Il termometro delle tensioni europee del ‘900

Angela Michela Rabiolo

Un excursus di una regione sempre al centro dei cambiamenti della storia. Intervista a Joze Pirjevec, storico e politico italiano di origine slovena

Joze Pirjevec è un grande esperto di storia della ex Jugoslavia e del confine orientale. Laureato in Storia all’Università di Trieste, si è dedicato per molti anni a studiare i rapporti tra l'Italia e i popoli slavi meridionali a partite dall'Ottocento. Si è specializzato anche nella storia russa, in quella della minoranza slovena della Venezia Giulia e naturalmente, negli anni ’90, le sue ricerche hanno riguardato le guerre fratricide in Croazia e Bosnia. Ha insegnato anche nell’ateneo di Padova. È membro dell'Accademia slovena delle arti e delle scienze e capo del Dipartimento di Storia all'Università del Litorale di Capodistria, oltre ad aver fatto politica attiva in Slovenia. Ha scritto numerosi libri.

Joze Pirjevec è un grande esperto di storia della ex Jugoslavia e del confine orientale. Laureato in Storia all’Università di Trieste, si è dedicato per molti anni a studiare i rapporti tra l’Italia e i popoli slavi meridionali a partite dall’Ottocento. Si è specializzato anche nella storia russa, in quella della minoranza slovena della Venezia Giulia e naturalmente, negli anni ’90, le sue ricerche hanno riguardato le guerre fratricide in Croazia e Bosnia. Ha insegnato anche nell’ateneo di Padova. È membro dell’Accademia slovena delle arti e delle scienze e capo del Dipartimento di Storia all’Università del Litorale di Capodistria, oltre ad aver fatto politica attiva in Slovenia. Ha
scritto numerosi libri.

Il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni è nato il 1° dicembre 1918 da una vittoria e da una sconfitta. La vittoria dei Serbi, i quali, dopo terribili sofferenze, sono usciti trionfanti dalla Grande guerra e la sconfitta dei Croati e degli Sloveni, travolti dallo sfacelo della monarchia asburgica. Dato che l’Europa intera, dopo la tragedia del primo conflitto mondiale, si ricostituiva a sua volta sulla vittoria di alcune Nazioni e sulla sconfitta di altre, si può ben dire che l’esperienza jugoslava sia stata paradigmatica. La dicotomia tra vincitori e vinti in Jugoslavia non è stata mai superata, poggiando sulla prosopopea dei Serbi, convinti di essere l’unica etnia capace di reggere lo Stato. A ciò bisogna naturalmente aggiungere le differenti esperienze storiche, culturali e religiose fra la parte meridionale del Paese, soggetta per secoli ai Turchi e legata alla Chiesa bizantina, e quella settentrionale, formatasi nel bozzolo della Mitteleuropa. Questa frattura di fondo non è stata superata neppure dai comunisti quando, nel 1945, riuscirono a riportare in vita la Jugoslavia dopo l’epica lotta partigiana.
Essi s’illusero di poter creare una società nuova sugli ideali del loro credo ideologico che, nel nome di “fratellanza e unità”, avrebbe dovuto mitigare le differenze fra le molte etnie del Paese. L’esperimento, teso alla creazione di un “socialismo dal volto umano” opposto a quello sovietico, non ha tuttavia avuto successo, soprattutto perché imposto dall’alto, da un’èlite politica incapace di comprendere che, senza Democrazia, non può esserci vero sviluppo sociale e maturazione collettiva. Sbaglio, questo, compiuto nel corso del ‘900 – sotto simili o opposte bandiere – in parecchi Paesi europei da altri capi messianici.

