Tra stereotipi e indagini: il caso del Friuli Venezia Giulia

di Fabio Pasquariello

Le parole zingaro e ladro vengono spesso associate: niente di più sbagliato. È tuttavia doveroso fare luce anche su questo aspetto, evidenziando le caratteristiche di furti e truffe commessi sul territorio regionale

Prima di presentare un quadro compatibilmente puntuale del vasto “cosmo” sociale afferente le comunità di etnia “rom” nel Friuli Venezia Giulia, sono doverose due precisazioni.
La prima è di carattere deontologico. Nell’attività di tutti gli investigatori che si occupano costantemente di tematiche criminali risulta chiaro che l’assioma zingaro=ladro non può e non deve essere accettato. Esistono, infatti, numerosissimi appartenenti alle famiglie nomadi che si dedicano in modo indefesso alle attività lavorative, riportando rispettabili successi economici e sociali e che fanno dell’onestà e delle buone regole del vivere sociale la loro quotidianità.
La seconda è di carattere narrativo. Quanto viene riportato nel presente intervento è frutto di vicende processuali divenute di carattere pubblico proprio nel loro fondamento individuabile nell’incipit di ogni sentenza dei Tribunali di vario grado della Repubblica Italiana: “Nel nome del Popolo Italiano…”
Per tali motivi, risulta opportuno ricorrere al chiarimento che quanto attiene alla criminalità nomade viene posto in essere, al pari di ogni etnia o razza od aggregazione di persone fisiche, da singoli soggetti, inquisiti ed, eventualmente, condannati per i loro reati, non dovendo in alcun modo essere coinvolta la provenienza etnica, sociale o religiosa.
Entrando nel cuore della problematica, risulta opportuno inquadrare i “nostri” soggetti nelle loro abitudini criminali. Allo stato, i protagonisti di queste vicende processuali si possono chiaramente distinguere in due tipologie di persone dedite a delinquere: i ladri e i truffatori.
Come in molti dialetti italiani, l’azione del rubare trova nella lingua rom e nel suo vocabolario non scritto una parola specifica: “cioli”, prendere, portare via.
Nel corso del tempo, i nomadi dediti a delinquere sono passati dal furto di galline (non posso omettere di riferire un simpatico episodio di cui sono stato protagonista. Una domenica mattina, quand’ero ancora giovanissimo, venni chiamato ad eseguire un sopralluogo a causa di un furto in una villetta posta alla periferia di Udine. Nel corso della notte erano state rubate due galline. Bastò ripercorrere il sentierino creato dai passi di ignoti in un campo limitrofo alla villetta per giungere ad una roulotte di nomadi. Il capo famiglia era già stato più volte arrestato e lo sarebbe stato ancora negli anni seguenti. Con la massima ospitalità, mi invitarono a bere un caffè con loro, con il chiaro intento di non farmi controllare più approfonditamente. Bevuto il caffè – rigorosamente alla turca – feci comunque il giro della roulotte.
Notata la finestrella della cucina aperta, guardai all’interno: una capiente pentola borbottava simpaticamente. Al suo interno, due grasse galline ben spellate in cottura…) all’esplosione dei bancomat all’esterno degli istituti bancari. All’interno di questi due estremi, vi sono una miriade di tipologie di furti. Il più semplice è eseguito all’esterno dei cimiteri, dove le anziane vedove lasciano la borsetta incustodita. Il più tecnologicamente complesso avviene con un inibitore di segnali: opportunamente manovrato, non permette la chiusura delle autovetture appena parcheggiate. Il conducente distratto non si accorge del mancato suono del cicalino.
Ancora, i furti con scalata: i più abili si arrampicano sulle grondaie fino agli appartamenti posti ai piani superiori per sottrarre una refurtiva preziosa. Oppure, i furti negli appartamenti: minori appartenenti a famiglie nomadi giungono da Milano o da Torino e scassinano le porte, una volta con grossi cacciaviti, ora con una plastica sagomata ad hoc. In pochi secondi raccattano quanto più oro e denaro possibile.
Esistono, poi, i furti con riscatto. Vengono perpetrati ai danni di animali di razza o di semplici asinelli o cavallini. Pur di non rattristare i propri figli o nipotini, i proprietari accettano di pagare una somma per riavere gli amati animali.
Il carcere, spesso non luogo di rieducazione, come sancito dalla Costituzione, ma sito di ammaestramento alla scuola del crimine, ha fatto perfezionare tecniche già utilizzate dalle bande drammaticamente conosciute nel Nord Est nelle esplosioni con miscele gassose e con lo stesso tritolo.
Per completare il quadro, non si possono omettere le truffe.
Attraverso esse, i nomadi non in grado, per indole, struttura fisica o timore di detenzioni prolungate, di commettere furti hanno abbindolato centinaia di persone convinte, loro malgrado, di fare l’affare della vita. I soldi rappresentano un imperativo della nostra società. Quale migliore occasione, quindi, di farli esentasse con soggetti loschi, possessori di macchine lussuosissime che ti garantiscono vagonate di cellulari rubati, televisioni al plasma, denaro proveniente dal riciclaggio di tangentopoli, sequestri di persona, rapine in banca, criminalità organizzata. Tutto falso.
L’ignaro speculatore, convinto di essere astuto, rimane con un pugno di mosche in mano. Molte volte non può nemmeno denunciare il misfatto, essendo illecito l’affare che intendeva concludere.
Chiudo unificando le due tipologie di reati commessi dai nomadi criminali in una sintesi perfetta: l’astuzia. Tragicamente illecita per il dolore subito dalla vedova al cimitero o dal bambino privato della collanina del suo battesimo, molto equa nei confronti dei gaggi (i non nomadi) desiderosi di arricchirsi illegalmente.
La stessa astuzia, colorata di buone regole, solidarietà e legalità, può e deve diventare il valore aggiunto di un popolo straordinario. L’astuzia, eccezionalmente descritta da Francesco De Gregori nella canzone “Due Zingari”: “…avevano occhi veloci come il vento…”

Fabio Pasquariello
Capitano dell’Arma dei Carabinieri

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