Analogie e differenze tra Ucraina e Russia

Gabriella Imposti

Il nuovo Presidente ucraino sta cercando di riportare la discussione sul piano diplomatico. Anche Putin sembra aver ridimensionato le sue mire, conscio, forse, della destabilizzazione che, dai confini ucraini, si sposta sempre più verso il territorio russo. Dal punto di vista storico, inoltre, non è la prima volta che l’Ucraina si trova presa nel vortice di forze centripete e centrifughe

Negli ultimi due mesi sono state molte le occasioni in cui l’elettorato di diverse parti dell’Ucraina è stato chiamato alle urne, un rito ripetutosi più volte in anni recenti, senza, peraltro, cambiamenti positivi per l’economia e la vita sociale del Paese. Il referendum in Crimea, tuttavia, ha segnato una svolta decisiva, benché non imprevedibile, a favore dell’annessione alla Federazione Russa, realizzata a tambur battente (è proprio il caso di dirlo) in tempo per le solenni celebrazioni del 9 maggio per la vittoria dell’URSS nella Seconda Grande Guerra Patriottica (così in Russia si indica tuttora la Seconda Guerra Mondiale). I referendum indetti autonomamente dalle Regioni orientali di Lugansk e Doneck, che hanno espresso un’analoga volontà di secessione, non sono invece sfociati in un’altrettanto decisaazione da parte russa di presa del controllo del territorio.
Nei confronti delle due Regioni orientali, Putin sembra aver improvvisamente tirato il freno, consapevole, probabilmente, della brutta piega presa dagli eventi, sempre più simili ad uno scenario da guerra civile.
Il 25 maggio è stato giorno di elezioni anche in Ucraina, indette per sostituire la classe politica delegittimata dalle proteste di piazza Maidan. A questo riguardo, Putin, pur manifestando un certo scetticismo circa la trasparenza (sic!) di tali elezioni, ha dichiarato: “Che facciano pure!”.
Graziosa concessione da parte dell’ingombrante vicino? Riconoscimento del diritto all’autonomia? oppure pausa di riflessione dopo il recente vorticoso succedersi degli eventi? Sia come sia, tuttavia, il pronostico della vigilia, secondo il quale nelle Regioni di Lugansk e Doneck la regolarità delle operazioni di voto non sarebbe stata affatto garantita, è stato puntualmente confermato, come confermata è stata l’elezione del “moderato” oligarca re del cioccolato, definito dalla rivista “Forbes” “il Willy Wonka ucraino”, Petro Porošenko, classe 1965, che ha al suo attivo diversi incarichi nei Governi ucraini degli ultimi anni. La posizione della Russia verso questo nuovo interlocutore, eletto a grande maggioranza, pare essere abbastanza favorevole.
Il Ministro degli Esteri russo, Lavrov, ha infatti espresso la disponibilità della Russia a “rispettare i risultati delle elezioni ucraine”, manifestando la speranza che non ci si lasci sfuggire questa “possibilità di instaurare un dialogo tra pari nel rispetto reciproco” sospendendo il giudizio nell’attesa delle dichiarazioni ufficiali del nuovo Presidente ucraino.
Da parte sua, Porošenko ha dichiarato che l’Ucraina ricorrerà in sede internazionale contro la secessione della Crimea e non riconoscerà gli esiti del referendum secessioniste delle due Regioni orientali, mentre la regione del Donbas (strategica dal punto di vista energetico) sarà la meta della sua prima visita di stato. Al di là di tali dichiarazioni, da cui non poteva certo esimersi, il neoeletto Presidente apre, contemporaneamente, uno spiraglio al dialogo con la Russia annunciando un incontro al vertice per i primi di giugno e riconoscendo che, senza la collaborazione di Mosca, non è possibile risolvere la crisi nelle Regioni orientali del Paese. È evidente, anche da quanto riferiscono la stampa e i siti delle agenzie russe, che si vuole cercare di riportare la crisi sul piano diplomatico frenando una spirale di violenza i cui esiti potrebbero portare ad una destabilizzazione non
solo in territorio ucraino, ma anche in Russia, in primo luogo nelle Regioni russe confinanti, come quella di Rostov, un timore, questo, sempre più fondato e preoccupante per le autorità russe.
