Difendiamo l’unità nazionale

Gabriele Lagonigro

Il popolo ucraino, salvo qualche eccezione regionale, non vuole la secessione. Neanche ad Est. Inoltre, la separazione in due blocchi che è stata prospettata finora non risponde alla complessità della realtà dei fatti

Quelli di lingua, cultura e tradizione ucraina da un lato; chi invece parla russo e segue usi e costumi più affini ai “vicini” moscoviti dall’altro. Fratelli “diversi”, a fronteggiarsi in una guerra di nervi estenuante ed imprevedibile.
Questa, almeno, è la dicotomia che la gran parte dei media nazionali ed esteri hanno offerto al mondo “occidentale” in questo mezzo anno di tensione perpetua nell’estremo Est d’Europa. Una visione comoda, semplicistica e sotto molti aspetti poco in linea con la realtà dei fatti.
DUE ANIME? NON PROPRIO D’altronde è facile buttarla sulla divisione etnica: bianchi di qua, neri di là e fine della storia. I buoni a sinistra e i cattivi a destra, e la cartina geografica in questo caso conta poco. No, la crisi ucraina non può essere ridotta ad una banale distinzione fra l’anima più europeista e quella più legata all’ex blocco sovietico: sono gli stessi abitanti del Paese più vasto del continente a ribadire in ogni modo che il conflitto non è linguistico e tanto meno fra regioni.
Semmai è politico.
L’evidenza dei fatti non può essere nascosta, per carità. Che nella parte più orientale dell’Ucraina si stiano verificando disordini quasi quotidiani è fuori discussione, ma bisognerebbe interrogarsi su chi – e perché – ha interesse a mantenere elevata la tensione.
Ed è questo il punto di domanda che si pongono in molti, da L’viv, l’antica (e nobile) Leopoli a due passi dalla Polonia, fino a Kharkiv, a pochi chilometri dal confine russo.
La maggioranza degli ucraini, sia quelli dell’Ovest – naturalmente – che dell’Est, ribadiscono quasi all’unisono lo stesso ritornello: l’indipendenza dello Stato non è in discussione. Punto. E se nei territori più vicini “all’Europa” il concetto appena espresso è quasi pleonastico, l’identico punto di vista manifestato anche nelle città filorusse contraddice quello che fin qui è stato il refrain sbandierato dalle due parti in causa. Putin, da una parte, sta utilizzando la supposta aggressione subita “dalla sua gente” nelle zone del Donbass per alzare il livello dello scontro. E anche dall’altra parte, probabilmente, c’è qualche volto noto che ha interesse a mantenere un po’ di caos per provare a posticipare le elezioni del 25 maggio. È un pensiero comune, questo, uno dei tanti “rumors” sottotraccia in diversi ambienti, persino in quelli filo Maydan; non ci sono prove, ovviamente, ma nel Paese “giallo e azzurro” ne sono convinti in tanti. E su una cosa soprattutto sembrano d’accordo gli ucraini di ogni latitudine: che i loro attuali rappresentanti istituzionali non abbiano le capacità per uscire dalla crisi. L’altra cosa che sembra accomunarli è lo scarso apprezzamento per quei politici tanto amati in “Occidente” e ben poco apprezzati in patria; ogni riferimento alla Timoshenko non è puramente casuale.

