Cittadini d’Europa

Lucia Serena Rossi

L’Unione Europea presenta numerose peculiarità rispetto alle altre organizzazioni internazionali, ma la caratteristica che, forse, più la differenzia, e che spinge a chiedersi se si possa ancora parlare di un’organizzazione internazionale, è il rapporto sempre più stretto che essa è riuscita ad instaurare con i cittadini degli Stati membri, trasformandoli in “suoi” cittadini.

Non è facile definire la natura dell’Unione Europea perché oggi essa non sembra rientrare in nessuno dei modelli classici conosciuti nel diritto internazionale (organizzazione internazionale, Confederazione, Stato federale). In realtà, l’Unione Europea è un sistema dinamico, in evoluzione, che ha attraversato varie fasi.
Quando fu fondata, sulla base del Trattato di Roma del 1958 (dopo l’esperimento riuscito della Comunità del Carbone e dell’Acciaio del 1952 ed il fallimento di un’Unione di Difesa del 1953), era un’organizzazione internazionale, sebbene già diversa dalle altre in quanto dotata di poteri estremamente ampi, istituzioni autorevoli ed indipendenti ed obiettivi tanto vasti quanto ambiziosi. Il metodo “funzionalista” ideato dai Padri fondatori consisteva nell’ancorare la nascente Comunità Economica Europea a traguardi economico-commerciali, il raggiungimento dei quali avrebbe però comportato una crescente integrazione europea. L’obiettivo non dichiarato era quello di arrivare, progressivamente, ad una federazione.
A partire dal 1963, la Corte di Giustizia affermò che la Comunità era “un ordinamento di nuovo genere nel panorama internazionale”, che crea una fitta rete di obblighi e diritti reciproci tale da non rendere più possibile che le relazioni fra gli Stati membri siano regolate dai classici principi del diritto internazionale. Si affermava così l’idea di un ordinamento autonomo, che traeva le proprie radici dal Trattato istitutivo, dagli atti adottati in base ad esso e dalle sentenze della Corte di Giustizia. La Corte affermò gli effetti diretti e la supremazia del diritto comunitario rispetto agli ordinamenti degli Stati membri.
Cominciava così un lungo cammino in senso sovranazionale che, attraverso numerosi allargamenti (da 6 a 27 Stati, che diventeranno tra pochi mesi 28 con l’adesione della Croazia) e diversi Trattati di revisione (Atto Unico, Maastricht, Amsterdam, Nizza e Lisbona), ha portato all’attuale Unione Europea.
L’Unione Europea presenta numerose peculiarità rispetto alle altre organizzazioni internazionali, ma la caratteristica che, forse, più la differenzia, e che spinge a chiedersi se si possa ancora parlare di un’organizzazione internazionale, è il rapporto sempre più stretto che essa è riuscita ad instaurare con i cittadini degli Stati membri, trasformandoli in “suoi” cittadini.
Sebbene con alcune battute d’arresto e cadute (come quella del Trattato costituzionale, fallito a seguito di referendum in Francia e Olanda), la direzione dello sviluppo appare chiaramente in senso sovranazionale.
Il grado di integrazione e di sovranazionalità è però tuttora molto diverso nei vari settori. Da un lato, in campo agricolo, nemmeno il Governo federale americano dispone di poteri come quelli propri dell’Unione Europea. La politica commerciale è paragonabile a quella di un Governo federale. La moneta unica è competenza esclusiva della UE. D’altro lato, rimangono ancora nelle mani degli Stati membri la politica economica, quella occupazionale e gran parte di quella sociale. In materia di politica estera e difesa, alla UE è stata attribuito solo un debolissimo potere di coordinamento. L’adozione di misure fiscali è possibile soltanto all’unanimità e risulta, quindi, perennemente bloccata dal veto di un paio di Stati. Queste disparità di poteri nei vari settori creano uno squilibrio responsabile, in parte, della crisi attuale. Per questa ragione, è di più Europa che abbiamo bisogno per uscire dalla crisi.
La matrice internazionalistica di organizzazione internazionale è comunque ancora presente poiché gli Stati membri sono i Lords of the Treaties e solo con il loro unanime accordo è possibile modificare i Trattati istitutivi.