Ma come si è arrivati ad uno scontro così aspro tra due Paesi che, ad occhi esterni, sembrano vantare più punti in comune che differenze? Come illustra ampiamente un racconto dello scrittore ucraino di lingua russa Nikolaj Gogol’,”Come Ivan Ivanovic litigò con Ivan Nikiforovic”, non c’è niente di peggio dei conflitti tra parenti e vicini. E le attuali Russia e Ucraina possono ben dirsi parenti strettissimi, se non figli di una stessa storia che solo ad un certo punto (a partire dal XIII secolo circa) ha cominciato a differenziarli.
Alle origini di quella che per il momento, convenzionalmente, chiameremo “storia russa”, nel IX secolo troviamo, infatti, una formazione statale molto poco compatta e dalla composizione molto eterogenea, nota sotto il nome di “Rus’ kieviana”. Tra l’862 e il saccheggio di Kiev del 1240 da parte dei Mongoli, che ne segna convenzionalmente la fine, questa costituisce il patrimonio comune di almeno tre Stati odierni: (in ordine alfabetico) Bielorussia, Russia e Ucraina. Per questo motivo la cultura e la letteratura sviluppatesi in quel periodo possono essere indicate indifferentemente come antico-bielorussa, antico-russa e antico-ucraina. La scelta di un’etichetta o di un’altra riflette, dunque, una precisa prospettiva storica, con tutto il corollario di lealtà, pregiudizi, pretese nazionalistiche ed identitarie.
I dialetti parlati nei territori che venivano identificati come “Rus’ kieviana” condividevano tutti tratti fonetici e morfologici tipici del gruppo orientale del vasto ceppo linguistico denominato “Slavo” e, nonostante la loro varietà, erano uniti sin dalla cristianizzazione dalla liturgia slava ortodossa celebrata in Slavo ecclesiastico, una lingua letteraria basata, peraltro, su un dialetto slavo meridionale parlato anticamente nelle regioni dell’odierna Bulgaria e Macedonia. È questo un altro paradosso della storia, che in quest’area vede un alternarsi continuo di spinte all’unità, di cui è un esempio, appunto, la lingua liturgica usata nell’ecumene della Slavia Orthodoxa, e di moti centrifughi, che alla fine del XIII secolo portarono alla cosiddetta Rus’ degli appannaggi, frammentata in tanti piccoli principati.
A ciò si associarono, da un lato, a Occidente, l’espandersi della potenza lituana alleata al regno di Polonia fino a comprendere gran parte dell’attuale Ucraina, Kiev compresa (che restò sotto l’influenza polacca fin oltre la metà del XVII secolo), e, dall’altro, a Oriente, l’istaurarsi del cosiddetto “giogo tataro”, con i contemporanei sviluppo ed estensione territoriale della Moscovia.
È del ‘600 (con la pace di Andrusovo del 1667) l’annessione di Kiev e dei territori della riva orientale del Dnepr’ al Regno russo che, almeno agli occhi degli ideologi moscoviti, ricostituiva l’unità dell’avita Rus’ kieviana. I rimanenti territori ucraini posti sotto il controllo della Confederazione polacco-lituana sarebbero stati spartiti, poco più di un secolo più tardi, tra l’Impero russo e quello Asburgico, approfondendo diversità e squilibri sociali e culturali di cui restano tracce visibili nell’attuale Repubblica ucraina.
