Euro e Democrazie

Davide Giacalone

Nel costruire il pilastro dell’unione politica, non possiamo dimenticare chi siamo: i popoli che diedero sostanza istituzionale alla Democrazia moderna. Per costruire quel pilastro, quindi, non se ne deve negare la natura.

La crisi che ha colpito i debiti sovrani non è certo una bella cosa, ma rappresenta un’ottima occasione per far compiere un balzo in avanti al processo d’integrazione europea. Anni duri potranno essere ricordati come la premessa di un bene.
Quel che separa il problema dalla sua soluzione è un deficit di conoscenza storica e coscienza politica. Non solo la nostra, ma le classi politiche europee si sono fin qui dimostrate al di sotto della sfida.
Premetto tre aspetti in modo da chiarire il mio punto di vista:
1. è la debolezza strutturale dell’euro ad avere consentito la speculazione contro i debiti sovrani, quindi l’allargarsi degli spread;
2. non esistono politiche settoriali o nazionali idonee a porre rimedio a questa condizione;
3. il consolidamento della finanza pubblica deve essere condotto mediante tagli alla spesa corrente e non attraverso un aumento della pressione fiscale.
Con la creazione dell’euro, i Paesi dell’Unione monetaria europea accettarono di cedere sovranità valutaria, affidandola però ad una specie di pilota automatico che funzionava secondo i dettami del Trattato di Maastricht. Quel pilota s’è dimostrato inadatto ad affrontare la crisi dei debiti, originata negli Stati Uniti. Era stato programmato per un clima specifico (la paura dell’inflazione) e non ha funzionato con diversa meteorologia (viviamo nel pieno di una recessione). Mario Draghi è stato il primo, dalla plancia della Bce, a prendere in mano i comandi ed a disinserire il pilota automatico. Nel novembre del 2012, in un’eccellente riflessione pubblica, ha affermato che un diverso equilibrio deve essere costruito su quattro pilastri: l’unione bancaria, quella fiscale, quella economica e quella politica. Giusto. Esprimo una sola obiezione: l’unione monetaria non può funzionare senza banche che coprano ed agiscano nell’intera area valutaria di riferimento senza un’armonizzazione fiscale e senza una comune politica economica. Nel momento in cui i Governi cederanno (quel che resta) di queste sovranità, il loro peso politico sarà prossimo allo zero. Si tratterà solo di amministrazioni locali in un’area federata, se non direttamente un’Unione federale. Ciò significa che quei quattro pilastri devono essere eretti contemporaneamente e che l’unione politica non può giungere per ultima.
Dall’estate del 2011 ad oggi, nel mentre la bufera degli spread annientava i Governi uno dietro l’altro, abbiamo fatto i conti con un terribile deficit democratico delle istituzioni europee. Nel costruire il pilastro dell’unione politica, non possiamo dimenticare chi siamo: i popoli che diedero sostanza istituzionale alla Democrazia moderna. Per costruire quel pilastro, quindi, non se ne deve negare la natura. Perché la UE abbia un futuro, è necessario che finisca la stagione delle tecnocrazie e si apra quella della politica europea. Questa non è la sommatoria delle Democrazie nazionali, oramai vernacolari. Siamo sulla soglia di un passaggio epocale. Stona, purtroppo, il dislivello del dibattito politico interno.
Noi sappiamo da dove veniamo, conosciamo il valore della moneta comune (e quanto ci sia costata). Sappiamo che non è istituzionalmente attrezzata a resistere senza un Governo politico alle spalle, specie in un mondo in cui presto sarà convertibile anche la valuta cinese, il Renminbi. Sappiamo dove intendiamo arrivare, edificando quei pilastri. Il problema è rappresentato dal tragitto, dai tempi e dal modo. Quel che non può e non deve avvenire è che ci si trovi di fronte a cessioni asimmetriche di sovranità, per cui prima alcuni diventano protettorati monetari di altri e poi si giunge alla conclusione del lavoro. Non può e non deve succedere perché questo tipo di passaggio porta con sé non solo cessione unilaterale di sovranità politica, ma anche deflusso di ricchezza sottratta ai cittadini ed indebolimento del sistema produttivo, mediante perdita di competitività indotta da tassi d’interesse più onerosi per alcuni ed addirittura pari a zero per altri.
