Dall’idea di unificazione al paradosso del nazionalismo

LL. M Igor Čolović, LL. M Inja Čolović

Da Tito all’Unione Europea: crisi economiche e periodi di stabilità sul confine fra il mondo occidentale e quello orientale

La fortezza di Kalemegdan a Belgrado.

La fortezza di Kalemegdan a Belgrado.

Il 1° dicembre 1918 venne creato il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. La tragica occasione per la nascita dello Stato fu l’attentato di Sarajevo al principe ereditario dell’Impero Austro-Ungarico, Francesco Ferdinando, avvenuto il 28 giugno 1914.
Autore materiale, il giovane idealista e combattente per la libertà Gavrilo Princip. L’attentato fu organizzato dal gruppo di giovani intellettuali patrioti “Mlada Bosna” (Giovane Bosnia) che perseguiva il diritto all’autodeterminazione delle Nazioni slave nei confronti dell’Impero Asburgico dopo secoli di dominazione.
Il loro credo era simile alle aspirazioni rivoluzionarie della “Giovane Italia” del XIX secolo: Appennino o Balcani, la potenza straniera doveva ritirarsi per non ostacolare il libero sviluppo dei popoli occupati. Il primo passo verso la creazione del nuovo Stato fu la Dichiarazione di Niš del 7 dicembre 1914, in base alla quale la Serbia, come fece il Piemonte nell’unificazione d’Italia, assunse il ruolo di comando di tutti i popoli slavi meridionali residenti nella zona compresa fra il Vardar ed il Triglav.
Il Regno di Serbia venne ingiustamente accusato per l’attentato di Sarajevo ed il 28 luglio 1914 gli Asburgo imposero un ultimatum: la Serbia doveva accettare la presenza di un funzionario mandato da Vienna. Il suo compito era quello di accertare le responsabilità e l’eventuale oinvolgimento delle autorità serbe; viceversa, il Governo serbo non avrebbe più potuto amministrare autonomamente il suo territorio e perseguire una politica estera indipendente. Queste condizioni inaccettabili rappresentavano, in realtà, un pretesto a favore delle Forze Centrali (Germania e Austria) per poter iniziare la lungamente pianificata Prima guerra mondiale, finalizzata ad una nuova redistribuzione delle colonie e delle risorse naturali ai danni degli Alleati (Francia, Gran Bretagna e Russia). Alla guerra parteciparono anche Bulgaria e Turchia, schierate con le Forze Centrali e Italia, Giappone e Stati Uniti, dislocati a fianco degli Alleati.
L’esercito serbo sconfisse quello austro-ungarico, tecnicamente e numericamente superiore, nella battaglia del Cer ed in quella del Kolubara. Sul fronte meridionale, invece, nel 1915 fu costretto al ritiro, insieme alla popolazione civile, indebolito da fame, malattie e sfinimento. Dopo tre anni di sanguinosi combattimenti, però, le forze armate serbe sfondarono a Salonicco e nel settembre del 1918 occuparono tutte le aree abitate dalle popolazioni slave del Sud. Il 15 luglio 1917, i rappresentanti del Regno di Serbia, del Montenegro e delle minoranze slave presenti nell’Impero Asburgico sottoscrissero la Dichiarazione di Corfù. Questa sanciva che il futuro Stato unitario sarebbe stato costituzionale, democratico ed organizzato in forma di monarchia parlamentare. Il testo proclamava anche che Serbi, Croati e Sloveni rappresentavano un unico popolo. Il 1° dicembre 1918 fu istituito il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. La prima grana fu il regolamento del confine con il Regno d’Italia sui territori dell’ex Repubblica di Venezia, comprese Istria e Dalmazia: l’Italia vantava solidi diritti storici e, in più, Francia e Gran Bretagna le avevano promesso queste aree con l’accordo di Londra del 26 aprile 1915 a titolo di ricompensa per l’entrata in guerra al loro fianco. Germania e Austria manifestavano, invece, ostilità al nuovo Stato jugoslavo a causa della sconfitta militare e della perdita di gran parte dei loro territori. Il Regno era, quindi, minacciato da nemici esterni, ma, soprattutto, indebolito da conflitti interni, lotte politiche e arretratezza economica. In guerra, il popolo serbo aveva sofferto pene indicibili, perdendo un terzo della popolazione in età lavorativa e subendo danni materiali incalcolabili.
I rappresentanti politici di Sloveni, Croati e Musulmani bosniaci accusavano la Serbia di perseguire politiche egemoniche e centralizzare eccessivamente il potere dello Stato. Lamentavano, inoltre, di subire discriminazioni evidenti rispetto alla maggioranza del popolo serbo. I politici serbi ribattevano che uno Stato centralizzato e unitario avrebbe garantito integrità territoriale e sicurezza, rivendicando, inoltre, come la Serbia, in precedenza il singolo Paese più forte degli interi Balcani, dovesse mantenere la reggenza della Nazione unificata. Facevano anche presente come avessero sostenuto i costi più alti della guerra, in termini di perdite.