Professor Pirjevec, quali sono state le cause economiche delle guerre?
Nel corso della sua esistenza, la Jugoslavia di Tito non è mai riuscita ad instaurare una struttura economica efficace. Essendo stata occupata da ben quattro eserciti stranieri (tedesco, italiano, ungherese, bulgaro) e sconvolta da lotte intestine fra almeno sei fazioni locali (cetnici, partigiani, ustascia, domobranci, nedić, musulmani) essa è uscita distrutta. I comunisti, vincitori, pensarono in un primo momento di poter ricostruire la società prendendo a modello l’esempio sovietico e imponendo un ambizioso Piano quinquennale che avrebbe dovuto trasformare il Paese, nel giro di un lustro, in potenza industriale. Questo progetto, destinato comunque a fallire, fu bruscamente interrotto da Stalin, il quale, nel giugno del 1948, decise di rovesciare Tito perché insoddisfatto della sua troppo autonoma politica estera. Egli espulse il PCJ dal Cominform, il club dei più importanti partiti comunisti europei, illudendosi di poter sbarazzarsi senza difficoltà del Maresciallo e della sua “cricca”. Non fu così. Tito oppose resistenza, riuscendo a “restare a galla” (per citare il Ministro degli Esteri britannico E. Bevin) grazie all’appoggio popolare di cui godeva, ma anche grazie agli aiuti economici e militari dell’Occidente che comprese assai presto il vantaggio ideologico e strategico di uno scisma nel blocco sovietico. Negli anni successivi, la Jugoslavia sopravvisse grazie soprattutto alle forniture finanziarie e materiali degli Stati Uniti, pur restando fedele al socialismo. Un socialismo reinterpretato in chiave europea, influenzato, oltre che da Marx, anche dal pensiero utopico francese (Proudhon) e basato sul concetto di autogestione, la rinuncia da parte dello Stato di controllare l’economia che avrebbe dovuto essere retta dagli stessi operai. La “via jugoslava al socialismo”, che suscitò violenta ripulsa da parte di Mosca, non riuscì mai a funzionare in modo soddisfacente per diverse ragioni, fra le quali, soprattutto, la costante interferenza del Partito nella conduzione delle imprese. Esso cercò più volte di aggiustare il sistema con interventi liberali, se necessario, anche autoritari, senza esser capace di creare un’economia veramente efficiente e sana. Alla morte di Tito, nel maggio del 1980, la Jugoslavia si trovò con un enorme debito estero ed una pronunciata conflittualità interna fra Repubbliche “sviluppate” (Slovenia e Croazia) e quelle che non lo erano (Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia, in parte Serbia) ognuna delle quali si sentiva sfruttata dalle altre. Le prime perché costrette ad incanalare forti contributi finanziari al Sud, le altre perché fornitrici al Nord industrializzato di materie prime a basso costo. Da qui una fortissima tensione interna che si tradusse, fatalmente, in progetti diversi su come uscire dalla crisi e in nazionalismo.

La causa nazionalista, la questione Kosovo, la primavera slovena e la grande Serbia.
Il nazionalismo era endemico tanto nella Jugoslavia prebellica dei Karadjordjević, quanto in quella socialista di Tito. Era causato in primis dalle diverse esperienze storiche dei popoli jugoslavi, appartenenti a mondi politico-culturali diversi, a lungo opposti: quello asburgico e quello levantino.
Lo scontro di civiltà di cui parla Samuel P. Huntington si manifestò in Jugoslavia fin dalla sua nascita e ne condizionò l’esistenza fino al tracollo negli anni ‘90. Uno scontro che divise non solo le tre Nazioni costitutive del Paese, Serbia, Croazia e Slovenia, ma anche quelle non riconosciute e oppresse, come Montenegro, Macedonia, la Bosnia musulmana e le minoranze tedesche in Vojvodina, albanesi e tanti altri gruppi minoritari. Non va, infatti, dimenticato che la Jugoslavia, accanto all’Unione Sovietica, era il Paese più composito d’Europa da un punto di vista etnico. I comunisti, una volta al potere, si illusero di poter superare le differenze e le ostilità fra i diversi soggetti nazionali strutturando lo Stato in una Federazione di sei Repubbliche e concedendo al Kosovo e alla Vojvodina un’autonomia nell’ambito della Serbia. Questa geometria etnica, via via più complessa per il riconoscimento, negli anni ’60, anche dei Musulmani bosniaci come nazionalità autonoma, non funzionò, soprattutto perché, a partire dallo stesso periodo, i Serbi cominciarono ad avvertire di essere marginalizzati nell’ambito dello Stato, visto come loro creatura. Erano ossessionati soprattutto dalla constatazione di essere presi nella morsa dell’Islam, considerato che tanto gli Albanesi del Kosovo, quanto i Musulmani bosniaci vantavano una crescita demografica superiore alla loro. Inoltre, a causa di migrazioni dovute alla conquista ottomana nel ‘400, i Serbi non vivevano soltanto nella regione d’origine, ma erano sparsi a pelle di leopardo nelle regioni contermini di Kosovo, Vojvodina, Bosnia-Erzegovina, Dalmazia e Croazia. Tale complessità, causa di antiche frizioni, venne acuita dalla crisi economica degli anni ‘80, suggerendo ai Serbi, quale unica via d’uscita possibile, il ripristino del controllo di Belgrado sull’intera Federazione. Percorso, questo, avversato per ragioni diverse da tutti gli altri gruppi etnici, particolarmente dagli Sloveni, per quanto essi – unici nella compagine jugoslava – non fossero costretti a vivere a contatto di gomito con i Serbi.
Formatisi come Nazione nell’orbita culturale e politica di Vienna, gli Sloveni, nel 1918, erano saliti sul carrozzone jugoslavo soprattutto per timore delle ambizioni territoriali tedesche e italiane. Quando, tuttavia, nella seconda metà del secolo scorso le loro frontiere furono definitivamente tracciate, essi riscoprirono la propria appartenenza all’Europa di mezzo e a quella occidentale, opponendo al programma centralizzatore serbo l’idea di uno Stato confederale di tipo elvetico e la sua adesione alla UE. Questi opposti progetti suscitarono, nell’ultimo decennio dell’esistenza della Jugoslavia, un aspro conflitto fra Belgrado e Lubiana che non ebbe, come in altri casi, risvolti nazionalistici, ma fu condizionato da diverse scelte di civiltà. Mentre la Slovenia, anche con l’acquiescenza del locale Partito comunista, si liberalizzava sempre di più, la Serbia si chiudeva nei suoi miti ottocenteschi e si raccoglieva compatta intorno a Slobodan Miloševic, elevato dalla maggioranza delle Nazione a “uomo della Provvidenza”.

