Vagabondi in lotta con le leggi? Antitziganismo e diritto nel 2014

Alessandro Simoni

Dicerìe e pregiudizi influenzano da sempre la percezione dei Rom, condizionandone il peso politico e la condizione giuridica. I meccanismi di allarme non mutano, ma i principi dello Stato di diritto vanno ribaditi e accolti anche in questa situazione

La condizione dei Rom in Italia non è – come ogni nodo sociale – questione affrontabile solo in termini di leggi e di diritto. Al tempo stesso, non è possibile impostare una politica seria senza una riflessione attenta e onesta circa il modo in cui lo Stato di diritto concretamente opera quando si confronta con persone percepite come “Rom”, “zingari”, “nomadi”. Cercheremo, quindi, di mettere a fuoco, in una prospettiva giuridica, i punti essenziali di una vicenda complessa. Da una parte, i Rom subiscono gli effetti di un antitziganismo saldamente radicato nella società e semplicemente confermato nell’operare delle sue istituzioni; dall’altra, scontano debolezze più generali della macchina della giustizia, secondo modalità comuni ad altri soggetti socialmente deboli.
Va subito premesso che si tratta di fenomeni tutt’altro che nuovi, con un “filo rosso” facilmente individuabile che ci riconduce sino alle radici dell’ordinamento giuridico dell’Italia postunitaria. Proprio quest’anno ricorre, ad esempio, il centenario della pubblicazione di un libro, opera di un giudice meridionale, Alfredo Capobianco, dal titolo Il problema di una gente vagabonda in lotta con le leggi. Per Capobianco, epigono del positivismo criminologico, la “natura” e la storia degli “zingari” erano fatti essenzialmente di vagabondaggio e criminalità. Le poche qualità loro riconosciute non erano sufficienti a stemperare il giudizio finale di estrema pericolosità sociale. Pensando di fare cosa utile alla Patria, egli propone, di conseguenza, tutta una serie di misure, quali respingimenti alla frontiera, espulsioni, schedature, norme penali specifiche, utili ad “apportare alla società il vantaggio supremo di liberarsi di siffatti malfattori pericolosi”. Le proposte di Capobianco (che si ispiravano a quanto effettivamente realizzato all’epoca in altri Paesi) non ebbero successo per vari fattori, tra cui l’impostazione liberale di una parte della cultura giuridica italiana dell’epoca. Il suo lavoro, tuttavia, non venne smentito nelle sue premesse di fondo, ossia che gli “zingari” costituirebbero un gruppo umano ben definito, omogeneo nei tratti sociali e culturali, caratterizzato da una tendenza a violare le leggi, conducendo, nella migliore delle ipotesi, una vita parassitaria nei confronti della società. Anche chi ritenne inutilmente vessatorie le misure proposte non smentì minimamente la descrizione di fondo. D’altronde, negli stessi anni, Hans Gross, famoso criminologo austriaco, pubblicava un manuale di polizia giudiziaria, tradotto con grande successo anche in Italiano, con un intero capitolo dedicato agli “zingari”, dai toni durissimi: “lo zingaro è dominato da cupidigia insaziabile”, “tutte le idee che hanno condotto ciascun popolo incivilito ai più alti destini sono affatto sconosciute allo zingaro… non troviamo in lui che amore all’ozio, voracità da animale, amor sensuale e un po’ di vanità”.
Non abbiamo dubbi che lo stereotipo dello “zingaro criminale” di Capobianco e Gross corrisponda senza varianti di rilievo a quello tuttora dominante (in versioni esplicite o inespresse) tra molti attori politici nazionali e locali, e in un gran numero di rappresentanti delle istituzioni giudiziarie e di polizia. In particolare, rimane ferma la “denazionalizzazione” e “decontestualizzazione” degli “zingari”. Nei media, e in molti documenti ufficiali, l’etichetta di Rom o “nomade” attribuita ad una persona sembra liberare dall’obbligo di ricordare anche solo la cittadinanza di cui questa è titolare, per non parlare di dati di contesto che sarebbero molto più significativi dell’identità etnica. Banalmente, per un poliziotto, un giudice, o un assistente sociale, sapere che una persona viene dalla periferia degradata di una certa città è almeno altrettanto utile a comprendere la sua vita che sapere che (forse) parla una variante di Romanes…
Rimangono, poi, assolutamente simili a quelli di un secolo fa i meccanismi di attivazione dell’allarme sociale e della repressione di polizia. L’isteria antizingara di inizio ‘900 fu in gran parte correlata ad una mobilità dall’Europa centrale e orientale di particolari gruppi rom decisamente “coloriti” in un contesto in cui, nell’Europa occidentale, le strutture di polizia e i controlli delle frontiere andavano modernizzandosi. Oggi sarebbe facile dimostrare che la centralità politica dei dibattiti sui “nomadi” è scarsamente correlata all’effettiva dimensione della presenza rom e, paradossalmente, neanche all’entità e alla gravità dell’attività criminale concretamente svolta da alcuni Rom. Sarebbe facile mostrare che molte delle iniziative di “diritto e ordine” degli ultimi anni, a livello nazionale e locale, dalle “ordinanze emergenza nomadi” della maggioranza di centrodestra del 2008 alle varie microcampagne di polizia locale di vario colore politico, si sono messe in moto quando specifici gruppi rom hanno posto in atto pratiche ad alta visibilità (ad esempio, accattonaggio nei centri storici delle grandi città) o sono entrati nell’occhio dei media.