UNIONE DI POPOLO Ma c’è anche altro che unisce la gente comune, in particolare quella “middle class” che chiede voce, spazi, rappresentanza. Quella che scende in piazza, che magari protesta, che a volte urla e si arrabbia, che talvolta arriva alle mani con le frange opposte ma che solo in pochi casi isolati vuole davvero lo smembramento dell’unità nazionale.
Vitaly, per esempio, è uno studente di 25 anni che in un sabato soleggiato di fine aprile manifesta a due passi dalla stazione di Odessa con altre cento persone, non di più. Tutte di lingua russa, come la stragrande maggioranza di chi abita questa fascinosa città sul Mare Nero. Vitaly, che preferisce mantenere anonimo il proprio cognome, è in piazza con la bandiera russa. Vicino a lui c’è qualche ex militare over 60 con divisa sovietica di ordinanza, e diversi altri che sbandierano falci, martelli ed immagini di Lenin. Ogni protesta, si sa, porta con sé una buona dose di simbologia. L’iconografia della manifestazione farebbe pensare ad una decisa presa di posizione pro-Mosca, ma la realtà è un po’ più sfumata. “Personalmente – spiega il giovane – non voglio la disintegrazione dell’Ucraina. Vorrei semmai il referendum, perché ognuno, in questo Paese, sia libero di decidere con chi stare. Per quanto mi riguarda no, non credo che la soluzione sia l’annessione di alcune regioni alla Russia: credo piuttosto che bisognerà puntare ad un federalismo più spinto. È questa la ricetta per l’Ucraina del futuro”. Nella stessa piazza qualcuno la pensa diversamente e firmerebbe in seduta stante la secessione da Kiev ed il ritorno sotto Mosca; ma è una minoranza. E comunque la manifestazione filorussa è riuscita a portare in strada cento persone, in una città – Odessa – di un milione di abitanti. Numeri da assemblea studentesca, più che da guerra fredda.

FUTURO, NO PASSATO Sull’integrità dell’Ucraina è pronta a scommetterci anche Veronica Schekoldina, che lavora in ambito turistico e che parla perfettamente l’italiano. “La maggior parte dei disordini – spiega – sono avvenuti in alcuni piccoli paesi dell’Est, non nelle grandi città, e questo confer-
ma che la protesta in un certo senso è limitata. Chi abita nei centri più importanti non vuole la guerra, vuole guardare al futuro con ottimismo, lavorare, stare in pace. Io parlo russo, ho origini della Crimea, ma in Ucraina sto bene e non mi interessano tutte queste beghe politiche. E comunque sono convinta che anche in caso di referendum nelle regioni di Kharkov (il nome di Kharkiv in russo, n.d.r.) o del Donbass, la maggioranza della gente non voterebbe la secessione”.
E quindi? È tutta una montatura orchestrata da chi ha interesse a creare il caos? La domanda sorge spontanea, anche perché proprio a Kharkiv, città dove la componente russofona è pressoché totale, si riscontrano più o meno le stesse opinioni. “Di tornare sotto Mosca non ne voglio proprio sapere – tuona Olga Ruvinskaya, che insegna italiano ed è innamorata pazza della nostra cultura – anche perché ci ho vissuto fino al 1991, nell’allora Unione Sovietica, e sinceramente voglio guardare al futuro e non al passato. Credo che come me la pensino tante persone, anche quelle che qui parlano russo e che sono la stragrande maggioranza.
Vogliamo guardare a Ovest, non ad Est. Forse verso Mosca si rivolgono soprattutto i cittadini di Donetsk e dintorni, dove i minatori sono ancora numerosi e magari vedono in Putin una possibilità di migliorare la propria condizione economica e sociale. Ma qui a Kharkov no, abbiamo 100 mila studenti universitari, i giovani hanno voglia di Occidente, non di tornare indietro”.
Il discorso di Olga, però, si allarga arrivando a toccare tematiche interne particolarmente sentite da quella parte di popolazione che crede nello sviluppo di una nuova coscienza civile. “Se vogliamo davvero avvicinarci all’Europa dobbiamo cambiare molte cose della nostra mentalità. Qui tutto è corrotto, con i soldi si compra qualsiasi cosa. Basta, se l’Ucraina vuole cambiare registro bisogna rompere le sovrastrutture che regolano questo Paese”.

COSCIENZA CIVILE Parole sante, in una terra dove tutto ha un prezzo, dove un’infrazione stradale viene spesso “amnistiata” dietro compenso all’agente di turno, con tariffario ufficioso che da quelle parti conosce ogni automobilista. Sono tutti convinti, da Odessa a Donetsk, da Kiev a Kharkiv, che chi partecipa alle proteste di piazza sia spesso pagato. Forse non lo erano i primi manifestanti di piazza Maydan, ma tuttora molti cortei, da una parte e dall’altra, sono tutt’altro che spontanei.
Il dio denaro, da queste parti, conta più che altrove. E di sicuro più dell’appartenenza etnica, linguistica e politica.

Gabriele Lagonigro
Direttore settimanale City Sport di Trieste

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