Può farci un riassunto dei diversi conflitti avvenuti tra il 1991 ed il 1995, dall’indipendenza slovena agli accordi di Dayton?
I nodi giunsero al pettine nel giugno del 1991, quando la Slovenia decise unilateralmente di proclamare la propria indipendenza, distaccandosi dalla Federazione. Il giorno successivo a tale atto di secessione, l’esercito jugoslavo, alleatosi a Miloševic, intervenne nella Repubblica ribelle nel tentativo di conservare in vita l’ormai obsoleta Federazione, convinto di domarla in pochi giorni. Tuttavia, gli Sloveni, che fin dagli anni ‘70 potevano contare su una difesa territoriale parallela all’esercito, voluta da Tito come forza ausiliaria in caso di un attacco sovietico, si erano preparati all’intervento, opponendo valida resistenza. Il fatto, poi, che nel bel mezzo dell’Europa si fosse acceso un focolaio di guerra suscitò vasta eco internazionale, muovendo la UE ad intervenire. Il risultato dell’inattesa resistenza slovena, che portò scompiglio fra le truppe federali, e della mediazione di Bruxelles all’inizio di luglio del 1991, fu una tregua che sfociò dopo tre mesi nella partenza dell’esercito dal territorio della Repubblica. Con ciò la Slovenia acquistava, di fatto, la propria sovranità. Va comunque detto che il corso degli eventi fu condizionato soprattutto dalla decisione di Miloševic di lasciare la Slovenia alla sua sorte, rinunciare all’idea jugoslava e puntare su quella della Grande Serbia, auspicata dai nazionalisti di Belgrado dalla metà dell’800 in poi. Essa presupponeva la conquista di una parte della Bosnia-Erzegovina e della Croazia orientale, nonché della Dalmazia meridionale. Conclusa la “guerra da operetta”, come fu definita ironicamente la vicenda bellica slovena, si aprì, pertanto, in Croazia un altro focolaio di guerra che ebbe risvolti ben più cruenti. In quel momento, in Croazia era al potere un ex generale di Tito, rivelatosi fiero nazionalista, Franjo Tudjman, che aveva seguito l’esempio sloveno proclamando, a sua volta, l’indipendenza della propria Repubblica, senza, però, prepararsi al prevedibile attacco serbo.
Quando, nel luglio del 1991, esso giunse, la Croazia si trovò vittima di una complessa operazione militare che prevedeva l’intervento tanto di truppe regolari dell’esercito, quanto di bande paramilitari, incaricate di atterrire le etnie appartenenti alla Nazione e alla religione “sbagliata” e spingerle alla fuga. Fu l’inizio di quella “pulizia etnica” che coinvolse più tardi anche la Bosnia-Erzegovina. Nelle Krajina, la parte centrale della Croazia confinante con questa Repubblica, la locale popolazione serba, da tempo in fermento per la politica nazionalista inaugurata da Tudjman nei suoi confronti, proclamò una propria Repubblica autonoma che, a sua volta, si erse contro l’autorità di Zagabria. Per rendere la situazione ancora più complessa, va detto anche che Tudjman e Miloševic, pur combattendosi a vicenda, stavano cercando di trovare sotto banco un accordo sulla divisione della Bosnia-Erzegovina che, per il momento, si trovava ancora in una situazione di pace precaria. Non a lungo. Le sue etnie, fortemente frammiste tra di loro per quanto riguarda le zone d’insediamento, s’erano divise in tre partiti politici. Quello musulmano, capeggiato da Alija Izetbegovic, era il più numeroso. Appoggiato dalla UE e dagli Stati Uniti, Izetbegovic pensò, nel marzo del 1992, di indire un referendum con cui avallare l’integrità della Bosnia-Erzegovina. Alle urne si recarono soprattutto Musulmani e Croati, mentre gran parte dei Serbi, capeggiati da Radovan Karadžic, uno psichiatra di Sarajevo fanaticamente nazionalista, le boicottarono. Ciononostante, il 6 aprile 1992 UE e Stati Uniti riconobbero la sovranità del nuovo Stato, provocando così la rivolta dei Serbi, appoggiati dall’esercito jugoslavo di stanza in Bosnia-Erzegovina e dal Governo di Belgrado. Sarajevo ed altre città a maggioranza musulmana furono cinte d’assedio, mentre milizie paramilitari serbe, come le famigerate “Tigri” di Arkan, si abbandonarono ad atroci violenze contro la popolazione musulmana nella vallata della Drina, sulla frontiera con la Serbia. Fu l’inizio di una guerra fratricida che si protrasse dal maggio del 1992 all’ottobre del 1995, con un susseguirsi di vicende belliche in cui Serbi e Musulmani si combattevano a vicenda, i Croati a volte si alleavano con gli uni, a volte con gli altri, per non dire delle lotte intestine fra gli stessi Musulmani. Negli scontri erano coinvolte milizie controllate da Belgrado e da Zagabria, ma anche numerosi volontari provenienti dal mondo islamico, che seguì il corso degli eventi con appassionata partecipazione elargendo a Izetbegovic consistenti aiuti finanziari. I Serbi, potendo contare sugli armamenti dell’esercito jugoslavo, tennero a lungo il coltello per il manico. Nel ’94, però, le cose cominciarono a cambiare per la decisione dell’amministrazione Clinton di impegnarsi attivamente nel conflitto. Il Presidente americano cominciava già a pensare alla rielezione nel ’96 e si sentiva spronato all’azione dalla pressante critica del suo potenziale avversario repubblicano, il senatore Bob Dole, che lo accusava di non far nulla, o quasi, a favore di Croati e Musulmani. Per non dover confrontarsi durante la lotta per la Casa Bianca con la questione bosniaca che, grazie all’“effetto CNN” era quotidianamente sugli schermi televisivi delle famiglie americane, Clinton decise di risolverla al più presto. Fu, pertanto, messa in moto una complessa manovra che prevedeva la ristrutturazione dell’esercito croato e di quello bosniaco con l’intervento di alti ufficiali americani in pensione e il loro riarmo clandestino. Dato che in seguito ad una risoluzione delle Nazioni Unite, votata nell’autunno del ’91, era proibito fornire armi alle fazioni in lotta in Jugoslavia, gli Americani, con mossa spregiudicata, tollerarono che esse fossero contrabbandate in Croazia e in Bosnia-Erzegovina dal Vicino Oriente e dall’Iran. Questa politica cominciò a portare frutti già nell’estate del ’95, quando l’esercito croato sconfisse i ribelli serbi della Krajina costringendoli in massa alla fuga.
Per dare il colpo finale ai Serbo-Bosniaci e al loro protettore, Slobodan Miloševic, ci volle, però, ’intervento dell’aviazione americana, che si attuò nel settembre del ’95 sotto l’egida della NATO. Si trattò di un’azione illegale dal punto di vista dei Trattati costitutivi dell’Alleanza atlantica, i quali non prevedevano l’impiego delle sue forze “out of area”, fuori dai territori degli Stati membri. Essa fu comunque possibile anche per l’ondata di indignazione suscitata dal massacro di Srebrenica, cittadina musulmana della vallata della Drina, compiuto precedentemente dal generale serbo-bosniaco Ratko Mladic. Il bombardamento delle postazioni serbe in Bosnia-Erzegovina da parte della NATO, accompagnato da una vigorosa offensiva delle fanterie croato-musulmane, ebbe l’effetto voluto. Il territorio della Repubblica venne diviso in due aree, controllate rispettivamente dalle truppe serbe e da quelle croato-musulmane, il che permise alle parti in causa, nel corso dell’ottobre successivo, di raggiungere nella base militare di Dayton un accordo piuttosto bizzarro.
La Bosnia-Erzegovina restava in vita in quanto Stato sovrano. Fu però divisa al suo interno in due entità pressoché autonome: la Repubblica serba e la Federazione croato-musulmana. Per garantire la sopravvivenza di questa fragile struttura, la NATO vi sarebbe stata presente con un corpo di spedizione al quale si sarebbe affiancato un “Alto Commissario” per gli affari civili di nomina europea. Quello che però importava era l’annuncio sull’accordo che Bill Clinton poté dare ai suoi futuri elettori, presentandosi alla vigilia del Thanksgiving Day come il pacificatore dei Balcani.