Si tratta di un punto delicatissimo, che va affrontato con chiarezza d’idee e d’intenti. Non dimentichiamoci che, nel secolo scorso, l’Europa trascinò il mondo in due guerre (per allora) globali, innescate da nazionalismi alimentati da conflitti economici. Oggi, in era di effettiva globalizzazione, quello scenario è irripetibile, ma non lo è l’autodistruzione europea. Se si alza lo sguardo dalle questioni monetarie e si pensa allo scenario della guerra libica, del resto, ci si accorge che non mancano gli esempi.
La stabilità, l’affidabilità e l’irreversibilità del processo d’integrazione non costituiscono una garanzia solo per chi si trova in stato di crisi, ma anche per chi vanta dei crediti. Vale la pena aggiungere che i debiti sovrani di chi impartisce lezioni sono cresciuti, come documentato nel primo capitolo, più di quelli di chi era impegnato nei compiti a casa. Evidenza ineludibile.
La crisi rappresenta una grande occasione per far compiere un balzo in avanti alla UE e farle conquistare la propria storia. Perché ciò avvenga, si deve ripensare anche il nostro modello sociale, giustamente ammirato nel mondo, ma che oggi richiede una cura dimagrante per lo Stato, compresi gli aspetti sperequativi del welfare, abbassando la pressione fiscale.
Non esiste solo il contagio della crisi perché l’idea, pessima, di mettere Democrazia e mercato in contraddizione minaccia di scatenare un’epidemia. Guardiamo la piazza greca e domandiamoci cosa succederebbe, in qualsiasi parte d’Europa, in condizioni analoghe. Chiediamoci quale sarebbe la reazione dei cittadini al sentir dire che l’approvazione parlamentare delle condizioni imposte dalla troika (Bce, Commissione e Fmi) ha risollevato le Borse. Degli altri. Interroghiamoci su come verrebbe accolto, in qualsiasi Democrazia, l’annuncio che la spesa pubblica debba essere tagliata duramente, ad eccezione di quella che riguarda gli investimenti nelle armi. E ricordiamo che, prima di comparire nelle piazze italiane, i black block si esercitarono ad Atene.
Ci sono colpe greche, lo abbiamo detto e ripetuto, ricordando a noi stessi che non si può stare dentro una moneta unica e continuare ad espandere spesa pubblica e debito senza il rispetto di alcuna compatibilità. Ci sono colpe europee, consistenti nell’avere affrontato il sorgere della crisi con l’occhio rivolto alla tutela delle banche e cieco innanzi alle conseguenze politiche. Il sommarsi delle colpe non si compensa, non mette la bilancia in equilibrio, ma la fa saltare e moltiplica gli effetti negativi. Ci sono forze e movimenti che puntano sulla crisi per soddisfare la propria vocazione antistatale, antieuropea, nemica del mercato. Vanno sconfitti. Ma non ci riusciremo mai se Stato, Europa e mercato divengono sinonimi di depressione ed impoverimento, quasi che un popolo debba scontare le colpe della propria classe politica. Quella stessa classe trovò complicità e sponde nei gruppi dirigenti degli altri Paesi, nelle istituzioni bancarie e finanziarie, negli ambienti politici che vollero allargare l’euro e la UE senza riguardo all’innescare una bomba ad orologeria.
Prendete il caso delle armi. La Grecia presenta un bilancio della Difesa tradizionalmente ricco, essendo ciò dovuto anche al fatto che ha rappresentato, assieme alla Turchia, per molti lustri, il confine orientale della Nato. Data la complessità dei rapporti fra Grecia e Turchia, i militari hanno avuto grande influenza, dall’una e dall’altra parte. Quegli stessi investimenti nella Difesa possono ancora rispondere ai comuni interessi europei, ma non certo a quelli esclusivamente ellenici. Europei, oltre tutto, sono i venditori interessati. Ebbene: come può spiegarsi a chi sarà licenziato, o a chi viene ricoverato e non trova assistenza adeguata, che la spesa militare non può essere toccata, per il bene della UE e per la convenienza di costruttori tedeschi e francesi, ovvero di quegli stessi Governi che impongono i tagli? E’ ovvio che una tale condotta getta benzina sul fuoco.
Quelle fiamme, a loro volta, scalderanno il brodo nel quale ribollono disagi forti e letture rozze della realtà, dalla Francia all’Inghilterra e dalla Germania all’Italia. Se si prova a chiedere un’opinione sull’Europa, o sulle banche, si ottengono, dai popoli, risposte terrificanti. Il fatto che ciascuna elezione nazionale non si decida (fin qui) su questi temi, ma si risolva in una disfida dialettale, non solo non rassicura, ma suggerisce l’ulteriore aggravante dell’irrilevanza democratica rispetto alla preponderanza della finanza. Sono temi con i quali è pericoloso giocherellare.

Davide Giacalone
Giornalista e scrittore

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