Il problema, crediamo, non è tanto la persistenza di un discorso esplicitamente antitzigano nel contesto politico e mediatico, e il suo sfruttamento a fini elettorali o di semplice catalizzazione del consenso ricorrendo ad uno stereotipo antico. Proprio l’antichità dello stereotipo e il suo radicamento, “trasversale” rispetto agli schieramenti politici, fanno sì che ogni intervento debba considerare l’antitziganismo come persistente o latente, almeno nel medio termine. Paradossalmente, il recente sfruttamento politico dell’antitziganismo ha creato una reazione con un aumento dell’interesse per il tema della marginalità rom, l’intervento di organizzazioni internazionali e altre novità potenzialmente in grado di mutare i termini del dibattito futuro in Italia.
Crediamo, però, che alcune delle ombre meno accettabili rimangano proprio sotto l’aspetto del funzionamento dello Stato di diritto, i cui tratti dovrebbero essere, nel nostro Paese, radicalmente mutati dall’epoca in cui Capobianco scriveva.
Un primo elemento che colpisce è l’impermeabilità delle istituzioni ad ogni sguardo sulla condizione rom che porti nuovi elementi utili a porre in discussione il proprio operato.
Due esempi particolarmente rivelatori sono gli accuratissimi studi pubblicati tra il 2008 e il 2010 da due antropologhe, Sabrina Tosi Cambini e Carlotta Saletti Salza, a partire, rispettivamente, dalle vicende in cui donne rom erano accusate di rapimento di minori e dai procedimenti in cui minori rom venivano sottratti ai genitori a fini di adozione. Si tratta di studi che rimangono, a mio parere, impressionanti come dimostrazione della pervasività del pregiudizio antitzigano e delle sue ricadute in termini di concreta prevaricazione istituzionale. Di fronte ad una giurisdizione, apparire come Rom sembra, decisamente, essere uno dei peggiori biglietti da visita possibili. Mentre, in altri Paesi, indagini su vicende simili hanno provocato l’istituzione di commissioni governative d’inchiesta o altre reazioni “forti”, in Italia l’impatto è stato concretamente pari a zero, e il “nuovo” dibattito politico si ammanta di generiche riflessioni sulla marginalità sociale, spesso rifacendosi, tra l’altro, a fonti d’informazione di bassissima qualità scientifica. Per quanto riguarda la mitologia della “zingara rapitrice”, il confronto con un secolo addietro ha addirittura aspetti di amara comicità, considerato che un illustrissimo ”antitzigano scientifico” come il citato Hans Gross, già nel 1905 scriveva che “andava invece smentita la credenza che vuole gli zingari rapitori di bambini”. Un secondo elemento è costituito dalla trasformazione delle forme in cui la pressione delle autorità viene esercitata quando l’opinione pubblica preme per la riduzione della presenza di persone “visibilmente rom”. Le politiche di “sicurezza urbana” e “lotta al degrado” ciclicamente promosse dalle amministrazioni di alcune delle maggiori città italiane comprendono frequentemente attività che, sotto differenti vesti formali, perseguono chiaramente l’obiettivo dell’allontanamento di chi è percepito come “Rom”, “zingaro”, “nomade”. Se un antitziganismo più o meno esplicito non è certamente una novità per chi è abituato a osservare la politica locale, gli strumenti giuridici utilizzati hanno subito un’evoluzione significativa, indotta anche dall’aumentata presenza tra i “gruppi bersaglio” di cittadini comunitari (ad esempio, Rumeni) verso i quali non è possibile avviare con facilità azioni basate sullo status di immigrato irregolare.
Ora sembra assumano prevalenza strategie di “bassa visibilità” e debole base giuridica, basate, da un lato, su una crescente pressione di polizia esercitata nel territorio cittadino, dunque su una prassi, e dall’altro sull’assunto – peraltro corretto alla prova dei fatti – che i destinatari non abbiano le risorse economiche e culturali per azionare i rimedi previsti dall’ordinamento. Notevole è, ad esempio, la vicenda delle norme che sanzionavano la mendicità, le quali, uscite dalla porta dopo essere state espunte dal codice penale dalla Corte Costituzionale e dal legislatore, sono rientrate dalla finestra sotto forma di disposizioni municipali di dubbia validità quando alcuni Rom hanno cominciato a praticare un accattonaggio altamente visibile. Sull’opportunità e sulla possibilità legale di vietare l’accattonaggio degli adulti vi possono essere posizioni differenziate, ma mantenere il tutto in un “limbo giuridico” non fa che facilitare l’ambiguità e l’abuso minuto.
Richiedere che nei confronti dei Rom lo Stato di diritto sia effettivamente tale non è, va ricordato, una tesi con un particolare colore politico, e dovrebbe, anzi, essere fatta propria anche da chi richiede un atteggiamento severo verso specifiche attività illecite eventualmente praticate con maggiore frequenza da particolari gruppi rom. Le modalità di intervento possono essere svariate. Gli stessi rappresentanti delle comunità rom italiane sembrano mostrare consapevolezza dell’importanza di una riflessione sullo Stato di diritto, come dimostrato dal recente deposito di una proposta di legge di iniziativa popolare sul riconoscimento di Rom e Sinti come minoranza.
Nei confronti dei Rom, lo Stato di diritto è stato sostituito da una sua caricatura. Ciò non dovrebbe, tuttavia, interessare solo ai Rom, salvo, ovviamente, non si voglia fornire ulteriori elementi alle tesi di chi ritiene che l’antitziganismo sia uno degli elementi costitutivi degli Stati moderni.

Alessandro Simoni
Professore associato presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche, Università degli Studi di Firenze

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