Che ruolo hanno avuto le influenze internazionali di UE e USA nei conflitti e quali erano le ragioni del loro interesse?
Del coinvolgimento statunitense nella vicenda ex-jugoslava (che avrebbe avuto un capitolo conclusivo nel 1999 con l’intervento contro la Serbia in difesa degli Albanesi del Kosovo), si è già detto. Per quanto riguarda l’Unione Europea, all’inizio del conflitto essa era contraria allo smembramento della Jugoslavia, temendo il cosiddetto “effetto domino”, lo smembramento della Cecoslovacchia e della stessa Unione Sovietica. (Non va dimenticato che alcune Repubbliche di quest’ultima avevano sul proprio territorio arsenali nucleari). Quando, però, divenne evidente che Miloševic era tetragono a qualsiasi possibilità di compromesso con le Repubbliche ribelli ed era disposto ad usare la violenza per raggiungere i suoi scopi grandeserbi, gli Europei si divisero in due gruppi. Da una parte la Germania, da poco riunitasi, e l’Austria, dall’altra la Francia, l’Italia e la Gran Bretagna. Sembrava che si fosse ricreata la situazione della Prima guerra mondiale, con le potenze europee raggrupate in due alleanze opposte. Questa anacronistica situazione era dettata dal timore che la grande Germania suscitava a Parigi, a Londra, ma anche a Roma. Come diceva il Presidente francese François Mitterand: “Amo la Germania al punto da preferirne due“. Il sospetto che i Tedeschi fossero tentati di allargare la loro sfera d’inflenza ai nuovi Stati che stavano sorgendo sulle rovine della Jugoslavia, soprattutto alla Slovenia e alla Croazia, spinse Francesi, Britannici e Italiani ad appoggiare la Serbia, chiudendo gli occhi sulla politica guerrafondaia di Miloševic e sui crimini commessi delle truppe di Mladic e Karadžic. Alle fine del 1991, i Tedeschi prevalsero, imponendo agli Stati membri della UE il riconoscimento della Croazia e della Slovenia, grazie anche all’appoggio della Santa Sede, ovviamente favorevole alle due Repubbliche “cattoliche“. Le tensioni nell’ambito della UE rimasero però vive, impedendo ad essa negli anni succussivi di svolgere un ruolo di rilievo nella soluzione del “puzzle“ balcanico. La situazione fu ulteriormente complicata dalla Russia di Boris Eltsin, la quale, nonostante le sue crisi interne, fu costantemente presente nei Balcani, appoggiando senza tentennamenti (o quasi) le ragioni dei Serbi.