La fonte di instabilità principale era proprio rappresentata dal fatto che, per la prima volta, nello stesso Stato venivano raggruppati tutti i Serbi dei Balcani e gli altri popoli slavi del Sud. Ne conseguirono il rafforzamento del separatismo croato, insofferente al centralismo statale e l’atteggiamento passivo dei Serbi in politica estera. Con il pretesto di tutelare l’unità del Paese, il 6 gennaio 1929 il re Alessandro I Karađorđević introdusse la dittatura, sospese – di fatto, abrogò – la Costituzione, negò le libertà civili e vietò l’attività politica e le riunioni pubbliche. Rinominò, infine, lo Stato in Jugoslavia. In seguito, represse l’opposizione borghese e combatté contro i comunisti radicali, i nazionalisti croati, i Musulmani bosniaci e le minoranze albanesi e macedoni. Venne assassinato il 9 ottobre 1934 a Marsiglia per mano dell’Organizzazione rivoluzionaria interna macedone, sostenuta dagli Ustascia croati, estremisti e separatisti.
Il 6 aprile 1941, senza una formale dichiarazione di guerra, la Jugoslavia subì l’attacco congiunto della Germania di Hitler, dell’Italia di Mussolini, dell’Ungheria di Horti e della Bulgaria. Belgrado venne bombardata e orribilmente distrutta.
La guerra portò alla dissoluzione del regno. Il territorio venne smembrato dalle forze dell’Asse e i popoli jugoslavi, etnicamente divisi, sprofondarono in una guerra civile e religiosa. In quel periodo nacque lo Stato indipendente di Croazia, nei territori delle attuali Croazia, Bosnia ed Erzegovina. Ne divenne leader Ante Pavelić, il capo del movimento di estrema destra degli Ustascia. Comandò in modo repressivo con l’aiuto dei radicali musulmani bosniaci ed attuò persecuzioni e discriminazioni nei confronti della popolazione serba. Un autentico genocidio su base religiosa e vendicativa, riferendosi alla politica liberticida dell’assassinato re jugoslavo, il quale aveva soffocato la cultura e l’identità nazionale croate. Gli strumenti più crudeli usati contro il popolo serbo furono i campi di concentramento, i più grandi dei quali furono quelli di Jasenovac e Stara Gradiška, ma gli orrori si manifestarono anche con il ricorso a fosse comuni, come quella di Jadovo. Secondo una stima non ufficiale, il numero di Serbi trucidati oscilla fra 700.000 ed un milione, oltre alla carneficina di migliaia di Rom e di Ebrei. Anche ai Vulnetari, gli estremisti albanesi, furono concesse immani atrocità contro i Serbi in Kosovo. I superstiti serbi di Dalmazia, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo e Metohija tentarono di fuggire nella zona controllata dal Governo italiano. Coloro i quali riuscirono a raggiungerla si salvarono grazie all’equilibrio degli ufficiali italiani e dei funzionari che fecero di tutto per proteggerli ed impedire ulteriori massacri. Non è corretto tralasciare anche i crimini di guerra perpetrati dai Serbi četnici e dal movimento ljotićevskog nei confronti di Croati e Musulmani, ma il livello raggiunto ed i numeri complessivi risultano sensibilmente più bassi. Le rappresaglie serbe traevano giustificazione dagli orrori commessi dai nazionalisti croati e dai Musulmani bosniaci, ma il risultato fu una faida e l’ulteriore esasperazione dell’odio etnico e religioso proiettato verso il futuro. Nel corso della Seconda guerra mondiale, in particolare in Serbia, divampò anche una guerra civile e ideologica tra l’esercito regio jugoslavo, guidato dal re Pietro II Karađorđević e dal generale Dragoljub Mihailovic e il movimento ravnogorski, un’organizzazione partigiana condotta dal rivoluzionario comunista Josip Broz Tito. Erroneamente chiamati četnici, i monarchici erano schierati con gli Alleati ed auspicavano la conservazione della Jugoslavia quale monarchia parlamentare costituzionale e Stato unitario composto da tre popoli slavi del Sud, i Serbi, i Croati e gli Sloveni. I due schieramenti si accusarono reciprocamente di collaborazionismo e perpetrarono entrambi orribili crimini di guerra. La militanza ad una fazione o all’altra determinò divisioni anche all’interno delle stesse famiglie.
I Comunisti guardavano all’Unione Sovietica e sostenevano la lotta di classe tra borghesia e classe operaia e la rivoluzione proletaria. Il disegno futuro era quello di una Repubblica federale di ideologia comunista che garantisse il diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione.
La seconda Jugoslavia vide la luce nella seconda sessione consecutiva del Consiglio Antifascista dei popoli della Jugoslavia, presieduto dal partito comunista di Jugoslavia, il 29-30 novembre 1943 a Jajce, nell’odierna Bosnia-Erzegovina.