Nell’originale uso bizantino (XIV secolo, circa) si distingueva tra Megalé Rossia (Grande Russia), la Moscovia, e Mala Rossia, i territori non compresi nei suoi confini. In epoca imperiale queste denominazioni assumono un significato gerarchico che distingue tra la metropoli della Grande Russia, genitrice magnanima da cui è inconcepibile staccarsi, e i territori periferici, quindi inferiori per importanza ed estensione, della Piccola Russia, l’Ucraina. Ad un atteggiamento di vivace interesse etnografico e culturale che si riflette, ad esempio, nella fortuna dei racconti del ciclo de “Le veglie della fattoria presso Dikan’ka” di Gogol’ e in analoghi racconti e romanzi che illustrano un’Ucraina dal folklore ricco di costumi pittoreschi e leggende fantastiche, nell’’800 si associa, da parte del Governo imperiale, una decisa opera di russificazione e declassamento della lingua ucraina al rango di mero “dialetto”. Politica, questa, che, dopo un breve intervallo di valorizzazione delle identità e delle lingue nazionali succeduta alla Rivoluzione, riprende con decisione in epoca staliniana.
La storia della Guerra Civile succeduta alla Rivoluzione d’Ottobre vide proprio l’Ucraina come campo di battaglia e di contesa, con il rapido avvicendarsi delle contrapposte fazioni al controllo del territorio e della capitale ucraina stessa. Il tragico capitolo, poi, della fame e della carestia (Holodomor) che portò allo sterminio della popolazione contadina in Ucraina, orchestrato da Stalin stesso all’inizio degli anni ‘30, ha lasciato risentimenti mai sopiti nella memoria collettiva del Paese. Dopo la fine dell’Impero sovietico, ciò ha condotto i due Stati a dissapori ed attriti sfociati, negli ultimi mesi, in aperti confronto e scontro.
Il caso della Crimea non è meno complesso. Basti dire che questi territori, in cui si stabilirono i Tatari fin dal XIII secolo con la successiva creazione del Canato di Crimea (inizio XV secolo), dopo parecchi tentativi falliti di conquista entrarono a far parte dell’Impero Russo solo nel 1792, costituendo una postazione strategica importantissima per il dominio sul Mar Nero e per i rapporti di forza con l’Impero Ottomano, prima, e la Turchia, poi. Si pensi alla sanguinosissima guerra di Crimea di metà ‘800, che segnò l’inizio delle moderne tattiche belliche e la crisi profonda della Russia zarista di Nicola I. La Crimea riveste, poi, nella cultura e nella letteratura russa, un ruolo significativo: da un lato, si identifica con il retaggio della civiltà antico-greca, di cui restano le vestigia anche in una minoranza etnica di origine greca e di cui i Russi, fin dall’epoca della Rus’ kieviana, si ritenevano gli eredi; dall’altro, rappresenta la versione russa dell’esotico, immortalato, ad esempio, dal poeta romantico Aleksandr Puškin con il poemetto “La Fontana di Bachcˇisaraj”. La Crimea costituisce un topos sacro della letteratura russa: vi hanno soggiornato e ambientato le proprie opere scrittori come Tolstoj, Cechov, Vološin, fino alla scrittrice contemporanea Ljudmila Ulickaja (Medea e i suoi figli). Anche la Crimea ha visto il tragico avvicendarsi di Governi bianchi e rossi durante la Guerra civile, la costituzione, in seguito, della Repubblica autonoma sovietica della Crimea, abolita da Stalin nel 1945 dopo aver deportato in massa i Tatari di Crimea, accusati di aver collaborato con i Tedeschi. Solo nel 1967 essi vennero riabilitati, ma il ritorno alle terre avite fu loro impedito sino agli ultimi anni di esistenza dell’URSS. Dal punto di vista amministrativo, poi, cruciale ai fini delle recenti vicende appare la cessione della Regione della Crimea alla Repubblica Sovietica dell’Ucraina per decreto del Soviet Supremo dell’URSS del febbraio 1954 su iniziativa di Nikita Chrušcˇev. Alcuni storici adducono come motivo la volontà di celebrare il 300° del Trattato di Perejaslav del 1654 tra l’atamano cosacco Chmel’nickij e lo zar moscovita Aleksej, che avrebbe, in seguito, portato all’annessione dell’Ucraina Orientale alla Russia. Altri, invece, spiegano questa scelta con lo stato disastroso dell’economia, in particolare dell’agricoltura, in cui versava la Crimea dopo la deportazione in massa dei Tatari, individuando nell’inclusione nel territorio ucraino un possibile stimolo alla colonizzazione ucraina e al conseguente sviluppo economico. Dopo la fine dell’URSS, già nel maggio 1992 il Soviet Supremo della Repubblica Socialista Federale Russa dichiarava incostituzionale la “donazione” della Crimea all’Ucraina, aprendo un contenzioso giuridico a lungo irrisolto. In ogni caso, la Crimea, che continuava, tuttavia, ad essere percepita come appartenente territorialmente e culturalmente alla Russia, si trovò da un giorno all’altro ad appartenere ad un altro Stato straniero, creando un senso di trauma profondo nelle coscienze degli ex cittadini sovietici. In molti casi, questi videro le proprie famiglie divise da confini più o meno netti. Al di là, comunque, della sfera individuale, l’appartenenza della Crimea ad un altro Stato creava per la Federazione Russa un problema di tipo militare e strategico molto grave, di cui le concessioni per le basi militari e navali russe rappresentavano un rimedio palliativo e, in prospettiva, poco affidabile.