Come si è giunti da una convivenza serena tra le diverse etnie ai crimini contro l’umanità?
A dire il vero, la convivenza non è mai stata del tutto serena.
Durante la Seconda guerra mondiale, Croazia e Bosnia-Erzegovina sono state sconvolte da una feroce guerra interetnica che ha lasciato tracce profonde nella memoria delle popolazioni coinvolte. Negli anni successivi, il ferreo regime di Tito, accompagnato, peraltro, da significative trasformazioni sociali e da un non indifferente miglioramento del tenore di vita di larghe masse popolari, ha mitigato le ferite del passato, ma non le ha sanate del tutto. Il fondamentale conflitto fra Serbi e Croati che ha minato fin dall’inizio lo Stato jugoslavo e la diffidenza degli uni e degli altri nei confronti dell’elemento bosniaco musulmano non sono mai venuti meno. Da quando popoli di grande civiltà, a partire dai Tedeschi, hanno confermato la profezia di Grillparzer che si sarebbe passati dall’umanesimo attraverso il nazionalismo alla bestialità (von der Humanität durch Nationalität zur Bestialität), non me la sento di dire che la violenza, cui abbiamo assistito in Croazia e in Bosnia-Erzegovina negli anni ‘90, sia il risultato dell’arretratezza culturale di quei popoli. Va comunque detto che il connubio fra nazionalismo e religione, avvertita più che altro come marchio di appartenenza, si è rivelato una miscela esplosiva, innestandosi per di più su tradizioni secolari che esaltavano i valori “virili” della guerra. Il passaggio da una società eminentemente contadina ad una urbana e industrializzata, avviato nelle aree coinvolte dal regime di Tito dopo il 1945, non è stato ovviamente portato a termine.

Angela Michela Rabiolo
Collaboratrice di SocialNews

Rispondi