L’ordinamento europeo ha subito un’evoluzione graduale, sicuramente non prevedibile in base ai Trattati iniziali, frutto della giurisprudenza della Corte di Giustizia e di una crescita di peso del Parlamento europeo e delle politiche della Commissione. L’integrazione europea è però un processo di “fusione fredda”. Nessuna Nazione europea è sorta: al contrario, il segreto del successo dell’Unione è quello di preservare le identità nazionali (non a caso, il motto dell’Unione previsto dal Trattato costituzionale era “uniti nella diversità”). Ed anche se il concetto di cittadinanza dell’Unione, che fece il suo ingresso nel Trattato con la revisione di Maastricht, è ancora piuttosto embrionale, il problema dell’appartenenza e dell’identità europea, sicuramente inimmaginabile nel 1952, sembra oggi divenuto prioritario per il futuro dell’Unione. La Carta dei diritti può giocare un ruolo determinante nella formazione di una comunità di valori condivisi e dunque anche di un’identità europea.
La domanda che sorge è, pertanto, se il processo di integrazione europea abbia già prodotto, da un punto di vista sostanziale, o sia comunque destinato a creare, uno Stato federale. Anche se, allo stato attuale, può essere utilizzata la formula della “Federazione di Stati-Nazione”, coniata da Jacques Delors, sembra per il momento poco probabile che l’Unione, almeno nella totalità dei suoi Stati membri, si evolva verso uno Stato federale. Nonostante la sua espansione territoriale, l’Unione ha sin qui non solo mantenuto, ma, anzi, accresciuto, il livello di integrazione.
La costante dinamica fra approfondimento dell’integrazione ed allargamento a nuovi Stati comincia, tuttavia, a diventare problematica e si pone con sempre maggiore frequenza il tema delle geometrie variabili e delle cooperazioni rafforzate. Si registrano tensioni e differenziazioni crescenti, soprattutto nel campo dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nel quale, a seguito di opting out, l’applicazione delle norme comuni è tutt’altro che uniforme, e in materia monetaria, nella quale zona euro, fiscal compact e meccanismo di stabilità creano zone di integrazione differenziata non coincidenti tra loro. Uno dei possibili scenari di evoluzione dell’Unione Europea è, appunto, quello di un’integrazione differenziata.
L’Unione Europea rappresenta, dunque, ancora un modello senza precedenti nelle relazioni internazionali, anche se oggi ben diverso da allora e tuttora in evoluzione. La stessa sovranazionalità, che pure caratterizza tale processo, si risolve non in una divisione dei poteri fra Unione e Stati membri, ma in una sorta di “interconnessione” degli stessi: l’esecuzione delle sentenze della Corte di Giustizia e l’applicazione delle norme comunitarie sono nelle mani degli Stati, il controllo sull’applicazione dei diritti fondamentali è condiviso fra Corte di Giustizia e giudici nazionali ed ogni Corte nazionale stabilisce autonomamente i limiti al primato del diritto comunitario all’interno del proprio ordinamento.
Forse la definizione migliore, perché, appunto, non costringe a forzate similitudini con le formule già sperimentate sul piano internazionale o statuale, è quella secondo la quale l’Unione Europea è un progetto di integrazione aperto e flessibile. Nonostante le sue numerose realizzazioni, infatti, non ha ancora perso la sua caratteristica di progetto, realizzato, testato e modificato assieme all’ordinamento stesso, a seconda delle esigenze storiche e del consenso politico degli Stati membri. Lasciato ormai da tempo il lido delle organizzazioni internazionali, si intravede una sponda di arrivo, quella degli Stati Uniti d’Europa, anche se, forse, non tutti gli attuali membri vi approderanno. Ma è in mezzo al guado che le correnti sono più forti ed è più facile affogare.

Lucia Serena Rossi
Professore Ordinario di Diritto Internazionale e Direttore C.I.R.D.C.E. (Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Diritto delle Comunità Europee) Università Alma Mater Studiorum di Bologna

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