Uno Stato diviso

Gilberto Turati

A fronte di una situazione incoraggiante a livello nazionale, se ci spostiamo a livello locale troviamo delle diseguaglianze inaccettabili in uno Stato che ha fatto del suo SSN uno strumento di equità sociale. Per migliorare il SSN, più che parlare di nuove riforme, dovremmo cercare di capire come far funzionare quelle che già abbiamo provato a scrivere.

La Sanità pubblica italiana ha conosciuto – a partire dalla creazione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978 – almeno un paio di riforme “strutturali”, una all’inizio e una alla fine degli anni ’90. La prima nasceva in piena emergenza finanziaria, all’inizio del percorso doloroso di aggiustamento dei conti pubblici per raggiungere gli obiettivi previsti dal Trattato di Maastricht e si proponeva di spingere sul pedale dell’efficienza copiando dalle esperienze anglosassoni dei “quasi-mercati” e della remunerazione dei produttori basata sul sistema dei DRG. La seconda – realizzata alla fine del percorso di aggiustamento, quando, ormai, l’obiettivo dell’ingresso nel gruppo dei primi Paesi che avrebbero adottato l’euro era stato raggiunto – sconfessava, nei fatti, la prima, riportando al centro della Sanità pubblica il tema dell’equità, come nella legge di creazione del SSN del 1978, attraverso la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza. Queste riforme strutturali ci hanno fornito almeno tre insegnamenti:
1 –  le riforme sono più facili a scriversi che a realizzarsi e il diavolo sta nei dettagli (dai principi generali si deve passare ai decreti attuativi e lì nascono i problemi);
2 –  se la legge nazionale prevede di realizzare qualcosa, poi non è detto che le Regioni si attivino davvero (ad esempio, lo scorporo degli ospedali dalle ASL: solo la Lombardia, con un’unica eccezione, lo ha fatto davvero);
3 –  prima di operare una nuova riforma, bisognerebbe chiedersi se quella precedente ha funzionato o meno (ma, finora, l’attività di valutazione è sostanzialmente sconosciuta).
Ecco perché, forse, per migliorare il SSN, più che parlare di nuove riforme, dovremmo cercare di capire come far funzionare quelle che già abbiamo provato a scrivere. Discutere di un’ennesima riforma significa sapere da dove si parte e avere ben chiaro dove si intende arrivare. Ciò impone di avere prima un quadro dei fatti stilizzati riguardanti la Sanità italiana, poi degli obiettivi da raggiungere.
Proviamoci.
Esistono due livelli di analisi, quello nazionale e quello locale. A livello nazionale, considerando, quindi, il Servizio Sanitario Nazionale nel suo complesso, le questioni rilevanti circa il finanziamento, la spesa ed i risultati debbono essere declinate sulla base di un confronto con altri Paesi occidentali, simili al nostro in termini di sviluppo. Se si interpretano i numeri, a questo livello il SSN non può che essere considerato come la storia di un successo: rispetto ad altre Nazioni simili, consumiamo meno risorse, spendiamo relativamente poco e otteniamo degli ottimi risultati. Considerando i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità per garantire omogeneità nei confronti internazionali, nel 2008, ultimo anno disponibile, la quota di PIL destinata alla Sanità è risultata pari al 7% per il nostro Paese, contro l’8,8% della Francia e l’8% della Germania; solo Spagna e Grecia spendono meno di noi. In termini pro-capite, mentre Francia e Germania spendono quasi 3.000 euro a testa, noi ne spendiamo poco meno di 2.200. A fronte di questa spesa, i risultati in termini di salute sono molto buoni: l’aspettativa di vita media alla nascita è tra le maggiori dei Paesi occidentali, così come la mortalità infantile risulta tra le più basse. Negli esercizi di valutazione dell’OMS, inoltre, l’Italia occupa le prime posizioni della classifica internazionale, stilata sulla base di una pluralità di parametri, quali la spesa sanitaria, la salute, la capacità di rispondere ai bisogni dei cittadini, l’equità nella contribuzione. Come detto, facciamo bene spendendo relativamente poco.
A fronte di questa situazione incoraggiante a livello nazionale, se ci spostiamo a livello locale troviamo delle diseguaglianze inaccettabili in uno Stato che ha fatto del suo SSN uno strumento di equità sociale. Le conclusioni che si ottengono guardando a diversi indicatori e a diverse indagini prodotte sia dal Ministero della Salute, sia da centri di ricerca indipendenti, puntano tutte in un’unica direzione: le Regioni del Mezzogiorno mostrano performance peggiori rispetto a quelle del resto del Paese, spendendo relativamente di più: secondo uno studio della Banca d’Italia, se si considerano le differenze strutturali in termini di età delle popolazioni regionali, complessità dei casi trattati, mobilità dei pazienti, fatta 100 la spesa pro-capite nazionale, questa diventa 104 al Sud, 101,9 al Centro e 96 al Nord. Qualche esempio delle differenze in termini di performance utilizzando i dati forniti dall’ISTAT nel database Health for All, cominciando dalla qualità: in termini di soddisfazione per il servizio (un indicatore di qualità percepita), quasi un paziente su due è molto soddisfatto dell’assistenza medica ricevuta al Nord; al Sud si scende a meno di un paziente su tre. A questo dato si accompagna un altro indicatore indiretto di qualità, la quota di pazienti che si fanno curare in un’altra Regione: molto elevata in alcune Regioni del Sud, come la Calabria, in cui un paziente su cinque cerca cure altrove (a fronte di una media nazionale inferiore ad un paziente su dieci). Per quanto riguarda l’appropriatezza, le differenze sono ancora più marcate in alcune realtà territoriali meridionali. In questo caso, un indicatore considerato abitualmente è l’utilizzo del parto cesareo, che costa il doppio rispetto al parto naturale e porta allo stesso risultato (con, addirittura, maggiori rischi per le madri): al Nord meno di 3 bambini su 10 nascono con un cesareo; in Campania si sale a 6 su 10 e in Sicilia a 5 su 10.
Questa situazione crea due ordini di problemi, interconnessi, ma differenti, uno che riguarda, principalmente, le Regioni del Nord, l’altro quelle del Sud. Il primo è un problema di efficienza, il secondo di equità. Il primo ha a che fare con il finanziamento del SSN, il secondo con la spesa. Sulla questione del finanziamento, appare evidente come, per poter spendere risorse inesistenti – date le differenze in termini di reddito – le Regioni del Sud ricevano trasferimenti di risorse prelevate principalmente nelle Regioni del Nord. Lo Stato opera, cioè, una significativa redistribuzione per perequare le risorse a livello territoriale: lo ha sempre fatto in passato, lo avrebbe fatto in modo più chiaro con la normativa prevista dal D. Lgs. 56/2000 e l’istituzione di un fondo perequativo, continua a farlo ora, alla luce del recente D. Lgs. 68/2011, in modo non dissimile dal passato, nonostante alcune variazioni nominalistiche che parlano di costi e fabbisogni standard. Questa redistribuzione di risorse ex-ante è costosa in termini di efficienza perché impone livelli di tassazione relativamente elevati e perché, soprattutto, si accompagna ad una inefficacia dell’azione redistributiva stessa: le Regioni del Sud, infatti, sono caratterizzate da servizi peggiori. Ed è qui che nasce il secondo problema, quello di equità, di diseguaglianza nei servizi. I cittadini del Sud sperimentano quotidianamente difficoltà di accesso ai servizi maggiori e servizi di qualità peggiore rispetto ai cittadini del Nord e si chiedono perché ciò accada. La colpa – nella retorica corrente – viene attribuita alla mancanza di risorse. È questo tilt tra efficienza ed equità, tra Nord e Sud, a rendere difficile qualsiasi azione riformatrice nei confronti del SSN e che produce lo stallo, non solo nell’ambito della Sanità, ma – più in generale – nella vita del Paese: riforme che mirano ad un maggior grado di decentramento fiscale, che cercano di scardinare il meccanismo della spesa storica e di privilegiare l’efficienza e di ridurre gli sprechi, verranno avversate dalle Regioni del Sud, che vedono in questi tentativi politiche volte a ridurre le risorse a loro disposizione attraverso una riduzione della perequazione. Riforme che mirano, invece, a privilegiare l’equità, che cercano di uniformare davvero i servizi tra le aree territoriali del Paese, verranno avversate dalle Regioni del Nord, che vedono in questi tentativi politiche volte a ridurre le risorse (prelevate sul loro territorio) a loro disposizione attraverso un aumento della perequazione. Come coniugare queste due visioni del mondo è la sfida che si trova davanti chi intende cambiare il Paese, non solo la sua Sanità. Per poterlo fare è imprescindibile rispondere alle seguenti domande: che fine fanno le risorse che – redistribuite dalle Regioni del Nord a quelle del Sud – non si trasformano in servizi per i cittadini? Perché esistono disparità inaccettabili nei servizi nonostante la perequazione? Le risposte a queste domande possono essere molteplici: ad esempio, le difficoltà di programmazione (forse l’incapacità e il dolo, in alcuni casi) da parte delle classi dirigenti in alcuni contesti territoriali; la presenza del crimine organizzato, che allunga le mani sulla prima industria regionale in termini di fatturato e di occupazione; la mancanza di un sistema di sanzioni che si accompagni al sistema dei controlli, interni ed esterni, che pure ci sono e sembrano, invece, funzionare. Indipendentemente da quale sia la risposta corretta, è chiaro che si tratta di problemi che hanno solo in parte a che fare con la Sanità pubblica. Ecco perché le riforme di cui più ha bisogno il SSN, probabilmente, non hanno a che fare con il SSN. L’ennesima riforma del SSN rischia di peggiorare la situazione e questa non sarebbe una grande idea.

Gilberto Turati
Ricercatore del Dipartimento di Scienze Economico-Sociali e
Matematico-Statistiche,
Università degli Studi di Torino

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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