Con l’aiuto dell’Armata Rossa, i partigiani occuparono Belgrado il 20 ottobre 1944 ed il resto della Nazione entro il maggio del 1945. Al termine della guerra la monarchia venne abolita e fu proclamata la Repubblica. Il nuovo corso ideologico prevedeva il socialismo. Lo Stato fu ricostituito nella forma di Federazione con sei Repubbliche e, naturalmente, Presidente fu designato il Maresciallo Tito.
La Jugoslavia di Tito si distinse nel ruolo di mediatore tra il Patto di Varsavia, da un lato, e l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti e la NATO, dall’altro. Nel 1961, a Belgrado, venne fondato il Movimento dei Paesi non allineati. Il Maresciallo si opponeva alla divisione bipolare del mondo e sviluppò intense relazioni economiche, culturali e diplomatiche con i Paesi in via di Sviluppo in Africa, Asia e America Latina.
Sostenne economicamente e militarmente questi ultimi nelle guerre di liberazione contro le potenze coloniali.
Sul fronte interno, si dedicò alla ricostruzione, favorì l’occupazione e riuscì a stabilizzare il mercato. Ognuno era libe-
ro di viaggiare nel mondo con il famoso passaporto rosso. Una delle destinazioni più ambite dagli Jugoslavi era la vicina Trieste, dove si potevano comprare jeans, vestiti e altri beni occidentali di consumo.
L’Italia investì nell’economia jugoslava più di tutti gli altri Paesi occidentali. In particolare, nel settore automobilistico, la Fiat fondò la Zastava a Kragujevac, in Serbia, dove vennero prodotti modelli molto diffusi, come Yugo e Stojadin, ma anche la macchina italiana più popolare in Serbia, la mitica Fiat 500, ribattezzata “Fića”. Non tutti sanno che anche l’attuale 500L è prodotto sempre a Kragujevac. Rispetto agli altri Paesi del blocco comunista, in Jugoslavia il tenore di vita era molto più alto.
Tuttavia, lo Stato era monopartitico e votato al culto della personalità del suo leader. Il controllo sulla società e in politica era molto stretto e gli oppositori politici e ideologici, compresi i gruppi nazionalisti che osavano sfidare l’autorità centrale, continuavano a subire regolamenti di conti. Preoccupava anche il debito pubblico, in costante crescita dopo che i prestiti esteri erano andati insoluti.
Il regime si caratterizzò anche per una politica di intolleranza e persecuzione dei popoli non slavi, come la minoranza tedesca insediata in Vojvodina, Serbia settentrionale. Ma drammatico fu soprattutto l’esodo forzato degli Italiani di Istria e Dalmazia. Al termine della guerra, una moltitudine stimata in 250.000 – 300.000 persone fu costretta ad abbandonare le proprie case e ad emigrare, dopo aver subito il sequestro di tutti i beni, la violazione dei diritti civili e politici ed il divieto di fare ritorno.
Le riforme costituzionali del 1974 concessero ai singoli Stati membri ampie autonomie, il diritto a dotarsi di una propria Costituzione e l’autodeterminazione, finché si giunse alla secessione. I mai sopiti odi etnici e religiosi ripresero forza e la strada per la disintegrazione dello Stato fu aperta, formalmente a causa del presunto ruolo dominante serbo nelle decisioni federali. Dopo la morte di Tito, gli scontri precipitarono in conflitti armati in Croazia e Bosnia-Erzegovina dal 1991 al 1995, e in Kosovo e Metohija dal 1998 al 1999. Il territorio fu insanguinato da guerre cruente e nuovamente diviso in sei Stati indipendenti. Sono stati accertati numerosi crimini di guerra e contro l’umanità e sono state violate le convenzioni di Ginevra e altre normative internazionali poste a tutela dei diritti dell’uomo. Ne è seguita la catastrofe umanitaria causata dal gran numero di rifugiati costretti a sfuggire alla guerra abbandonando le loro case per salvare la vita. In tutti i neonati Stati indipendenti si è, infine, abbattuta la crisi politica ed economica, con il conseguente crollo del tenore di vita, l’aumento della disoccupazione, la corruzione, la criminalità e l’impoverimento generale.
La terza Jugoslavia, denominata Repubblica Federale di Jugoslavia, è stata costituita nel 1992. Negli anni ‘90 il Presidente è stato Slobodan Miloševic. Questi ha governato un Paese sottoposto alle sanzioni delle Nazioni Unite e bombardato dalla NATO dal 24 marzo 1999 al 10 giugno 1999 con bombe a grappolo e proiettili all’uranio impoverito. Nel 1999, in seguito al genocidio degli Albanesi in Kosovo, sono intervenute le Forze Multinazionali di Pace. Nel 2003 la Repubblica Federale di Jugoslavia si è ridotta alle sole Nazioni di Serbia e Montenegro e nel 2006 si è giunti alla separazione dei due Stati indipendenti.

LL. M Igor Čolović, LL. M Inja Čolović
uditori giurisdizionali presso il Tribunale d’Appello di Belgrado

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