Quando Vladimir Putin salì al potere, la Federazione Russa emergeva da una crisi quasi decennale: i “terribili” anni ‘90 avevano dissipato non solo le risorse economiche del Paese che aveva subito almeno due meltdown finanziari, ma, e soprattutto, avevano umiliato il prestigio dello Stato Sovietico disgregandone l’Impero e smantellandone il sistema militare. Proprio sul senso di depressione e risentimento nutrito da gran parte della popolazione fece leva, nella sua campagna elettorale, Putin, quando promise di “cacciare nel cesso i ribelli ceceni”. Pur con slogan e obiettivi mutati, la sua autorappresentazione come uomo forte e risoluto a colpire il nemico e a restaurare la passata “grandeur” non è mutata in questi ultimi 14 anni di un potere diventato sempre più stabile anche grazie alla sistematica eliminazione o esautorazione di voci e forze dell’opposizione, vera o presunta. Nei confronti, poi, dell’Occidente, in particolare dell’Europa, ha applicato la massima romana del “divide et impera”, centellinando favori e concessioni commerciali e disgregando, così, ogni possibilità di un fronte unito in caso di crisi internazionale. L’Unione Europea si è rivelata incapace di giocare la partita dell’inclusione dell’Ucraina nella sua sfera d’influenza, ponendola di fronte ad un aut aut rispetto alle alleanze economiche con la Russia e, in seguito, non riuscendo ad elaborare una politica unitaria durante la crisi a causa dei troppi interessi particolari da difendere.
La secessione della Crimea, a chi conosceva le vicende della Regione, è apparsa, dopo tutto, la soluzione inevitabile di scelte gratuite e avventate del passato e anche di un problema strategico aperto e cruciale per la Federazione Russa. Sentimenti filorussi e anti-ucraini serpeggiavano da tempo tra la popolazione, la quale, in grande maggioranza (non senza incoraggiamenti propagandistici) ha salutato con favore il “ritorno” nel seno della “madre Russia”. I Tatari di Crimea guardano, però, con apprensione a questo processo, che andrà gestito con tatto nei confronti della popolazione musulmana per guadagnarne il consenso, senza ripetere i fatali e tragici errori del passato, remoto e recente. C’è da augurarsi, inoltre, che il nuovo Presidente ucraino sappia gestire con accortezza la situazione, demandando la tutela del dovuto orgoglio nazionale a superiori istanze internazionali piuttosto che a confronti diretti con il gigantesco e scomodo vicino, tacitamente accettando, così, lo status quo creatosi. Per quanto riguarda, infine, le Regioni orientali dell’Ucraina, dichiaratesi unilateralmente indipendenti, si deve sperare che l’attuale, apparente, disimpegno russo contribuisca a far raffreddare la temperatura, giunta a un punto di fusione che non promette sviluppi positivi per nessuno dei contendenti.

Gabriella Imposti
Professoressa associata confermata in Slavistica presso l’Università di Bologna

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