è intoccabile perfino per lui, ma l’antipatia per Orazio, nel suo primo grande libro, è evidente: grande tecnico del verso, ma poeta cortigiano, pronto a celebrare chi gli offre una villa in campagna. A lui piaceva Ovidio, il relegato a Tomi, il poeta contro cui si era scatenata l’ira dell’autocrate invecchiato e rancoroso. Eppure, Orazio visse con Mecenate, il numero due del regime, una delle più belle e più serie amicizie che la storia ricordi. Virgilio non scrisse una “Augusteide”, ma un poema in cui ai vinti non si danno meno attenzioni che ai vincitori. Properzio continuò a cantare l’amore e Tibullo non scrisse, di augusteo, nemmeno un verso. Se la forma è una parte del contenuto, di un uomo come di un regime, allora il tatto del “princeps” nella sua politica culturale, l’aver avvicinato a sé artisti epicurei ed ex repubblicani, l’aver accolto, forse con il sorriso, i rifiuti da parte dei suoi poeti di cantare il regime in un grande poema, fanno di quella politica culturale qualcosa di assai distante da tutto ciò che il secolo scorso ha visto. Augusto ebbe la fortuna di capitare nel momento in cui l’arte romana giungeva al suo culmine naturale, ma i suoi poeti, a loro volta, ebbero la fortuna di un patronato insuperabile. Fare troppi confronti storici, s’intende, è rischioso ed improprio: diverse le condizioni sociali, diverso il significato e i mezzi della propaganda. Ma che non si possa fare di Augusto e Mecenate gli antecedenti di Stalin e Ždanov, lo possiamo dire, e anche Syme, di certo, lo sapeva.

Lorenzo De Vecchi
Insegnante e giornalista, dottore di ricerca in Letteratura latina

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