Inno alla Gioia

Francesco Giardinazzo

Ci volle più di un secolo e qualche catastrofe mondiale per porre in essere almeno una parvenza di quel sogno, oggi radunato nei 25 Stati membri che condividono, nella quasi totalità di essi, una moneta unica ed infiniti, ancorché articolati, problemi. E questo è quanto…

Ai popoli di Grecia e Cipro, nostri precursori. In tutto.
Caratteristica fondamentale di un inno (soprattutto musicale) dovrebbe essere quella di ispirare e ispirarsi a valori comuni e condivisi da coloro che in quell’inno si riconoscono, oltretutto apprezzando una componente fondamentale del loro modo di essere e pensare. Rimane da chiedersi se questa generalizzazione possa riguardare anche l’oggetto in questione, l’inno ufficiale dell’Unione Europea.
Quando Beethoven componeva la sua musica, i bancomat non c’erano. Nemmeno l’Europa era quella di oggi. Tralasciamo tutti i diversi e più o meno sacri romani imperi ed approdiamo al nostro Ludovico van e alla sua Sinfonia. Come sappiamo dalla più che imponente letteratura a riguardo, la sinfonia e l’ode schilleriana Alla Gioia (An die Freude) accompagnano il compositore fin dalla giovinezza ed emergono erraticamente in composizioni più o meno distanti per epoche ed argomenti, con l’univoco significato che questo tema e queste parole saranno una sorta di araba fenice per il Maestro fino a quando diventeranno la partitura che conosciamo ed ascoltiamo. Il testo dell’ode fu adattato da Beethoven, sottolineando, fra profezia ed utopia, quello che nessuno mai, all’epoca, avrebbe nemmeno potuto intuire. Ci volle più di un secolo e qualche paio di catastrofi mondiali, in effetti, per porre in essere almeno una parvenza di quel sogno – ad oggi, radunata nei 25 Stati membri che condividono, nella quasi totalità di essi, persino una moneta unica, ed infiniti, ancorché articolati, problemi. E questo è quanto…
Quanto si aspettava Beethoven e quella generazione di uomini che speravano nella libertà e nella giustizia? La stagione rivoluzionaria in Francia, poi la bufera napoleonica, andata del resto a consumarsi prima nell’illusione stendhaliana e poi nell’effettiva e più efficace tattica adottata dal “generale inverno”, comandante in capo dell’armata guidata da Kutuzov; la recrudescenza della reazione e di nuovo lo spazio per sperare, ed ottenere, la libertà. Sono cose che passano in sottofondo ogni qualvolta le note della Sinfonia Opera 125 in D minor risuonano con l’adeguato sfondo del vessillo europeo. Pagine eroiche, nobili figure dei Padri fondatori, tra i quali il nostro Altiero Spinelli, lacrime e sangue, valigie di cartone in giro per l’Europa che ancora non era unita, ma, anzi, piuttosto bisognosa di manodopera e perciò razzista, con le cicatrici dell’ultima guerra da curare, mucchi di macerie ovunque come nel Messaggio dell’imperatore di Kafka. Solo questo sogno resisteva. Poi, con il Trattato di Roma, si avvia quella che per me, e la mia generazione, era la C.E.E. – ma già così immediatamente qualificata quale “Comunità Economica”… E l’idealismo? La profezia sublime? E quei milioni di uomini dell’inno?
Qui comincia lo stridio tra la musica meravigliosa di Beethoven e la piuttosto stonata realtà che quella musica dovrebbe rappresentare “urbi et orbi”. Ecco, questa cosa, questo stridìo, forse vanno capiti un po’ meglio, non per migliorare la qualità della stonatura, quanto per capirne l’origine disarmonicamente evidente. Quello che oggi appare sempre più chiaro, già dalle crisi di Grecia e Cipro, è una netta divisione, direi storicamente determinata, fra l’Europa del Nord, o gotica, e quella meridiana, o mediterranea – secondo una celebre distinzione di Camus. Come conciliare la tragicità solare con la solennità sinfonica? Questi, se non proprio questi, sono sempre stati i grandi problemi che, fin dal Trattato di Roma, ostacolano una vera visione federale dell’Europa, soffocata dagli interessi di parte, dagli squilibri in seno alla rappresentanza parlamentare, dai fin troppo noti diktat di troike varie e dai calcoli sugli andamenti di “derivati”, “spread”, “prime”, e chi più ne ha di inglese commerciale da mettere, ne metta.
Cosa c’entra la tragedia con Dioniso? si chiedevano gli antichi. Cosa c’entra l’Europa della BCE con Beethoven? La divaricazione è fin troppo netta per passare inosservata. La libera circolazione delle merci, dei capitali, delle persone non ha innestato quel sentimento unitario che, tra l’altro, ha ricevuto solenni bocciature in occasione dei referendum sull’adesione alla Costituzione Europea. Di gioia, e di promesse dell’avvenire, ce ne sono davvero in poca quantità. Si fa fatica a non sentire che la divisione più profonda – corrispondente alle miserie di casa nostra – si pone, oramai, tra chi possiede e non intende condividere con chi ne ha di meno. La “fraternità” non si può basare soltanto sui bilanci, e la correttezza non è solo nell’obbedienza alle banche centrali le quali, del resto, hanno permesso tutte le nefandezze della “finanza creativa” senza conseguenze per questa e con pesanti ritorsioni, invece, sulla gente. Avrebbe Beethoven amato questo atteggiamento? Non gli sarebbe parso come l’astro napoleonico fra le cannonate di Jena, una vera e propria negazione di un mito?
Eppure, questa musica sembra più grande di qualsiasi considerazione contingente. Lo è davvero, forse è troppo grande per poter rappresentare soltanto un aggregato incerto quale l’Europa di oggi. Verrebbe da pensare a quali plausibili sostituti potrebbero avanzare una candidatura. Immediatamente, viene in mente Yesterday dei Beatles. Melodia e testo sono perfettamente in sintonia con quello che pensiamo quasi tutti oggi: è più facile credere a “ieri” quando un musicista componeva sperando nel futuro. Dovremmo riguadagnarci il diritto di essere rappresentati da quella grande composizione. Finora è davvero troppo al di sopra delle nostre possibilità.

Francesco Giardinazzo
Professore a Contratto di Antropologia dei processi comunicativi e Letteratura Italiana
Università di Bologna Alma Mater Studiorum

Rispondi