Europa, una pagina da riscrivere?

Elisabetta Vignando

L’Unione Europea dei tecnocrati e dei banchieri non è l’Europa delle Patrie. Euroscetticismo, poteri forti e diseguaglianze sociali mettono a rischio il futuro dell’Unione Europea per colpa delle ricette tecnocratiche e iper-liberiste imposte da Bruxelles.

Giorno dopo giorno, gli eventi che hanno segnato la crisi ci hanno insegnato che i mercati, ormai, dettano i loro Stati di diritto. Per le persone, una cosa è chiara: i leader politici non servono gli interessi dei loro cittadini, ma quelli di altri Stati o organizzazioni internazionali – come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Unione Europea (UE) – lontano dai vincoli della Democrazia. Molto spesso, questo è descritto come il necessario sforzo per garantire la stabilità generale.
Ma è davvero così?
è altrettanto evidente che la “Grande Recessione” e il quasi collasso delle finanze pubbliche sono la manifestazione di uno squilibrio fondamentale nelle società a capitalismo avanzato, diviso tra le esigenze del mercato e quelle della Democrazia.
Il “capitalismo democratico” costituisce la probabile ragione dei disordini e dell’instabilità dei Paesi Europei e, in larga parte, dei Paesi occidentali?
Alla fine del 1960, tre soluzioni sono state implementate per superare la contraddizione tra Democrazia politica e capitalismo di mercato.
La prima è stata l’inflazione, la seconda il debito pubblico e la terza il debito privato.
La configurazione del rapporto tra poteri economici e forze politiche e sociali ha rappresentato a lungo il modello applicato dalle “Democrazie occidentali”.
Questi accordi sono stati, però, messi in crisi uno dopo l’altro, sino ad arrivare alla tempesta finanziaria del 2008 che ha segnato la fine del terzo periodo e ha aperto un varco per qualcosa di nuovo, ad oggi ancora incerto.
Molti decenni di crescita ininterrotta hanno alimentato la convinzione che il progresso socio-economico costituiva un diritto inerente alla cittadinanza democratica. Questa visione del mondo è stata ampiamente espressa, nell’allargamento dell’Unione Europea, dal Trattato di Maastricht siglato nel 1992 e dal recente Trattato di Lisbona.
I parametri imposti da Bruxelles hanno però snaturato le economie dei Paesi membri dell’eurozona.
Escludendo l’Italia, da due mesi senza Governo, i numeri che arrivano dalla Francia meritano comunque grande attenzione in un anno, il 2013, destinato a rappresentare il banco di prova per l’economia parigina, in netta frenata. Recentemente, il Ministro degli Esteri Laurent Fabius ha ammesso che la crescita per l’intero 2013 non andrà oltre lo 0,2-0,3% e sarà, in caso, lontana dall’obiettivo dello 0,8%
Di questo passo si complica la strada intrapresa da Parigi nell’abbattere il rapporto deficit/Pil dal 5,7% (vicino al doppio rispetto al 3% previsto come soglia massima dai trattati di Maastricht) all’1% entro il 2015. Si consideri, inoltre, che la spesa pubblica francese (comprendendo quella produttiva che muove il Pil e quella improduttiva) supera il 50% e supera ampiamente persino la tanto criticata spesa pubblica italiana. Insomma, i dati indicano che Parigi, in questo momento, è come un pendolo che oscilla tra la stagnazione ed un timido tentativo di ripresa. Basterà questo per rilanciare i conti entro il 2015, come promesso prima da Sarkozy e poi dal suo successore Hollande?
Joseph Stiglitz, e tanti altri, affermano: “Non si esce dalla crisi a colpi di tagli”. La controprova è fornita proprio dall’economia degli Stati Uniti. L’Amministrazione Obama ha la fortuna di non sottostare all'”ordo-liberismo” della Merkel, né ai parametri di Maastricht o ad altre versioni aggiornate di “fiscal compact”. Washington ha chiuso il 2012 con un deficit federale superiore all’8% del Pil, un livello che, nella UE vecchia maniera, farebbe invocare commissariamenti esterni. è anche grazie al motore keynesiano della spesa pubblica che l’America vanta una crescita vicina al 3% annuo, che genera costantemente oltre 150.000 nuove assunzioni da due anni a questa parte, e che ha ridotto la disoccupazione dal 10 al 7,8%. Tutte le economie mondiali che hanno scongiurato la crisi o ne sono uscite in fretta – vedi le potenze emergenti del Brics – hanno fatto ricorso a qualche variante della ricetta keynesiana.
Quello che oggi sta accadendo nell’Unione Europea accadeva dieci anni fa in Argentina, quando il Paese era un focolaio di proteste e le strade delle sue città principali erano affollate da manifestanti che urlavano “basta!” al Governo. Fu allora che si cominciò a scrivere una nuova storia.
Quella crisi fu il risultato di politiche di aggiustamento imposte dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) negli anni ’90, le stesse che hanno portato l’Europa a ritrovarsi oggi in questa situazione.
Dopo tre anni di caduta del Pil, forti tagli alla spesa pubblica ed un crescente indebitamento, la situazione precipitò, costringendo il Presidente Fernando de la Rúa a dimettersi a metà del suo mandato. Nel giro di due settimane, quattro Presidenti provvisori si avvicendarono in rapida successione. Intanto, la povertà aveva colpito oltre il 52% della popolazione e si registrava una disoccupazione del 24%.
Alla fine, il Governo dichiarò il default sulla maggior parte del debito pubblico, di fronte allo sgomento di operatori finanziari nazionali ed esteri. Il Presidente eletto dal Parlamento, Eduardo Duhalde, emanò la Legge di Convertibilità, la quale stabiliva un tasso di cambio fisso tra il peso argentino ed il dollaro.
La svalutazione della moneta e il risanamento del debito, assieme all’emissione di titoli di stato con alti sconti del valore nominale e scadenze a lungo termine prorogabili, diedero il via alla ripresa economica nel 2003, quando fu eletto presidente Néstor Kirchner, leader del Partito Justicialista (peronista) di centrosinistra.
Da allora, il Paese ha registrato una crescita media annua compresa tra il 7 ed il 10%, tranne nel 2009, in cui si è fermata allo 0,9% a causa dell’impatto della crisi economico-finanziaria scoppiata l’anno precedente negli Stati Uniti.
La ripresa economica e una serie di programmi sociali adottati prima da Kirchner e poi, dal 2007, dalla moglie che gli succedette, Cristina Fernández, hanno ridotto drasticamente i tassi di povertà e disoccupazione fino a valori inferiori al 10%. Ora, sebbene i problemi sociali siano una delle cause principali dell’instabilità politica del Paese, l’Argentina “sta meglio grazie a una buona gestione delle variabili economiche”, favorite dal rialzo dei prezzi internazionali delle materie prime, principale fonte di esportazione del Paese.
L’Europa ci sta arrivando in ritardo, sulla scorta di un ravvedimento. è ancora Juncker il più colorito, rispolverando addirittura l’autore del Manifesto comunista: “Occorre ritrovare la dimensione sociale dell’Unione economico-monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i Paesi della zona euro, altrimenti, per dirla con Marx, perderemmo credibilità verso la classe operaia”. Molto dipende ancora dalla Germania e dall’esito delle sue prossime elezioni. Il tedesco Martin Schulz, socialdemocratico che presiede l’Europarlamento, dà un’idea dell’orientamento nel suo partito quando ricorda di aver sostenuto l’azione di Mario Monti “sul principio di ricostruzione della fiducia”, ma precisa che questo sostegno non si applica “ai dettagli delle misure”. Le grandi manovre sono in atto per prendere le distanze da una politica che non ha fornito i risultati promessi.
Euroscetticismo, poteri forti e diseguaglianze sociali sono i frutti avvelenati che mettono a rischio il futuro dell’Unione Europea per colpa delle ricette tecnocratiche e iper-liberiste imposte da Bruxelles.
In una recente conferenza stampa, organizzata per celebrare il nuovo anno, Schulz ha dichiarato senza timore di condividere alcuni “disagi” espressi dal premier britannico David Cameron. “Condivido questo disagio nei confronti della UE, così come è ora. Penso vi siano anche molte persone in Europa che avvertono questo disagio” ha sottolineato Schulz, ribadendo il concetto. “Ed è per questo che consiglio davvero di non etichettare tutti coloro che criticano l’Unione Europea come euroscettici”.
Ma oltre a questi segnali di crisi generale e strutturale della UE, il Presidente dell’Europarlamento è intervenuto sottolineando anche altri problemi legati alle disuguaglianze sociali. “L’Unione Europea – ha dichiarato Schulz – non se la passa bene. Dobbiamo fare meglio”. Per quanto riguarda i difetti – ma sarebbe meglio definirle piaghe – il Presidente ha puntato il dito contro gli sviluppi economici che hanno portato a più “ingiustizia sociale” e ad un deficit di Democrazia che – a suo dire – non ha tanto a che fare con le istituzioni europee stesse, ma con “un’opaca capacità decisionale della UE”. “Questo perché” – ha proseguito il Presidente dell’Assemblea di Strasburgo – “le istituzioni dell’Unione si riuniscono a porte chiuse. Tutto quello che accade a porte chiuse è anonimo e lascia ampio spazio alle interpretazioni”.
Insomma, il politico socialdemocratico tedesco è stato piuttosto esplicito nel sottolineare che le scelte decisionali europee sono prese all’insaputa dei popoli europei i quali, invece, subiscono passivamente il potere dei tecnocrati di Bruxelles, legati mani e piedi a lobby, multinazionali, banche e poteri forti dell’Occidente euro-atlantico, e a cui devono spesso la loro nomina quali commissari o presidenti alle più alte cariche nelle istituzioni europee. Molte delle critiche legittime sulla UE riguardano il futuro ruolo degli stessi Parlamenti nazionali: le questioni riguardanti il nucleo stesso di uno Stato sovrano a livello nazionale – come, ad esempio, la politica di bilancio – vengono decise a Bruxelles in misura sempre maggiore.
Appare ormai evidente che in questa sede vengono assunte le decisioni più importanti per il futuro dell’Unione ed i tecnocrati stanno decidendo la creazione progressiva di un SuperStato UE sotto la loro regia e quella del mondo euro-atlantico che muove ogni cosa per volere dell’impero a stelle e strisce.
A questo punto, Schulz ha suggerito che il blocco dei Ventisette dovrebbe concentrarsi su ciò che i singoli Stati non possono fare da soli e, al tempo stesso, essere più disposto a delegare la soluzione di alcuni problemi a livello locale. “Dovremmo essere abbastanza pronti a delegare alcune questioni più piccole agli Stati membri. Mi piacerebbe discutere anche di questo in Parlamento” – ha commentato. Ma il politico tedesco non si è fermato qui e ha poi cercato di sottolineare quali siano le altre problematiche che minacciano il futuro dell’Unione: “Quando sono arrivato qui, ero convinto che saremmo diventati gli Stati Uniti d’Europa. In realtà, ho visto una sorta di Stati Uniti d’America sul territorio europeo. Da allora ha realizzato che, proprio per questo, «avremmo tirato fuori dei Texani dai Tedeschi o dei Californiani dai Francesi»”.
Una bella critica, quella di Schulz. Ha evidenziato con acume alcuni degli errori che stanno distruggendo definitivamente l’Europa dei popoli e la sua cultura millenaria.
Errori, però, in qualche modo insiti nella natura stessa dell’idea di Stati Uniti d’Europa dopo la sconfitta subita con la Seconda guerra mondiale. Il termine ha finito per identificarsi con quello utilizzato per definire gli Usa (ovvero Stati Uniti d’America) e le terminologie utilizzate per indicare il progetto europeo si erano trasformate fin troppo, mutandone il significato originario di mazziniana memoria.
Nel suo recente discorso, David Cameron ha espresso un sentimento proprio della Gran Bretagna, ma presente anche altrove nel Vecchio Continente: l’Unione Europea “è subita dalle persone invece di agire per loro conto”. Ma pur essendovi la consapevolezza del problema, non vi è accordo su come agire al riguardo per mettere fine alle critiche e alle condanne espresse da tutti i ceti sociali che compongono i popoli europei.
L’Unione Europea dei tecnocrati e dei banchieri non è l’Europa delle Patrie, fondata su un comune destino storico, politico e culturale dei POPOLI.
Una pagina ancora tutta da scrivere.

Elisabetta Vignando
Advisor United Nations Industrial Development Organization (UNIDO Vienna) Nazioni Unite

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